Narrativa straniera Romanzi L'estate che sciolse ogni cosa
 

L'estate che sciolse ogni cosa L'estate che sciolse ogni cosa

L'estate che sciolse ogni cosa

Letteratura straniera

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Ci sono estati che ti entrano sotto la pelle come ricordi eterni. Per il giovane Fielding Bliss quell'estate è il 1984, l'estate che cambierà per sempre la sua esistenza e quella di tutti gli abitanti di Breathed, Ohio. Qui, in una giornata dal caldo torrido, il diavolo arriva rispondendo all'invito pubblicato sul giornale locale da Autopsy Bliss, integerrimo avvocato convinto di saper distinguere il bene dal male, e padre di Fielding. Nessuno in paese si sarebbe mai aspettato che Satana avrebbe risposto. E tantomeno che si sarebbe palesato come un tredicenne dalla pelle nera e dalle iridi verdi come foglie, eppure quel ragazzo uscito dal nulla sostiene davvero di essere il diavolo. A incontrarlo per primo è Fielding, che lo porta con sé a casa. I suoi genitori subito pensano che il giovane, che sceglierà di farsi chiamare Sal, sia scappato dalla propria famiglia, eppure le ricerche non portano a nulla, e in lui sembra esserci veramente qualcosa di impenetrabile e misterioso. Qualcosa che gli abitanti di Breathed non capiscono e che li convincerà che il ragazzo dalle lunghe cicatrici sulle spalle sia realmente quello che dice di essere: il diavolo.



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L'estate che sciolse ogni cosa 2020-10-29 17:21:18 Mian88
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Mian88 Opinione inserita da Mian88    29 Ottobre, 2020
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ESPIAZIONE

È l’estate del 1984 quando il tredicenne protagonista dell’opera di Tiffany McDaniel, Fielding Bliss, incontra davanti all’ingresso del Tribunale ove lavora il padre, Sal, un ragazzo di colore abbigliato con una salopette bisunta e rovinata che si presenta al suo cospetto quale presenza terrena del Diavolo. Quest’ultimo sarebbe giunto nella cittadina di Breathed proprio per incontrare il genitore in questione perché dal medesimo invitato. Fielding è naturalmente scettico nei confronti di siffatta dichiarazione e per questo motivo all’inizio, almeno, non crede a quanto dichiarato dal nostro demone in terra. Ad ogni modo lo invita a seguirlo stante il fatto che essendo domenica l’attesa innanzi alla struttura si sarebbe perpetrata sino al prossimo lunedì con conseguente apertura degli uffici.
Lo scetticismo colpisce anche la famiglia stessa che, conosciuto il ragazzo, lo accoglie all’interno della sua abitazione senza porsi troppi problemi e senza dar molto credito alle affermazioni. Tuttavia, man mano che il tempo passa, una serie di fattori, incrementati da un caldo torrido che annebbia la mente, dal colore della pelle e da un fenomeno di convinzione psicologica diffusa nella popolazione e atta a dar convinzione che questo effettivamente possa rivestire le spoglie terrene della figura satanica con quel colore così mal visto e con quegli occhi così insolitamente verdi, portano a far prevalere la suggestione e di conseguenza portano all’affermazione di un odio diffuso e ingiustificato che si ripercuote non soltanto sul giovane quanto anche sulla famiglia stessa rea di averlo preso sotto la propria ala e rea di nascondere dietro una parvenza di normalità una serie di mostri e di segreti non accettati dal volere comune.
Le vicende scorrono, prendono campo e il condizionamento portato avanti da una figura che sin dal principio suscita nel lettore una sensazione di sfiducia, permea l’evoluzione del componimento sino a quelle che saranno le più nefaste delle conseguenze.
Ma cosa si cela davvero dietro la facciata? Chi è Sal? Come può la sua presenza aver così condizionato le menti di una intera cittadina? Quanto il fenomeno del controllo è davvero presente tra noi anche in forme assolutamente impensabili e imprevedibili?

“Sperare significa cedere alla seduzione della leggenda secondo cui ci viene data una seconda possibilità nella vita.”

