L'ha ucciso lei
Editore
Recensione Utenti
Opinioni inserite: 1
Au pays
Quello dell’emigrazione è uno dei temi particolarmente cari alla scrittura di Tahar Ben Jelloun. Del resto, in quanto marocchino emigrato in Europa da decenni, anche se non certo per svolgere lavori di bassa manovalanza come molti suoi connazionali, non potrebbe essere altrimenti.
Anche Mohamed, il protagonista del suo romanzo "L'ha ucciso lei" (titolo italiano, a mio parere, non troppo felice, al quale preferisco quello dell'edizione in lingua originale che ho letto: “Au pays”, Éditions Gallimard 2009) ha lasciato il Marocco molti anni addietro per andare a vivere e lavorare in terra francese. Una vita semplice, la sua, fatta anzitutto di onesto lavoro, famiglia, sincera devozione religiosa e ferie estive trascorse immancabilmente nel paese nordafricano, tra la gente del suo sperduto villaggio d’origine in cui non sono ancora arrivate né l’elettricità né l’acqua corrente dentro casa. Arriva il momento della pensione, che però Mohamed vive con crescente angoscia, temendo di ridursi a condurre un’esistenza vuota e priva di utilità. È allora, come per sfuggire quella che ai suoi occhi appare l’anticamera della morte, che inizia a considerare l’idea di far ritorno al suo paese per costruirvi una grande casa dove riunire la famiglia al completo, senza tuttavia essere certo se i suoi cinque figli, ormai adulti e indipendenti, e soprattutto abituati a stili di vita più da francesi che da marocchini, siano o meno propensi a lasciare tutto e trasferirsi laggiù. Riuscirà il pover’uomo a realizzare il suo progetto?
Con la consueta maestria del grande narratore, Tahar Ben Jelloun ci regala un romanzo che parla di emigrazione e (non completa) integrazione, di radici e sradicamento, di speranze e illusioni. Molto ben caratterizzato, il personaggio di Mohamed incarna alla perfezione l’immigrato di prima generazione che, seppur lontano da qualsiasi forma di estremismo religioso, tollerante e formalmente integrato, non riesce ad andare oltre certe frontiere culturali e sociali che lui stesso s’impone (noi-loro) e a distaccarsi pertanto da logiche legate al clan familiare (e nazionale) d’appartenenza; il venir meno di queste ultime provoca in lui disorientamento e timore di perdere la propria identità, mentre le seconde generazioni imparano presto a mantenersi in equilibrio, anche se talvolta precario, tra due culture diverse. Particolarmente intense le pagine che rievocano la partenza e il lungo viaggio dell’allora giovane Mohamed alla volta di quella che lui chiamerà sempre, con rispetto e spesso anche con un pizzico d’ironia, “Lalla França” (“lalla”, traducibile con “signora”, in Marocco è un titolo da principesse), dove la gente va di fretta e ad accoglierlo c’è soltanto la solitudine del silenzio.
“Il n’arrivait pas à s’imaginer qu’il n’allait pas retrouver la tribu, la famille, ce bled qui faisait partie de son corps et de tout de son être. Il sentait que quelque chose se détachait de lui, que plus le train avançait, plus le village qu’il avait quitté devenait minuscule jusqu’à disparaître entièrement. […] Il ne savait pas qu’il était en trai de passer d’un temps à un autre, d’une vie à une autre. Il changeait de siècle, de pays et d’habitudes.”
Attorno a quella del protagonista ruotano altre vicende, alcune delle quali non dissimili, altre invece di totale disadattamento, come quelle della giovani generazioni nate e cresciute nelle banlieue che insensatamente danno fuoco alle auto parcheggiate per le strade del quartiere. Una piccola storia ricca di spunti di riflessione, a tratti addirittura commovente, sullo sfondo di una Francia dove chi arriva, inevitabilmente, si porta dietro molto della propria terra d’origine e, nel contempo, di un Marocco, ancora per buona parte rurale e arcaico, dove chi ritorna non sarà mai più lo stesso di quando era partito.