L'arte di perdere
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Come le piante, gli uomini hanno radici.
PRESENTAZIONE GENERALE. L’estate scorsa in Francia a causa del covid non c’erano fuori dalle librerie i soliti banchetti di libri usati fra cui mi piace rovistare per scoprire autori ed opere che non conosco, e così ho dovuto chiedere suggerimenti alla libraia, la quale, sostenuta da una cliente, entusiasticamente mi ha segnalato L’ARTE DI PERDERE (2017) della giovanissima ALICE ZENITER. Beh, non poteva consigliarmi meglio! Enuncio qui di seguito le principali caratteristiche di quest’opera che ho apprezzato grandemente, la quale tra i premi ottenuti conta il “Prix Goncourt des lycéens”, conferito ad opere che saranno lette anche nelle scuole. E non a caso, come si capirà più avanti.
1. STILE. L’espressione è di una chiarezza straordinaria qualunque sia l’oggetto, dalla sensazione effimera al concetto storico, e personalmente sono sempre grata all’autore di darmi strumenti sufficienti per capire quanto dice, quelli della logica e quelli della suggestione poetica. Inoltre, per la vividezza e l’autenticità di tante osservazioni anche minute, poco letterarie, il lettore intuisce anche senza aver letto la biografia dell’autrice che molto di ciò che “Je” racconta di Naima e della sua famiglia, Alice Zeniter lo ha vissuto in modo personale, come si dirà più avanti. E che ci abbia messo il cuore oltre all’intelligenza, si vede bene persino da come ringrazia tutti coloro che l’hanno aiutata a ricostruire la storia che racconta (vedi i Ringraziamenti alla fine del libro).
2. TEMA.“Certo, se scrivessi la storia di Naima, questa non comincerebbe con l’Algeria. Lei nasce in Normandia (…) Eppure, a sentire Naima, l’Algeria c’è sempre stata, lì da qualche parte. Era una somma di componenti: il suo nome, la sua pelle scura, i suoi capelli neri, le domeniche da Yema. Questa è un’Algeria che non ha mai potuto dimenticare perchè la portava in lei e sul suo volto. Se qualcuno le dicesse che ciò di cui parla non è affatto l’Algeria, che sono marcatori di un’immigrazione magrebina in Francia di cui lei rappresenta la seconda generazione (come se non si smettesse mai di immigrare (…), ma che l’Algeria è un paese reale, fisicamente esistente dall’altra parte del Mediterraneo, Naima si fermerebbe un attimo e poi riconoscerebbe che sì, è vero, l’”altra” Algeria, il paese, ha cominciato ad esistere per lei molto più tardi (…) Ci vorrà il viaggio per questo” (Prologo).
Come si vede, il tema è nel senso più ampio il legame con un paese che si conosce solo attraverso ricordi e consuetudini familiari sempre più tenui, il quale paese però, per gli autoctoni e i discendenti degli immigrati, spesso costituisce “le origini” o “le radici”, anche se si è nati e cresciuti in un altro paese assorbendone cultura e costumi, addirittura integrandovisi con successo, come Hamid e ancor più sua figlia Naima, professionista presso una prestigiosa galleria d’arte parigina, che “torna” brevemente nel paese “d’origine” per capire quanto di quel paese ci sia veramente in lei.
Ora, poiché il paese “d’origine” non è un paese qualunque, bensì l’Algeria, questo tema generale si innesta sul tema particolare della storia dei rapporti complicati tra l’Algeria e la Francia, rapporti complicati non solo per il passato coloniale e post-coloniale, ma anche per come una parte della prima e ancor più della seconda generazione di immigrati vive la sua identità, una parte che è rappresentata (in modo forse non del tutto compiuto, ma ci sarebbero volute altre 100 pagine) solo da Mohamed, lo zio di Naïma, nato in Francia, il quale “si è eretto a guardiano di un paese perduto senza averci messo piede” (p. 593 dell’edizione J’ai lu), pronto ad impartire “una grande lezione di morale” alle donne della famiglia, che “hanno dimenticato da dove vengono” e “si comportanto come puttane” (Prologo).