Seppur le basi di partenza de “L’estate che sciolse ogni cosa” siano interessanti e tali da suscitare interesse nel lettore, suddetta iniziale curiosità tende sempre più a scemare man mano che chi legge entra all’interno dell’opera stessa. In primo luogo per quel senso costante di déjà-vu che porta naturalmente ad associare il titolo ad opere precedenti ben più famose quali: “Il Maestro e Margherita”, “Il buio oltre la siepe”, “Il miglio verde” (per alcuni aspetti di misticismo), “Uomo invisibile” e “Lo schiavista” di Paul Beatty. Non manca chi ha ravvisato all’interno del componimento una similitudine con il celebre “1984” di George Orwell stante il fenomeno del condizionamento, cosa che effettivamente può essere ma che ridimensionerei perché il classico di cui si tratta ha anche ben altre caratteristiche che vanno oltre il titolo della McDaniel.
A ciò si sommi una lentezza narrativa esasperante. Arrivati a pagina 200 il libro diventa una espiazione in piena regola per il conoscitore. Che fosse cosa voluta? Non so, ma onestamente la sensazione è quella di star in prima persona chiedendo perdono per un peccato presente, passato e futuro commesso. La seconda metà e anche la conclusione, che nel complesso dovrebbero essere più rapide e risolvere l’enigma con quelli che in molti hanno definito essere un vero e proprio smacco nella narrazione, di fatto tutto sono tranne che rivelazioni. Il lettore già a pagina 140 intuisce chi è il “cattivo” di turno e procede nella lettura soltanto per capire dove la scrittrice voglia andare a parare. Lo stesso epilogo è eccessivo e forzato quasi come se la stessa non sapesse più come venire a capo di quanto costruito.
Non solo. Altre scene sono assolutamente inverosimili ma non tanto per la questione “diavolo” quanto per la questione logicità e corrispondenza del reale del quanto proposto. A mero titolo esemplificativo, il nostro Sal a causa di uno spavento non riesce a reggere le proprie minzioni fisiologiche e bagna la propria salopette di urina. Arriva a casa del nuovo amico, viene accolto da una super casalinga che lo fa sedere alla sua tavola, gli serve il polpettone che gli cade anche sulla gamba sporca (già prima della pipì ma ancora sporca di questa) per poi essere raccolto e la stessa fetta riposta nel piatto del giovane e solo dopo cena qualcuno si ricorda che forse è il caso che questo si cambi e la salopette finisce in lavatrice. Questa sequenza si protrae da pagina 31 a pagina 76 quindi il ragazzo resterebbe sporco per ben 46 pagine e cenerebbe puzzolente di urina. Credibile? Molto poco in condizioni ordinarie, figurarsi se si considera il ruolo della moglie del legale. E questo è un mero esempio.
Il testo è interamente disseminato da qualunquismi e molti luoghi comuni. Comprendo le ragioni che possono aver portato l’autrice a farlo ma sinceramente mi sono risultati eccessivi e forzati tanto che l’effetto è stato quello di far perdere di forza empatica ed emotiva allo scritto.
La lettura si è, a fronte di questi e molti altri elementi, trasformata in una ESPIAZIONE, un fardello che giunto alla sua conclusione ben poco lascia. La storia viene inoltre narrata dal protagonista adulto che torna indietro nel tempo e poi nuovamente al presente. Questa è un’altra circostanza che alla lunga sfianca. A ciò si sommi, ancora, che l’uomo non cresce, non affronta mai il suo passato, rimugina per tutta la vita su quel che è successo in quella estate senza mai reagire. Non vi è dunque una crescita del personaggio quanto, al contrario, una figura statica che non entra in simpatia dell’avventuriero che si addentra nel componimento e che porta ad allontanarlo da quello che avrebbe potuto essere il messaggio. E questi sono soltanto alcuni aspetti ma ci sarebbe molto altro da dire sulla struttura e il contenuto di questo libro.
In conclusione, un perfetto collage tra opere, un titolo costruito ad hoc la cui morale sfugge dalle intenzioni ed estremamente sopravvalutato.

“Nessuno ti prepara all’odio. A diventare bersaglio dell’ira e di un fuoco di insulti. A dover sopravvivere al marchio della colpevolezza, malgrado la propria innocenza.”

