L'erba delle notti
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Recensione della Redazione QLibri
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" MIDNIGHT IN PARIS "
"Per me non c'è mai stato né presente né passato. Tutto si confonde".
Uno scrittore percorre le strade di Parigi, con molti ricordi risalenti a decenni prima, agli anni '60, ai suoi vent'anni.
Tra i vari personaggi, ormai poco più che fantasmi di un ambiente equivoco, spicca l'immagine di una giovane donna, già sfuggente allora, mai più rivista.
"Con il tempo le loro figure sono diventate sfocate, le loro voci impercettibili". Il tema della memoria è dominante ("Non recidere, forbice, quel volto, / solo nella memoria che si sfolla", scriveva Montale; ancora : "Ed io non so chi va e chi resta").
Siamo nella Parigi degli Esistenzialisti: non certo in quella turistica da cartolina; bensì su strade solitarie dove i passi risuonano e perfino il parco è disadorno, rifugio di gatti randagi. Le giornate trascorrono perlopiù nella morta stagione, con un grigio dominante, quasi che i vividi colori fossero qualcosa di troppo per quelle anime che prediligono la notte, come protette dal buio appena rischiarato da rari lampioni che diffondono una incerta opalescenza.
"Un orologio batteva i quarti"; "una musica jazz proveniente da una libreria". Non ci stupiremmo di intravedere, dietro una vetrata, la silhouette elegante di Juliette Greco, rigorosamente vestita di nero.
Anche negli interni "la luce era un po' velata, come se le lampadine ricevessero un voltaggio insufficiente", con l'impressione talvolta di essere catapultati dentro un quadro di Toulouse-Lautrc.
In queste atmosfere rarefatte aleggia, però, l'ombra di un delitto.
Qualcuno ha detto che tutte le arti tendono alla musica. Effettivamente qui la scrittura sobria, uniforme, senza alcuna caduta di stile, ha l'andamento di un sottofondo musicale, che riveste discretamente il contenuto ovattato, volto a "cogliere, inconsapevolmente, un vago riflesso della realtà".
D'altronde, diceva Hella Haasse, "l'arte, che non mira ad altro che a riprodurre la bellezza percepibile dai sensi, non basta a sedare la fame dell'anima".
Questo libro non è il capolavoro di Modiano, ma ha la bellezza delle opere minori, che sono tali non perché più imperfette di altre; solamente non esigono di lasciare un segno indelebile con cui identificare un autore. Si tratta però di un tassello importante del grande mosaico poetico di un artista, perché in fondo "uno scrittore crede di parlare di molte cose, ma quel che lascia, se ha fortuna, è un'immagine di sé" (J. Borges).
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Un uomo si affaccia sul suo passato
"Finalmente, grazie a un codice segreto riesci a decifrare ciò che hai vissuto immerso nel caos, senza capire bene... Un tragitto in auto, di notte, a fari spenti, e per quanto tu stessi con la fronte appiccicata al finestrino, non avevi nessun punto di riferimento. E chissà poi se davvero ti chiedevi quale fosse la meta del viaggio? Vent'anni dopo percorri la stessa strada, di giorno, e finalmente vedi tutti i particolari del paesaggio. Ma a che scopo? E' troppo tardi, non c'è più nessuno".
Un uomo, un taccuino e dei ricordi su cui riflettere. Spesso viviamo dei momenti nella nostra vita che ripensandoci in seguito restano un pò sbiatidi, ma poi succede quella cosa che riaccende il tutto e i tasselli cercano di tornare al proprio posto e quelle sfumature diventano più nitide.
Modiano fa questo con il suo protagonista, ci perdiamo in una Parigi meno conosciuta ma forse per questo più "vissuta".
Se la trama spesso mi ha lascita un pò perplessa o persa anch'io nella nebbia del protagonista, quello che invece mi ha reso sempre lucida è lo stile dell'autore, su quello non si discute, Modiano sa scrivere e lo fa anche bene.
Un libro con una trama insolita, letto in un pomeriggio, che ti lascia con la consapevolezza di non aver letto qualcosa di memorabile ma al contempo sei felice di averlo fatto.
Buona lettura.
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Quando il ricordo è tutto ciò che ci rimane
Un anziano scrittore si aggira malinconico per le strade di una Parigi dai contorni incerti, sbiaditi, nel tentativo di mettere ordine tra alcuni confusi ricordi di gioventù, di cui è rimasta traccia tra le pagine di un vecchio taccuino ("Sí, era come se avessi voluto lasciare, nero su bianco, indizi che in un futuro lontano mi avrebbero permesso di chiarire ciò che avevo vissuto sul momento senza capirlo del tutto. Segnali morse trasmessi alla cieca, nel caos più completo. E sarebbe stato necessario aspettare anni e anni prima di riuscire a decifrarli.").