Per capire la complessità del tema, bisogna tener conto di come l’Algeria arrivò all’indipendenza e di cosa nel 1962 portò tanti Algerini in Francia. Tanto per cominciare, una delle due citazioni in epigrafe alla Parte III recita: “Non ci sono ancora le condizioni per visite di harkis (…) E’ esattamente come se si chiedesse ad un Francese della Resistenza di toccare la mano ad un collaborazionista”. Detto dal presidente algerino Bouteflika nel 2000! Chi sono gli harkis? Sono quegli Algerini (l’Algeria era stata conquistata dai Francesi tra il 1830 e il 1847) che combatterono e morirono a fianco degli Alleati nella Seconda Guerra Mondiale, inquadrati con i soldati della France Libre di De Gaulle, e poi non scelsero di schierarsi con l’FLN, il Fronte di Liberazione Nazionale, considerandolo alla stregua di un gruppo di terroristi, per cui nel giugno del ‘62, alla proclamazione dell’indipendenza che chiudeva la “guerra d’Algeria”, in gran numero lasciarono l’Algeria ed emigrarono più o meno fortunosamente in Francia per non rinunciare alle peraltro non regalate pensioni di guerra e per sfuggire alle rappresaglie dei loro connazionali. (:::) Siccome la radice dell’odio non muore mai, gli harkis sono ancor oggi considerati dei traditori non solo dagli Algerini d’Algeria (Naima evita di dire agli intellettuali algerini suoi amici di discendere da uno di loro) ma anche dai loro stessi figli nati e cresciuti in Francia sedotti dal fondamentalismo per rivalsa nei confronti di un paese da cui si sentono esclusi. A torto o a ragione … vedi più avanti.
LA TRAMA. Attraverso quale trama viene affrontato questo tema così complesso? Innanzitutto l’autrice, figlia di un harki e di una francese come Naima, ha studiato con evidente impegno la storia dell’Algeria dagli anni ‘50 ad oggi, in particolare fino al 2015, l’anno dell’attentato al Bataclan rivendicato dall’Isis, ed ha così ricostruito, con le risorse fornitele dall’immaginazione oltre che dalle ricerche, la storia e il vissuto di 1. coloro che lasciarono “L’Algeria di papà” (Parte 1, storia di Ali), come la chiamò De Gaulle nel ‘62 quando disse che quell’Algeria lì non esisteva più perché l’Algeria indipendente era nata; 2. di coloro che crebbero in Francia (Parte II, “La Francia fredda”, storia di Hamid), per dedicarsi infine nella Parte III, “Parigi è una festa”, al breve viaggio di Naima in Algeria, che le consentirà di fare i conti con la sua “algerinità” e rendersi conto che sì, “quel viaggio l’ha certo pacificata, e che alcune delle sue domande avevano avuto delle risposte, ma sarebbe sbagliato - continua Alice Zeniter - scrivere un testo teleologico intorno ad esso alla maniera dei romanzi di formazione. Lei non è “arrivata” da nessuna parte nel momento in cui decido di chiudere questo testo, lei è movimento, lei va ancora” (p. 604). D’altra parte Naima scopre che quell’“Algeria che lei non ha mai potuto dimenticare perché la portava in lei e sul suo viso” non è il “paese reale, che esiste fisicamente dall’altra parte del Mediterraneo”. Questo paese reale che lei scopre è “un paese vitale, in movimento, fatto di circostanze storiche modificabili e non di fatalità irreversibili”, molto diverso da quell’“Algeria rurale in cui tutti si occupavano dell’oliva” (p. 598) dei pochi ricordi di famiglia a lei trasmessi. Il risultato del viaggio, dell’incontro col paese reale, è che Naïma, “invece di mettere i suoi passi nei passi di suo padre e di suo nonno, sta forse costruendo il suo proprio legame con l’Algeria, un legame che non sarebbe né di necessità né di radici ma di amicizia e contingenze” (p. 548-549).
IL “MESSAGGIO”. La Zeniter mostra molto bene quanto la Francia sia stata “fredda” con gli harkis, di quanto merito questi abbiano dovuto dar prova per essere accettati (è il caso di Hamid, che per integrarsi pienamente rifiuta la sua cultura d’origine), ma mostra anche il maschilismo dei tradizionalisti. Tuttavia la cosa più significativa è che Naima, la quale guarda criticamente sia “la Francia fredda” sia i nostalgici di un paese che in realtà non hanno mai conosciuto come suo zio Mohamed sia i fondamentalisti, si è integrata con successo! Insomma, indirettamente la Zeniter dice che la Francia non manca di apprezzare il talento e il desiderio di integrazione: è di questo che la Francia vorrebbe convincere i giovani delle banlieues ed è per questo, secondo me, che il libro ha avuto il Prix Goncourt pour les lycéens. Partire implica sì una perdita, integrarsi implica sì la rinuncia a qualcosa, ma la consapevolezza cui arriva Naima è che la storia continua e nulla resta fermo. D’altra parte - e vengo con ciò al TITOLO - come dice la poetessa americana Elisabeth Bishop,“Nell’arte di perdere non è difficile diventare maestri (…) Ho perso (...) dei regni che avevo, due fiumi, tutt’un paese. / Mi mancano, ma in ciò non vi fu un disastro” (p. 592), ma, soprattutto, nel vuoto lasciato da “quella terra lontana, immobilizzata nel c’era una volta” (p.598), ci sono un paese reale e la possibilità di uno slancio verso il futuro alleggerito di vecchi debiti.