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L'estate che sciolse ogni cosa 2020-10-20 16:51:24 topodibiblioteca
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topodibiblioteca Opinione inserita da topodibiblioteca    20 Ottobre, 2020
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Il diavolo non è così brutto come lo si dipinge

“Il caldo arrivò insieme al diavolo. Era l’estate del 1984 e il diavolo era stato invitato”. Con questo incipit T. McDaniel inizia questo romanzo che può, per certi versi, considerarsi un’attualizzazione del celebre “Il buio oltre la siepe” di H. Lee. Il diavolo che all’improvviso arriva nella cittadina americana di Breathed assume la fisionomia di un ragazzino tredicenne di colore in salopette, e proprio la combinazione di questi due elementi, il colore della pelle e l’aggravante di dichiararsi diavolo, lo faranno diventare il bersaglio dei pregiudizi e della cattiveria degli abitanti di Breathed. Non è certo una novità, la letteratura e il cinema ci hanno oramai abituati a storie aventi come protagonista Lucifero disceso sulla terra, ma la McDaniel riesce a scrivere un libro nel quale è presente un valore aggiunto: Satana non è né la creatura malefica tipicamente rappresentata e nemmeno quella caotica combina guai che troviamo nel Maestro e Margherita di Bulgakov. Qui il diavolo-Sal (come lui stesso dice di chiamarsi) è una creatura sofferente (“Non sono il principe dell’inferno. Sono solo la sua vittima più antica, la più celebre, uno che soffre come tutti gli altri”). Pentito della ribellione a Dio di cui si è reso protagonista, nella caduta dal Paradiso ha affrontato una discesa verso gli inferi di sette milioni di gradini senza nessuna speranza di redenzione:

“A ogni gradino ti si presenta una mano che sembra offrirti una possibilità. Tu ti volgi indietro e la afferri persuaso che così facendo non verrai più cacciato. Ma nessuna tua supplica, nessuna tua resa è sufficiente a revocare la punizione…..Il supplizio di provare speranza solo per scoprire che non esiste speranza. Sperare significa cedere alla seduzione della leggenda secondo cui ci viene data una seconda possibilità nella vita”.

Fedele alla tradizione che la presenza del diavolo è portatrice di pessimi eventi e grandi disgrazie, l’autrice cede la narrazione di questa storia estremamente dolorosa alla voce di un adulto prossimo ormai alla conclusione della propria vita, Fielding Bliss, uno dei due figli della famiglia Bliss, affidataria del giovane Sal, comparso all’improvviso e scambiato per un bambino fuggito da casa ma del quale non si trovano i veri genitori. Nei ricordi di Fielding sono custoditi gli eventi di quell’estate che sciolse ogni cosa, di “Quel caldo che faceva galoppare il cuore, montare ogni febbre, ribollire quanto non eravamo capaci di lasciare andare”. Attraverso Fielding la McDaniel ci fa conoscere i membri della famiglia Bliss, a partire dal padre Autopsy di professione Avvocato –altro evidente richiamo al Buio oltre la siepe ed alla figura di Atticus Finch- che risulta essere l’autore dell’articolo comparso sul giornale locale nel quale invita il diavolo a presentarsi in città, e via via il fratello maggiore e la madre. La narrazione diventa così l’escamotage adottato per raccontare altro, perché in realtà il diavolo non è così brutto come lo si dipinge e fanno sicuramente più paura la superstizione e l’ignoranza della gente che, magari sobillata da un presunto predicatore, trova nel diverso un “capro espiatorio” al quale attribuire nefandezze ed eventi infausti, accusandolo di colpe prive di ogni fondamento logico: “Lo scopo di orchestrare il panico attraverso un coro di paura. Paura di un ragazzo dalla pelle scura. Paura del diavolo nella pelle di un ragazzo”.

Perché alla fine, la McDaniel evidenzia che le vere tenebre non sono quelle di Lucifero bensì quelle nascoste dentro di noi, nei luoghi comuni e nei pregiudizi ed il diverso non è necessariamente soltanto colui che ha la pelle di un altro colore ma può diventarlo anche l’amico di tutti, il compagno di squadra che magari viene emarginato per la sua omosessualità, Il pregio dell’autrice è appunto quello di fare riflettere il lettore su diversi aspetti insiti nella società e tuttora attuali, ambientando altresì la storia nell’anno 1984, scelta tutt’altro che banale o casuale e che si svelerà chiaramente a coloro che leggeranno il romanzo. Un libro che in definitiva contiene sicuramente riflessioni importanti, che merita credito e tempo da dedicare anche se a tratti si ha la sensazione che alcune parti siano state forse un po’ esagerate nella loro drammaticità, “pianificate a tavolino” per piacere al lettore e suscitare emozioni non sempre spontanee, ammiccando magari anche ad una possibile trasposizione cinematografica.