Dalla memoria nebbiosa di Jean, lo scrittore protagonista del racconto, emerge nitido il ricordo di Dannie, una ragazza misteriosa e, forse per questo, pericolosamente affascinante. Dannie non manca di sedurre anche il lettore, che riesce a stento a metterla a fuoco, grazie alla descrizione, volutamente abbozzata, quasi distratta, che di lei fornisce Modiano: "Dietro la vetrina, sotto la luce troppo violenta dei neon, i capelli di Dannie non erano più castano chiaro, ma biondi, e il suo incarnato era ancora più pallido del solito, latteo, cosparso di efelidi.".
Jean conosce Dannie alla caffetteria della Cité Universitaire di Parigi, dove si recava spesso "a cercare rifugio"; scopre così che la ragazza risiede temporaneamente in una camera dell'ateneo, presso il padiglione degli Stati Uniti, pur non essendo né una studentessa, né americana.
La frequentazione di Dannie (che si scoprirà non essere neppure il vero nome della ragazza), porterà Jean a ritrovarsi nel mezzo di delicati rapporti diplomatici tra il governo francese e quello marocchino, a doversi confrontare con individui loschi, a soggiornare clandestinamente con la giovane in un'isolata casa di campagna, ad introdursi furtivamente in un appartamento, finanche a rimanere invischiato in un caso di omicidio.
Nonostante il romanzo sollevi numerosi interrogativi, il lettore non dovrà stupirsi se il finale non porterà con sé (quasi) alcuna risposta: questo, in fondo, a Modiano non è mai interessato.
Molti romanzi dello scrittore francese Premio Nobel ("Perché tu non ti perda nel quartiere" e "Incidente notturno", per citarne un paio) hanno la medesima impostazione del racconto oggetto di questa recensione: un vecchio taccuino, degli appunti annotati su di esso decenni addietro, delle dinamiche poco chiare da ricostruire.
Perché mai scrivere una serie di romanzi così profondamente simili tra di loro? La mia è solo un'ipotesi, basata sulla mia esperienza di lettore: di norma, leggendo un romanzo, tendo a concentrarmi sulla trama e sui suoi sviluppi, e provo a mettere in fila le informazioni fornite dall'autore per dare un senso alla vicenda narrata, onde trarre delle conclusioni, delle riflessioni. In Modiano, però, la trama è molto spesso nient'altro che un pretesto per sviluppare il tema del ricordo come antidoto all'oblio ("Avevo bisogno di punti di riferimento, [...] come se temessi che da un momento all'altro le persone e le cose si dileguassero o sparissero e fosse necessario conservare almeno una prova della loro esistenza."), alla solitudine ("Scrivo queste pagine per trovare linee di fuga e scappare attraverso le brecce del tempo."), ad una malinconia che consuma l'anima. Lentamente, allora, ho maturato la convinzione, romanzo dopo romanzo, che forse stavo sbagliando approccio; forse non avrei dovuto curarmi più di tanto della trama (i fatti raccontati da Modiano non sono mai cristallini, ma sempre annacquati da punti di vista soggettivi, vuoti di memoria, sogni, dal passato che si confonde con il presente: tendono a sfuggire, a non costituire solidi appigli per il lettore).
Quando lessi il mio primo romanzo di Modiano rimasi rapito dalla sua maestria nel mettere in fila le parole, nel creare immagini evocative, nel ricavare una riflessione poetica e malinconica a partire dagli oggetti più comuni o insignificanti: "Sono certo che nella casa di campagna abbiamo lasciato una luce accesa da qualche parte. [...] Oggi sono convinto che non si trattava né di dimenticanza né di negligenza, ma che al momento di andarcene ero io ad accendere di proposito una lampada. Forse per scaramanzia, per scongiurare la malasorte e soprattutto perché rimanesse una traccia di noi, un segnale che indicasse che non eravamo davvero assenti e che un giorno o l'altro saremmo tornati.".
Alla lettura del mio secondo romanzo di Modiano ho imparato ad attendere con curiosità e ad accogliere con gioia queste sue riflessioni agrodolci e piene di poesia; ho inoltre cercato di prestare maggiore attenzione ai dettagli, a quelli che normalmente trascurerei (il nome di un hotel o di una via, la descrizione di uno stato d'animo,...), nella speranza che potessero aiutarmi a trovare l'altro capo del filo, perso chissà dove, chissà quando.