DUE OSSERVAZIONI FINALI: 1. Mentre da un canto i giovani discendenti di harkis rimproverano ai loro genitori di non aver scelto di stare dalla parte giusta, dall’altra i giovani francesi chiedono (ma non in gran numero, per quanto ne so) “Qu’as-tu fait en Algérie, papa?”, evidentemente sospettando fortemente che i loro papà abbiano partecipato agli eccidi …; 2. Inutile dire che nonostante si parli di Algeria, il lettore non può non allargare la riflessione alla complessità di tutti i fenomeni di colonizzazione, decolonizzazione e immigrazione dalle ex-colonie, cioè “i paesi poveri” di oggi, e persino all’incompiuta integrazione fra il Nord e il Sud dell’Italia.
Indicazioni utili
Si può perdere un paese
« -Nessuno ti ha trasmesso l'Algeria. Cosa credevi? Che un paese passa nel sangue? Di avere la lingua cabila nascosta da qualche parte nei cromosomi e che si sarebbe risvegliata quando avessi messo piede in questa terra? »
“L'Arte di Perdere” di Alice Zeniter è un romanzo denso, corposo, voluminoso, che racconta la storia di una famiglia che è stata costretta a lasciare la propria terra ed ha dovuto fare i conti con l'abbandono delle proprie radici.
La narrazione si apre in Algeria, anzi, precisamente in Cabilia, negli anni Cinquanta del Novecento: in questa prima parte del romanzo il protagonista è Alì, primogenito e capofamiglia, che, per un caso fortuito, comincia ad arricchirsi e a diventare benestante nel suo piccolo villaggio. Dopo la fine della seconda guerra mondiale l'Algeria comincia a rivendicare l'indipendenza: Alì e la sua famiglia si trovano nel mezzo di un conflitto sanguinoso e difficile. Da entrambe le parti vengono commessi abusi e violenze nei confronti della popolazione civile ed Alì, spinto ancora una volta dal caso, dalla sorte, si ritrova dalla parte sbagliata: dalla parte dei perdenti. Dovrà lasciare l'Algeria e rifugiarsi in Francia. Nella seconda parte del romanzo il protagonista diventa Hamid, primogenito di Alì, nato in Algeria ma costretto a fuggirne da bambino. Hamid si scontrerà con tutte le classiche problematiche degli immigrati: la sua famiglia, ricca e potente nel villaggio in Cabilia, si trasforma in Francia in persone che appartengono al gradino più basso della scala sociale. In più, Hamid è tormentato dalla condizione di harki, di traditori, che lui e i suoi rivestono rispetto agli altri immigrati algerini: la sua risposta è quella del rifiuto più totale nei confronti delle sue origini e anche, fino ad un certo punto, della sua stessa famiglia. La terza parte del romanzo ha infine una protagonista femminile, Näima, una delle figlie di Hamid. Lei si sente francese al cento per cento, eppure in qualche modo è attratta dall'idea di riscoprire le proprie origini.
Si tratta di un romanzo che permette di addentrarsi nelle pieghe della storia della guerra di liberazione dell'Algeria in modo forse un po' più piacevole che se leggessimo un saggio. L'autrice si è documentata benissimo e sicuramente si tratta di una lettura di qualità. Purtroppo non posso dire lo stesso riguardo al coinvolgimento emotivo, che personalmente ho provato poco. Mi è sembrata una storia un pochino fredda, non sono riuscita ad entrare in empatia con nessuno dei personaggi della prima parte del libro. Un po' più di coinvolgimento l'ho provato nei confronti di Hamid e Näima, ma anche qui mi è sembrato che l'autrice volesse realizzare il romanzo perfetto e scrivere proprio quello che ci si aspettava che avrebbe scritto, quindi mi sono sentita poco presa dalla lettura e un po' annoiata. In conclusione, un romanzo che consiglio, anche se ha deluso in parte le mie personali aspettative, che forse erano eccessivamente alte.