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Il Buio oltre la siepe, romanzi incentrati sul tema del razzismo.
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L'estate che sciolse ogni cosa 2020-10-11 21:19:15 Bruno Izzo
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Bruno Izzo Opinione inserita da Bruno Izzo    11 Ottobre, 2020
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NÉ PENTOLE NÉ COPERCHI

Questo romanzo è latore di un pensiero fiammante, letteralmente; “L’estate che sciolse ogni cosa” di Tiffany McDaniel è una lettura corposa ed avvincente, ma va compresa, recepita, assimilata bene, per apprezzarne in pieno il valore, e soggiacere all’incanto che ne permea le pagine. È tanta roba, proprio.
Lasciatevi trascinare dalla corrente della storia: è una realtà raccontata, potrei definirla una lunga e suggestiva narrazione a voce sola, una rievocazione precisa e avvincente di fatti e avvenimenti.
Ambientato nella torrida estate del 1984, in un paesino della provincia rurale americana, con uno stile che rievoca certe atmosfere de “Il buio oltre la siepe” di Harper Lee, o anche certi romanzi di Steinbeck, Faulkner, Dos Passos, e finanche Stephen King, da tutti questi se ne distacca, per ammantarsi in un’aura tutta sua, unica e originale, fantastica ma non fiabesca.
Il testo semplicemente altro non è che una esposizione a voce, talora con timbro sonoro cristallino e prepubere, talaltra rauco e cavernoso, una lettura labiale, alla lettera.
Un parlato superbo e suadente insieme, che risuona dallo stesso personaggio principale, Fielding Bliss, voce narrante in prima persona, prima adolescente e poi vecchio homeless su un camper da rottamare. Perciò su due piani temporali lontanissimi tra loro, a volte difficili a distinguersi.
Non è una lettura facile, è un bel tomo di circa 400 pagine, all’inizio parte a razzo, e sorprende, poi sembra perdere tono, per risollevarsi infine in un crescendo inarrestabile come una marcia trionfale, in un turbine di sensazioni tutte struggenti, dolorose, toccanti, vivissime e soprattutto ardenti, letteralmente brucianti, fino alla fine.
Lascia il lettore, almeno con me è successo, con un senso di struggimento, ma anche lieto della storia e grato alla sua autrice. Non è un testo facile, lo ripeto, e non perché non sia ben scritto, tutt’altro, è scritto molto bene, leggibile, scorrevole, rifinito e incisivo nei personaggi e nei luoghi, anche quando redatti con pochi tratti graffianti, e tradotto anche benissimo nella nostra lingua.
Tant’è che risuona in testa come una melodia delicata ma energica, le note non diventano mai stridule nemmeno nei momenti più acuti della storia, e ve ne sono parecchi.
Non è di facile lettura perché è un libro potente, eccezionale, emozionante.
Come tutti i libri con tali caratteristiche, presenta diverse chiavi di lettura: possiamo considerarlo come un testo sull’infanzia perduta, sulla difficile impresa del crescere, sul divenire adulti come Dio comanda, umani, ragionevoli e tolleranti. E ancora altro.
Espone inoltre tematiche delicate come la disabilità ed il rifiuto a priori del diverso, sotto qualunque forma questo appare. Parla senza mezzi termini, giusto per intenderci più nello specifico, di razzismo, di omosessualità, di preconcetti, di manipolazione del gregge, di violenza, di abusi. E oltre.
Esamina il consorzio civile come in effetti è, quindi mai realmente a misura d’umanità, e mai compiutamente rispondente al vero come appare.
La realtà umana è stridente, ricca di contraddizioni e di coupe de theatre, imprevedibile e imponderabile.
Tutto inizia con una apparentemente bislacca iniziativa del padre di Fielding Bliss, il protagonista principale; il suo papà è persona curiosa già nel nome di battesimo: si chiama infatti Autopsy Bliss.