Questa volta, la mia terza, ho deciso di affrontare la lettura del romanzo oggetto di questa recensione, "L'erba delle notti", utilizzando il medesimo approccio della volta precedente, senza però l'ossessione di voler trovare una risposta a tutti i miei interrogativi.
Ebbene, soffermandomi anche sui dettagli più insignificanti, ho scoperto una bellezza sottile, nascosta tra le pieghe della quotidianità, ed ho trovato in essa conforto (quando non anche rifugio). Dando importanza ad ogni piccola sfumatura, inoltre, sono riuscito a farmi un'idea, inaspettatamente e quasi senza volerlo, di ciò che è accaduto, delle vicende che ossessionano il protagonista del racconto. Un'idea generalissima, sbiadita, che lascia ancora scoperti molti interrogativi, ma tanto mi basta, e tanto basta in realtà anche a Jean, che conserva così un pretesto per continuare a ricordare, per lasciare accesa una luce mentre fuori è buio: "Il bosco, i viali deserti, la massa scura dei palazzi, una finestra illuminata che ti dà la sensazione di aver dimenticato di spegnere la luce in un'altra vita, oppure che qualcuno ti stia ancora aspettando... Tu devi essere nascosta in quei quartieri. Sotto che nome? Prima o poi troverò la via. Ma, ogni giorno, il tempo stringe e, ogni giorno, mi dico che sarà per un'altra volta.".
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Un’altra recherche du temps perdu
Ne “L’erba delle notti”, Patrick Modiano ricorre a una narrazione cifrata per esprimere l’enigma del tempo: un’entità che sembra scorrere a ritroso e affiora in modo carsico, tra i particolari di una storia incomprensibile quando è stata vissuta in gioventù da Jean, scrittore ai tempi innamorato della bella Danny: un personaggio misterioso, dalle mille identità (“Perché aveva bisogno di documenti falsi?”), che riceve missive segrete tramite il fermoposta ed è snodo di personaggi equivoci che sembrano custodire un segreto inconfessabile.
Con queste premesse Jean affronta la sua “recherche du temps perdu”, ricorrendo alle annotazioni di un diario (“Ho tentato di ritrovare l’albergo. Sul taccuino nero non avevo segnato né il nome né l’indirizzo, così come si evita di annotare i dettagli troppo intimi della propria vita, per paura che una volta fissati sulla carta non ci appartengano più”), ripercorrendo i luoghi, cercando di attingere alla memoria e di collegare tra di loro particolari e indizi (“Sì, era come se avessi voluto lasciare, nero su bianco, indizi che in un futuro lontano mi avrebbero permesso di chiarire ciò che avevo vissuto sul momento senza capirlo del tutto”). In un clima ove i personaggi potrebbero essere tanto agenti segreti (“Sembrava che tenessero un consiglio di guerra”) quanto assassini (“Cosa diresti se io avessi ucciso qualcuno?”), tra apparizioni fantasmatiche (“Jacques! … e lui si è girato”) ed echi culturali (“Aveva composto una poesia intitolata Dannie”), tra i messaggi in codice di una realtà che agisce come un bancomat, perché ha bisogno del codice segreto…
In questa nuvola di dettagli, nomenclature e toponomastiche, tra retate e liste, il lettore s’identifica nello spaesamento esistenziale di Jean (“La stanchezza? Oppure quella strana sensazione di déjà vu che ti pervade, sempre per mancanza di sonno?”) e lo affianca in un’indagine volta a ricomporre le tessere di un mosaico astratto. Quando poi un fascicolo d’archivio (“Questo fascicolo per lei sarà un po’ come una bomba a scoppio ritardato…”) viene fornito da Langlais, poliziotto in pensione, al suo scrittore preferito, ci si accorge che la verità mantiene la sua caratteristica inafferrabilità.
Lo stile di Modiano è fascinoso, risuona di angosce spazio-temporali (“Avevo la mania di conoscere tutto ciò che era esistito, nel corso del tempo e per strati successivi, in una data zona di Parigi”), conduce per mano a verificare il paradosso del tempo con la t maiuscola: “Prima o poi troverò la via. Ma, ogni giorno, il tempo stringe e, ogni giorno, mi dico che sarà per un’altra volta”…
Bruno Elpis
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Lo sfocato dei ricordi
Inquadriamo una scena con una macchina fotografica, apriamo l’otturatore al massimo e utilizziamo la miglior distanza focale in modo da mettere a fuoco il soggetto e sfocare tutto il resto. In fotografia questa tecnica serve a mettere in risalto il soggetto principale e creare uno sfondo che, pur essendo presente, rimane abbastanza indefinito. Modiano è tra gli autori più “fotografici” che abbia mai letto, i suoi libri sono istantanee continue e questo romanzo non fa eccezione.
