L'occhio del leopardo
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Recensione della Redazione QLibri
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Just a man and his will to survive...
C'è una canzone di qualche anno fa, Eye of the tiger dei Survivor (famosa anche perché parte della colonna sonora di Rocky 3 e 4), che recita: "Just a man and his will to survive".
Ecco, nel romanzo di Mankell, non c'è la tigre bensì il leopardo.. ma lo sguardo rimane lo stesso.. e mentre scorrono le pagine del libro, man mano che ci si addentra nel cuore del romanzo, si avverte sempre più la sua presenza, invisibile, silente ma sempre in agguato.
E' uno sguardo magico, forse perché assorbe la magia, il mistero e la forza primordiale di cui il continente africano è intriso, incanalandola poi nell'anima di chi si scontra con quello sguardo provocando una scossa ed una trasformazione incisiva nella personalità, come mai sarebbe stata possibile in altri luoghi o altre circostanze.
Il romanzo di Mankell racconta proprio questo: la metamorfosi radicale subita da un giovane ragazzo svedese, Hans Olofson, che per una serie di circostanze si trova catapultato in un mondo ostile ed affascinante allo stesso tempo come solo il continente africano può essere.
Premetto subito che ho amato questo libro di Mankell per due motivi principalmente: primo perché leggendolo ho provato spesso la sensazione di ... volare, concedetemi il termine: ero praticamente lì, con Hans, a suo fianco, sia quando ancora ragazzo vagava tra le foreste svedesi alla ricerca di se stesso sia quando, raggiunta la maggiore età, decideva di estendere la ricerca oltre oceano: la descrizione di quei luoghi è talmente precisa ed efficace da renderli tangibili, potevo vedere e sentire quello che lui vedeva e sentiva.
Poi perché penso sia impossibile non provare istintiva empatia per Hans Olofson: ciascuno di noi, infatti, chi prima chi dopo, ha vissuto quel senso di estraneità, di non appartenenza al mondo che lo circonda, di insoddisfazione e malcontento verso tutti e tutto tipico dell'età adolescenziale e che spesso sfocia in un desiderio incontenibile di evasione, senza una meta in particolare purché sia il più lontano possibile dal luogo in cui è vissuto sino allora, improvvisamente divenuto troppo angusto, quasi asfissiante, una gabbia opprimente che paralizza ogni ambizione tramutandola in velleità, in un sogno irrealizzabile:
"Oggi, la mia vita è un'escursione in giorni colorati d'irrealtà. La vivo come se non fosse nè la mia, di vita, nè quella di un altro. Non riesco e non fallisco in quello che mi prefiggo di fare."
Ma non tutti hanno il coraggio e la forza di evadere, molti soccombono, si annullano, si adeguano.
Hans invece no, non potrebbe mai farlo.. per lui l'evasione non è una possibilità, è una necessità.
Figlio di un marinaio, un avventuriero che ha trascorso la sua gioventù solcando oceani e respirando a pieni polmoni aria ricca di iodio, ha ereditato dal padre quella passione viscerale per il mare, il calore del sole e terre lontane disperse nell'immensità degli oceani, terre che sinora ha potuto visitare soltanto facendo scorrere il dito sulle cartine e mappe che il padre gelosamente conserva.
Ma Hans non ha nessuna intenzione di seguire il destino del padre che, ironia della sorte, si è ritrovato a vivere come boscaiolo in un paesino sperduto nel cuore delle fredde foreste svedesi e passa il giorno segando alberi, quasi nella speranza di scorgere il mare, quegli orizzonti azzurri che non potrà mai dimenticare: "Il mare. Un'onda verde-blu che si muove verso l'eternità."
Hans sin da piccolo sogna di sradicare l'abitazione in cui vive, togliere gli ormeggi e spingerla lungo le rive del fiume con la speranza che possa sfociare prima o poi nel mare.. e non appena l'età glielo consente non può esitare: fugge, evade.. gli basta un pretesto, assurdo a pensarci bene, il sogno non realizzato di una sua amica che diventa ora il suo sogno, la sua meta, sconosciuta, lontana ma circondata dal mare. L'Africa.
E sono queste, a mio parere, le pagine più belle di tutto il romanzo: quelle in cui si respira l'afa e la calura ed i sensi sono invasi dagli odori e colori del continente africano. Mankell riesce in modo impeccabile a farci vivere il viaggio di Hans in prima persona, le sue paure, i suoi dubbi, il senso di smarrimento inevitabile che avverte nel momento in cui sbarca dall'aereo che lo ho portato sin lì, in un mondo completamente diverso da quello in cui viveva ed in cui non è facile adattarsi, perché è un mondo abbandonato a se stesso, senza un ordine, senza un'organizzazione, dove la civiltà sembra congelata in uno stato primitivo e lui, uomo bianco nella terra dei neri, non può fare a meno di sentirsi odiato, additato, discriminato.