Per storia personale e per intima convinzione propria, consolidata dalla propria esperienza di vita, Autopsy Bliss è un uomo, un avvocato, di più, un pubblico ministero, che si considera il setaccio della giustizia. Fa onore al suo nome di battesimo, che significa “vedere con i propri occhi”, è infatti un magistrato straordinario, che si impegna al meglio delle sue capacità per giudicare in equità e coscienza, si accerta di tutto e valuta con attenzione cose e persone con gli occhi ben aperti, conscio della delicatezza che la sua professione richiede.
Tuttavia, è anche un uomo di rara sensibilità d’animo, e perciò schiacciato nell’intimo dal peso dell’impegno etico e morale che il suo compito richiede, dalla responsabilità di giudizio dei mali degli uomini, che egli ritiene di per sé facoltà sovraumana, e che però gli compete.
Un compito non facile, per un pensatore simile.
Autopsy Bliss non gioisce per ogni vittoria in tribunale, anzi, si macera spesso nel dubbio di non aver giudicato per il meglio, di aver provocato ingiustizie, di aver commesso errori irreparabili ai danni dei suoi simili, di non essere stato all’altezza del suo compito, magari inconsapevolmente, si rende conto che il suo compito in definitiva è di setacciare i fatti della vita, ma che poi quanto rimane sul fondo del setaccio, potrebbero non essere affatto le pepite d’oro della verità.
Autopsy Bliss è un buon padre di famiglia, un uomo buono e generoso, un pilastro della comunità in cui vive. Conosce la vita e legge nel cuore degli uomini, comprende come pochi altri che non esiste assoluta chiarezza e onestà nel vivere quotidiano, ognuno ha sempre uno spicchio di sé celato agli altri, fa parte dell’animo umano serbare un lato oscuro, un lago di pulsioni che talora mai, ma talaltra quanto prima, sotto diversi e svariati impulsi, può eruttare azioni malevoli.
Il concetto di bravo cittadino sempre e comunque ossequioso di Dio e delle leggi è un falso, è più facile invece che sia il male ad essere il seme maggiormente diffuso e che si impianta con relativa facilità, serbandosi con altrettanto agio in chiunque.
Autopsy Bliss quanto detto lo avverte chiaro nella società e nel tempo in cui vive, lo vede con i propri occhi, come il suo nome suggerisce, e si ostina a credere nell’uomo, è certo che un minimo di bene sussista sempre anche nel male assoluto, tutto sta ad alimentarlo perché da brace diventi fiamma.
Il fuoco ed il caldo non sono, né possono essere, prerogativa assoluta dell’inferno.
Soprattutto spinto dall’intenzione benevolmente provocatoria di far assimilare alla comunità in cui vive, chiusa e retrograda, i concetti dell’agire senza pregiudizi e preconcetti nei confronti dei propri simili, con compartecipazione e solidarietà, Autopsy fa pubblicare a proprie spese sul quotidiano locale una insolita inserzione in cui, platealmente, invita personalmente e con tutte le formule d’uso il Diavolo in persona a visitare il suo paese Breathed, in Ohio.
Terra di peccatori sì, e come tali adepti del demonio, ma anche di uomini dotati di libero arbitrio e perciò capaci di perdonare, come Autopsy auspica, e che il diavolo non temono, non esiste nel bene.
Una provocazione, certo, e non altro, uno spunto di riflessione, collettiva e individuale.
Una simile notizia, in quel microcosmo fondamentalmente ignorante e arretrato, becero e meschino, provoca ovviamente ilarità, sarcasmo, anche biasimo e riprovazione per una presunta mancanza di rispetto per le cose religiose, ed è fonte di dileggio.
Senonché, poco dopo, il Diavolo si presenta davvero in paese. In risposta vivente all’annuncio.
Il primo ad accoglierlo è, guarda caso, il figliolo tredicenne di Autopsy, il piccolo Fielding, che da questo momento diventa la voce narrante ed il protagonista assoluto del romanzo.
Il Diavolo arriva…e come arriva?
In pompa magna, con tutti gli onori, tra fuoco e fiamme, forcone, corna, odore di zolfo, piedi a zoccolo? Affatto. Peggio, assai peggio, dati i tempi e i luoghi.
