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L'occhio

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Questo breve romanzo – scritto dapprima in russo nel 1930 e poi in inglese nel 1965 – si fonda su una vertiginosa scommessa: raccontare come, dopo un suicidio, il pensiero umano possa continuare a vivere «per inerzia» e costruirsi un romanzo alternativo alla realtà, con la quale poi finirà per collidere. La scena è quella degli emigrati russi a Berlino, mondo fragile e illusorio, congeniale a una narrazione dove Nabokov scatena tutti i suoi estri in tema di specchi, riflessi, sdoppiamenti – come dire il terreno peculiare su cui si svilupperà la sua arte.



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L'occhio 2016-02-08 10:24:30 Giu_Bi
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Giu_Bi Opinione inserita da Giu_Bi    08 Febbraio, 2016
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La coscienza che non muore

Brevissimo questo romanzo, in cui Nabokov mostra il mondo del protagonista da una prospettiva assolutamente inedita: la coscienza di lui che sopravvive al corpo dopo il suicidio.

Un giovane russo – innominato – è istitutore a Berlino, dove frequenta una cerchia di connazionali. Con un’indifferenza che rasenta l’inerzia intreccia una relazione con una donna sposata ma, scoperto dal marito, decide con altrettanta repentina irriflessività di uccidersi.
Comincia dunque il peregrinare dell’occhio, ovvero della sua coscienza che rimane viva e interagisce nel mondo. La trama del romanzo, inizialmente incentrata sul protagonista, si decentra di colpo allargandosi al microcosmo sociale in cui questi vive, e gradualmente si avvita sulla figura di Smurov. L’Occhio va alla smaniosa ricerca di dettagli su Smurov, lo cerca rappresentato negli occhi degli altri, nel tentativo di completare una rappresentazione che resta tuttavia sempre vaga. Infine il cerchio si stringe gradualmente, e l’occhio trova e riconosce sé stesso.

Le atmosfere e i personaggi del romanzo evocano un senso di vaga malinconia, di sobrietà e decadenza… atmosfere diverse – ad esempio – da quelle che troviamo in “Lolita”; eppure l’Autore non sa rinunciare a quella particolare firma di bizzarrìa che conferisce un inatteso tocco grottesco ad alcuni personaggi.
Credo però che sia nell’uso del linguaggio che la sua creatività si esprime al meglio: Nabokov è dotato del talento di dar vita alle parole e alle espressioni, di farle palpitare, coinvolgendo chi legge in un rapporto sensuale con l’esperienza umana dei personaggi.
L’abbondanza di aggettivi usati in modo decisamente inatteso, l’ironia che caratterizza scene apparentemente banali rimandano una venatura umana, dicono al lettore qualcosa che egli sa già, ma in modo tale che l’esperienza risuoni umanamente, inevitabilmente nota.
Per queste ragioni trovo che la scrittura di Nabokov rasenti il sublime.

“Di lei non sapevo assolutamente nulla, accecato com’ero da quella grazia bruciante che tutto usurpa e giustifica e che, diversamente dall’anima umana (spesso accessibile a possesso), non è in alcun modo acquistabile, proprio come non possiamo annoverare tra i nostri beni i colori di nubi sfilacciate al tramonto sopra le case nere, o l’effluvio di un fiore che continuiamo a inalare con narici tese, fino allo stordimento, senza poterlo completamente estrarre dalla corolla”.


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