"Qui va tutto per il verso contrario, pensa. Se qualcuno pulisce, lo sporco si diffonde ancora di più."
Per questo le convinzioni di Hans traballano, quella che prima gli sembrava una necessità, quasi un obbligo nei confronti di se stesso, l'unico modo per crescere e costruire il suo futuro, adesso gli sembra una pazzia.
Poi un giorno, per una combinazione di eventi, Hans incrocia gli occhi del leopardo.. ed allora assume la consapevolezza di come il suo destino sia quello di vivere e morire in quella terra.
Non può fuggire, non può arrendersi perché se lo fa ora lo farà per sempre.. si rialza, rinasce e costruisce la sua nuova casa e la sua nuova vita, nel cuore del continente africano, dove gli ultimi coloni bianchi sentono sempre più forte il desiderio di indipendenza dei neri e di cui ne avvertono le sfumature sempre più marcate di odio, insofferenza e quasi vendetta per la condizione di schiavitù sino ad allora subita.
Ha paura, Hans, per la sua vita ed il suo futuro.. solo in un paese ostile, accecato da anni di soprusi e che non può dimenticare l'umiliazione a lungo perpetrata... a poco servono le buone intenzioni di Hans, il suo desiderio di ridare dignità e non solo libertà ad un popolo allo sbando, del tutto incapace di gestire l'indipendenza acquisita almeno sulla carta.
Ma la metamorfosi è compiuta ormai e guardandosi allo specchio Hans vede riflesso lo sguardo del leopardo.
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Tanto maculato quanto invisibile
“L’occhio del leopardo” di Henning Mankell è un pendolo di carta, che oscilla tra due estremità: la Svezia e lo Zambia. Il movimento del pendolo mette in risalto le profonde divergenze che il protagonista, Hans Olofson sperimenta nel suo viaggio africano, originariamente concepito per raggiungere la missione di Mutshatsha, sogno dell’amante suicida (“L’incontro con la Donna senza naso rappresenta una svolta decisiva nella loro vita”), poi tramutatosi in permanenza ventennale nella terra del leopardo.
Forse per superare i traumi giovanili (l’abbandono dalla madre, l’etilismo del padre, la disgrazia che colpisce il migliore amico e il suicidio della “donna senza naso”), forse perché “viaggiare significa voler superare qualcosa”, forse catturato dal fascino del continente nero (“Spesso negli anni si chiederà cosa sia realmente accaduto, quali forze si siano sviluppate dentro di lui, avvinghiandolo e alla fine impedendogli di andarsene"), Hans supera il difficile impatto iniziale con la realtà africana, accetta l’offerta di collaborare nell’allevamento di galline ovaiole gestita dall’europea Judith Fillington, e infine ne rileva la fattoria, ove intende realizzare un nuovo modello di collaborazione con i lavoranti africani. Ma le diffidenze locali (“Vivono in un’epoca di esasperazione, di declino. I bianchi in Africa sono persone confuse e disorientate di cui nessuno vuole più sentire nulla”) e le divergenze culturali rispetto a una tradizione imparentata con stregoneria e riti magici ben presto innescano il terrore: le minoranze bianche (come i coniugi Masterton, i primi amici di Hans) vengono orrendamente trucidate e Hans non riesce a reggere la tensione, che lo costringe a vigilare, a stare sempre allerta, con la mano sempre armata per difendersi.
Sullo sfondo della storia, si staglia la sagoma affascinante e selvaggia del leopardo: animale notturno e schivo (“Pochi africani hanno visto un leopardo… all’alba, le sue impronte sono ben visibili in prossimità delle capanne”), che rappresenta una civiltà aggressiva, propensa a reagire ai torti subiti con il colonialismo.
“C’è una leggenda… quando il giorno del giudizio si sta avvicinando e gli esseri umani già non ci sono più, ha luogo l’ultima prova di forza fra un leopardo e un coccodrillo. Due animali che sono sopravvissuti grazie alla loro scaltrezza. La leggenda non ha un finale. S’interrompe nel momento in cui i due animali passano all’attacco. Nella fantasia degli africani, il leopardo e il coccodrillo portano avanti il loro duello all’infinito, fino al buio finale o a una rinascita”.
Il romanzo propone interessanti riflessioni sulle divergenze culturali (“I missionari sono come tutti gli altri bianchi… Esigono sottomissione”), sul fallimento dell’imperialismo europeo, sul fascino misterioso ed etnico di civiltà violentate dalle incursioni occidentali, sul potenziale esplosivo delle reazioni in atto…
Bruno Elpis
P.S. Nella sezione “recensioni” di www.brunoelpis.it il commento viene accompagnato con fotografie dell’invisibile deuteragonista del romanzo: il leopardo…