L'uomo che amava i bambini
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Una famiglia non comune
Se il titolo e l’autrice di questo corposo romanzo, tuttora poco conosciuto in Italia, suscitassero perplessità nei potenziali lettori forse basterebbe prendere in considerazione il fatto che J. Franzen (non serve aggiungere altro) ha scritto un’interessantissima introduzione a dimostrazione della validità di quest’opera. In maniera del tutto “provocatoria” e divertente, Franzen scrive che “Vi sono diverse ragioni per non leggere L’uomo che amava i bambini. Tanto per cominciare, si tratta di un romanzo….” e ancora più sotto precisa “Leggere L’uomo che amava i bambini comporterebbe un uso particolarmente frivolo del tempo…..Parla di una famiglia, e per giunta di una famiglia molto particolare e sopra le righe”.
In effetti già il titolo deve essere letto e interpretato con i corretti strumenti, con quella giusta dose di leggerezza e candore di cui la Stead risulta dotata: Sam Pollit il capo famiglia di questa strampalata “tribù” composta da moglie e sette figli, ama veramente la propria prole di un amore smisurato, ma è altresì un padre narcisista, egoista, viziato e profondamente immaturo nel suo ruolo genitoriale. Sam gioca e scherza con i figli (tutti bambini piccoli sotto ai dieci anni ad eccezione di Louisa la primogenita nata dal precedente matrimonio), inventa per loro un “lessico famigliare”, un codice parlato divertente e accattivante costituito da storpiature di parole, nomignoli e filastrocche, ma allo stesso tempo non perde occasione per coinvolgerli nei lavoretti domestici e nella gestione della casa. In sintesi Sam, che trasforma tutto il menage familiare in un gioco per nascondere le precarie condizioni economiche e la scarsità di denaro, si erge come un capobranco che desidera essere riverito e glorificato. Già da questi elementi è quindi possibile intuire l’obiettivo della Stead in questo romanzo dal sapore fortemente autobiografico: l’autrice australiana parla di un uomo (sicuramente riconducibile alla figura paterna) letteralmente sui generis che dissimula i tesi rapporti matrimoniali con la moglie Henny, con la quale instaura una guerra quotidiana, dietro ad una facciata “da famiglia felice”. La Stead descrive la precarietà di un matrimonio mal riuscito vissuto nella conflittualità più totale, in cui “Sam era lo zar di casa per diritto divino, ma Henny era l’eterno antagonista di questo zar”. Il conflitto tra moglie e marito rappresenta l’ossatura, la colonna portante di questo romanzo in cui Henny, borghese decaduta, viziata e inadatta al matrimonio, non manca di inveire quotidianamente contro il marito (“Mi hai presa, maltrattata, quasi fatta morire di fame…...mi obbligavi a stare qui in questa casa che pare un dente cariato”).
Tra questi due poli troviamo i figli, elementi di un focolare domestico in cui ogni genitore lotta per sottrarne all’altro le attenzioni. In particolare Louisa, la primogenita alter ego dell’autrice, “il brutto anatraccolo” che attraverso la sofferenza respirata all’interno di questa famiglia disfunzionale, tenta di elevarsi, per potere finalmente spiccare il volo. La Stead carica sulle spalle della piccola “Louie” il peso delle complesse dinamiche familiari, evidenziando il disprezzo di cui spesso è vittima da parte di Henny, che essendone la matrigna vede nella figliastra il riflesso dell’odiato coniuge (“Ho sopportato te e la tua puzzolente marmocchia e i suoi pidocchi….Sono dieci anni ed è troppo, non ne posso più”).
L’uomo che amava i bambini è un romanzo che merita fiducia e pazienza, considerata la sua corposità. La prosa e lo stile dell’autrice possono risultare inizialmente di non facile assimilazione, anche a causa di quel lessico inventato ed usato da Sam nel rapportarsi con i figli, ma una volta entrati nell’atmosfera della famiglia Pollit, nonostante l’opera abbia toni decisamente drammatici, si percepisce una levità, una delicatezza, che spingono a procedere nella lettura e che favoriscono una piena immersione nelle dinamiche descritte. Riprendendo le parole di Franzen: “Ogni volta che mi viene voglia di rileggerlo dopo qualche anno di lontananza, comincio a temere di essermi sbagliato, data la scarsa considerazione di cui gode nel mondo letterario. Poi apro il libro con trepidazione, quando dopo cinque pagine vengo di nuovo catturato, capisco che non mi sbagliavo affatto. Sento di essere tornato a casa”.