Si presenta come un ragazzino, un pari età di Fielding, un adolescente di colore, con gli occhi verdi, vestito con una lercia salopette di jeans, incrostata di polvere, di sporco, di sudore, e chissà quanto altro, che a malapena ricopre un corpo macilento percorso da cicatrici.
In particolare, sulle scapole, quasi gli fossero state tarpate delle ali…dopotutto, il Diavolo è un Angelo, per quanto decaduto, e gli angeli le ali le hanno.
Un ragazzino di colore che afferma con la massima serietà di chiamarsi Sal, con semplicità, umiltà e nessun sussiego, un nome composto dalle iniziali di Satana e Lucifero, dichiara apertamente di essere il Diavolo, di venire dall’inferno, e di essere stato convocato tramite l’avviso sul quotidiano dal padre di Fielding. Manco a farlo apposta, la prima persona in cui Sal si imbatte, e a cui candidamente e con la massima chiarezza si presenta, è proprio il giovane Fielding, che lo accoglie senza remore e senza pregiudizio come un qualsiasi amichetto di pari età e se lo porta a casa.
Va da sé che il piccolo Sal viene unanimemente considerato un ragazzino fuori di testa, probabilmente scappato di caso, un adolescente problematico e confuso magari maltrattato, o peggio ancora abusato, date le cicatrici, i lividi e gli evidenti segni di percosse, fatto sta che il modo direi profondo e forbito come si esprime e di cosa parla, i continui riferimenti di carattere biblico o pseudoreligioso, che fanno espresso riferimento a Dio, alla caduta dal Paradiso, agli inferi e ai cieli, inducono una suggestione collettiva nell’abitato, anche se il suo aspetto risulta quantomeno inconcepibile rispetto a come viene normalmente immaginato il demone. Per di più, è un ragazzo di colore, e tanto basta agli strati della popolazione dichiaratamente razzista, i più nel sud degli Stati rurali americani, per generare rifiuto, subodorare un inganno, neanche velatamente usarlo come ideale motivo e causa diretta dei guasti del paese, ad iniziare dal coincidente caldo eccezionale sopraggiunto quell’estate e conseguente catastrofica siccità. Niente di meglio che un nero a figurare come il Diavolo, va da sé che Dio, il suo opposto, è bianco. Serve altro? Un vero invito a nozze.
Né le ricerche dello sceriffo e delle forze dell’ordine portano a qualche risultato, nessun bambino corrispondente alla descrizione di Sal risulta mancare all’appello, il ragazzino è letteralmente spuntato dal nulla, sceso rovinosamente giù dal cielo o risalito dagli inferi, che dir si voglia.
Per cui, mancando una struttura sociale di accoglienza di casi simili, Sal viene in pratica adottato dall’intera famiglia di Autopsy Bliss, evidentemente gli unici che hanno conservato non tanto una certa sanità di mente, ma la propria umanità, sempre e comunque malgrado le avversità dell’esistenza.
Diventano quindi in effetti i genitori di Sal Autopsy e sua moglie, diventano suoi fratelli Fielding ed il primogenito di casa, Grand, ed il ragazzino ne è palesemente lieto e felice:
“…Io sono il diavolo. Nessuno mi dice se devo restare o andarmene. Ma è bello essere voluto. …è davvero bello che mi vogliate qui, con voi.”
Non proprio parole di un diavolo, più di un profugo, di un escluso, di un emarginato, di una vittima.
Di un povero diavolo. Chi è davvero Sal? Voltiamo nel paranormale? Affatto.
Perché il Diavolo, per definizione stessa, è incompleto. Non fa le cose per bene, c’è sempre un trucco, un inganno, un’insidia, si usa dire che il diavolo fa le pentole ma non i coperchi, è bugiardo e ingannevole, tende continuamente trappole e trabocchetti per indurti a sbagliare e a peccare, è un re del raggiro e della frode, è menzogna e falsità per partito preso.
Sal non è nulla di tutto questo, non fa né pentole né coperchi, dice di essere il diavolo e da questo termine deriva la sua unica azione, divide.
Dio è il più grande spettatore della sofferenza, pone sulla nostra strada il diavolo perché susciti dolore, e in questo modo separa chi resta a guardare senza porre fine al dolore, da chi invece interviene per porre fine a questo.
