L'ora di greco
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Parole suadenti
…” i cuori e le labbra che si toccano, uniti ed eternamente separati”…
Il destino silenzioso e opaco di due vite corrose dal tempo, una sofferenza onnipresente in un oggi muto e senza volto. A lezione di greco antico, una lingua fredda e dura, morta ma tuttora vivida nella propria autosufficienza, richiamo di ragione e poesia, un’aula per ricomporre spezzoni di se’, una presenza-assenza rivestita di un tono dimesso, il linguaggio pacato di chi sta perdendo la vista riacquisendo il senso del tempo, il silenzio rarefatto di chi non ha più l’uso della parola imprigionato nell’ assenza di affetti negati.
Una donna muta e un uomo ipovedente, allieva e maestro, infanzie difficili, parole svanite improvvisamente, rinchiuse in un luogo più profondo della lingua e della gola e in un se’ sofferente, la vista che andava peggiorando, un amore sordo con il quale sognare di condividere l’ esistenza.
Oggi non resta che camminare nell’ arsura di una città rovente, sognare per vedere nitidamente, assaporare il suono di parole che bastano, condividere un luogo e la presenza dell’altro in un crescendo di percezione e di comunanza.
Il presente, dopo vent’anni, è un silenzio freddo, pungente, come
…” un ombra privata del proprio corpo”…
è un viso sulle cui guance non scorre nulla, una frase che risuona nella testa,
…” ci è mancato così tanto che non nascessi”…,
la perdita della madre, dell’ affidamento di un figlio, uno stato di necessità in cui ritrarsi progressivamente.
E allora ci si aggrappa al viso del proprio figlio e alle strofe di una lingua morta da incidere sulla carta, l’ uso della parola più lontano senza un vero motivo apparente.
A quarant’anni, condannato alla cecità, i dettagli prendono forma attraverso l’ immaginazione, luci e ombre si fanno indifferenti nel ricordo ancora sanguinante di un amore giovanile perduto per sempre, come per il mondo visibile, le giornate scorrono così’,
…” sotto l’ enorme massa opaca del tempo”…
Un’ unione rarefatta che oltrepassa il linguaggio e la vista, che si nutre di attesa e di silenzi parlanti, che ascolta, attende, assapora l’ altrui presenza, parla di se’ e della propria essenza, scrive parole cariche di senso, che ricorda i versi di un amore perduto, due cuori che si toccano e che continuano a non conoscersi.
….”Giungo le mani all’ altezza del petto.
Con la punta della lingua inumidisco il labbro inferiore.
Mi torco l’emani con movimenti rapidi e silenziosi.
Le mie palpebre tremano. Come ali d’ insetto che sfregano convulsamente tra loro.
Dischiudo le labbra, di nuovo secche.
Faccio respiri più profondi e ostinati.
Quando pronuncio infine la prima sillaba, chiudo forte gli occhi prima di riaprirli.
Come se mi preparassi a scoprire, nell’ istante in cui li riapro, che ogni cosa è svanita”…
Un romanzo quantomai intenso e sofisticato, viaggio stratificato e carezza dell’ anima nonostante quella sofferenza insistente e persistente nel cammino dei due protagonisti.
Avvolti in un silenzio inspiegabile e in una cecità progressiva, le parole non sono mai state così significanti e gli sguardi così dolci e intensi, ricolmi di attesa. Ambientazioni prevalentemente notturne in una Seul appiccicosa e rovente, toni pacati, attese protratte, gesti ripetuti, significati riposti, parole scritte che prendono forma, oggetti avvolti da un’ oscura presenza, frammenti di ricordi che si muovono generando immagini, colori scintillanti che brillano al sole, ombre oscurate dalla notte, morte, dissoluzione, parole terrificanti rivolte a se stessi…
Questo l’ universo poetico di Han Kang, un dono da fare proprio e da custodire gelosamente mentre
…” il silenzio si ammassa come neve che cancella per sempre le tracce”…