Una storia in bilico tra sogno, ricordo e vaneggiamento, la realtà è forse il soggetto messo di volta in volta a fuoco in ogni istantanea.
La storia è composta dai ricordi di uno scrittore, riportati pian piano in superficie grazie ad appunti presi su un taccuino e dal pellegrinaggio del protagonista stesso per le strade di Parigi. Un’altra storia di ricerca e di ricordi, un’altra storia di ricostruzione, dove il tempo cronologico non ha importanza, si perde indefinitamente insieme alla confusione dei ricordi. Scopriamo pian piano la storia e forse fatichiamo a riconoscerla tra le intercapedini degli appunti e dei pensieri confusi.
Camminiamo per Parigi insieme ai personaggi o al ricordi di essi, per la Parigi di oggi e più spesso di ieri, per una città ancora una volta in toni seppia se non in bianco e nero, dalle luci basse e tendenti al giallo, quelle luci che in una fotografia scattata in notturna darebbero un effetto ocra e oro a tutto.
Poi pian piano si accendono le luci e si utilizza una pellicola a colori, si apre l’otturatore quel tanto che basta per imprime la giusta luce, sparisce lo sfocato e anche gli sfondi sono distinguibili, i ricordi confusi diventano nitidi e chiari.
Un bel romanzo, forse non il migliore, ma sempre di buon livello, Modiano mantiene sempre il suo stile, a mio avviso, gradevolissimo. Un libro che si legge con piacere.
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L’eterna luce di una lampada
Mentirei se dicessi che ho preso tra le mani questo libro indipendentemente dal Nobel che ha vinto il suo autore. Oserei dire invece che difficilmente lo avrei preso se non fosse stato per questo; il premio tanto ambito ha destato in me l’enorme curiosità di capire cosa si debba creare per meritarlo. Quel che mi sono trovato davanti è un romanzo certamente piacevole, dai buoni contenuti e con uno stile distinto e a tratti evocativo. Mentirei anche se dicessi che non ho letto di meglio, ma chi sono io per smentire l’Accademia?
Uno scrittore di nome Jean e cognome ignoto, trae spunto da un semplice taccuino per ricostruire determinati frangenti della sua vita. Vedrà materializzarsi sotto i propri occhi loschi figuri, una donna enigmatica che ama senza pretendere alcuna spiegazione e un sé stesso immerso in una Parigi pregna di angoli bui, popolati da cose e persone che a quel tempo ignorava. Nel tempo presente quelle tenebre appaiono rischiarate da una luce solare, ma ormai non ha più importanza. Il tempo diventa un’entità che sembra quasi non esistere, la vita si svolge in tutte le sue parti nello stesso momento e sotto i nostri occhi, e ci ritroviamo a incontrare persone sparite dalla nostra vita da tempo e versioni di noi stessi che hanno fatto altrettanto. Persone che non possono sentirci e delle quali conosciamo già la sorte senza avere il potere di cambiarla. Percorriamo il nostro sentiero lasciandoci alle spalle luoghi che nella nostra mente sembrano immersi in stagioni diverse in base alla bellezza del ricordo che le ha popolate, luoghi nei quali lasceremo la nostra traccia come una lampada accesa eternamente, la cui luce sembra gridare che noi siamo stati lì e che una parte di noi stessi ci rimarrà per sempre. Luoghi che possono prendere le sembianze di cuori, quelli delle persone che abbiamo amato e che forse non rincontreremo mai se non per la strada, rese vive dai nostri ricordi ma rese sorde dallo scorrere inesorabile del tempo.
“Anch’io provo una strana sensazione se penso alle lampade che abbiamo dimenticato accese nei luoghi in cui non siamo mai tornati… Non era colpa nostra. Ogni volta dovevamo andarcene in fretta e in punta di piedi. Sono certo che nella casa di campagna abbiamo lasciato una luce accesa da qualche parte. E se fossi io l’unico responsabile di quella negligenza o dimenticanza? Oggi sono convinto che non si trattava né di dimenticanza né di negligenza, ma che al momento di andarcene ero io ad accendere di proposito una lampada. Forse per scaramanzia, per scongiurare la malasorte e soprattutto perché rimanesse una traccia di noi, un segnale che indicasse che non eravamo davvero assenti e che un giorno o l’altro saremmo tornati.”