Dio ha creato il diavolo come mezzo e non come fine, perché separi, divida, affinché Lui, Lui sì non il setaccio ma la Giustizia, possa scindere il buono dal cattivo, l’empio dal mansueto, il meritevole e colui che richiede castigo. Sal divide, la solidarietà dall’egoismo. Il bianco dal nero.
I cuori buoni e i duri di cuore.
La presenza di Sal separa la seccia dal grano, suscita dolore e sgraditi ricordi, e ognuno reagisce come la sua natura realmente lo obbliga da essere.
Questa divisione si evidenzia per il nano Elohim, tanti aspetti in una sola persona di piccola statura, egli è insieme un vecchio rancoroso per la perdita della sua Helen in un naufragio, un affettuoso secondo padre per Fielding, un uomo dall’animo sottilmente razzista nel profondo, il sacerdote di una congrega di fanatici religiosi fuori di testa e ferocemente ostili a Sal.
Sal accentua la divisione finanche nell’animo di Grand, il suo stesso fratello adottivo, che da un lato è il celebrato campione sportivo locale, una sicura promessa del baseball, un ragazzone sano, bello, robusto, l’idolo delle ragazze del paese, dall’altro deve fare i conti con la propria misconosciuta omosessualità, che lo pone all’indice, lo rende un paria ed un infetto, e questo in anni quando ancora era assai ostico e difficile accettare le differenze di orientamento sessuale.
Specialmente in quegli ambienti ancora sottilmente ma ben tenacemente retrivi e conservatori, e per somma di disgrazie nell’anno stesso, il 1984, in cui un micidiale retrovirus inizia a far strage tra certi individui a rischio, scambiato trionfalmente da molti per una sorta di punizione divina per le nefandezze sessuali umani.
Ancora, il diavolo separa l’amore dal peccato, perché anche i diavoli hanno un’anima, e si innamorano. Sal si innamora, ed è ricambiato, di Dresden Delmar, una sorta di Jane Austen, o di Emily Dickinson del luogo, che ha una gamba artificiale.
Il dolore che invade l’animo gentile di Dresden non deriva tanto dalla sua disabilità, ma perché è in ogni senso schiacciata dalla propria madre, che da un lato coltiva una delicata passione per i fiori e le rose in particolare, dall’altra è del tutto fittiziamente inconsapevole di essere l’unica responsabile delle autentiche sofferenze fisiche della propria figlia, chiusa nella sua meschinità e nel suo egoismo.
Sarà Sal a dividere drammaticamente la realtà dalla finzione. A sue spese.
Altro ancora risalta dalla presenza di Sal: oserei dire che grazie al giovane ragazzino di colore si scoprono gli altarini. Quell’estate particolarmente rovente, meteorologicamente caldissima, del 1984 a Breathed, letteralmente spezza il respiro ai suoi abitanti, manda in fiamme quanto di razionalità e umanità è presente nell’animo dei suoi abitanti, carbonizza letteralmente l’infanzia e l’animo del giovane Fielding, che ne sarà marchiato a fuoco a vita.
La presenza vera o presunta del diavolo divide, scinde tra chi resta a guardare la sofferenza altrui, compiacendosene e riconoscendosi in quelle azioni, e chi invece agisce, interviene, si prodiga perché tutto possa accadere diversamente, anche a costo di sbagliare e dannarsi per tutta la vita.
Breathed nell’estate del 1984 è uno scenario di emersione della crudeltà umana, per estensione rappresenta il mondo intero, come già ipotizzato nel 1948 nell’ omonimo romanzo utopico di Orwell. La venuta di Sal non è però la responsabile del caldo, dell’ardore, del fuoco caratterizzante quell’estate che sciolse ogni cosa, in primis le sembianze fittizie di insospettabili.
Sal non scioglie né dissolve, semmai consolida e recupera certi valori: quelli ignifughi.
È ben per questo che esiste il diavolo, come esiste il dubbio anche per il reo confesso, l’avvocato difensore va assicurato anche al diavolo, perchè c’è sempre del buono anche nel male.
Tiffany McDaniel questo ci dice, in estrema sintesi, lei ne sa una più del diavolo.

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