L'amico ritrovato Hot
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Entrò nella mia vita per non uscirne più
Konradin von Hohenfels è un ragazzo di famiglia nobile che si aggrega alla classe di Hans Scwarz, un ragazzo proveniente da una famiglia ebraica. Dal primo momento che i due passano insieme ha inizio una storia d’amicizia destinata a durare nel tempo, nonostante gli avvenimenti poco piacevoli del 1932, anno in cui si svolge la storia, nonché l'anno che precede l'avvento del nazionalsocialismo.
Ho apprezzato questo libro perché l’ho trovato molto leggero: la trama non è lunga e si riesce a seguire bene. I personaggi sono pochi e delineati, anche quelli che non si vedono ma di cui si parla. Inoltre emergono bene le differenze caratteriali dei due protagonisti, con i pensieri e le preoccupazioni di essere un sedicenne.
Lo stile è semplice: la storia è raccontata in prima persona da Hans e nonostante gli avvenimenti all’interno del racconto non siano molti, vengono narrati bene anche attraverso le descrizioni di paesaggi e città. I dialoghi presenti sono pochi e avvengono perlopiù tra lui e Konradin, scelta che ho apprezzato poiché in essi vi ho trovato il senso di questo libro.
Personalmente è un libro che consiglio perché lo si legge rapidamente, complice il numero esiguo di pagine, ed è inoltre un bel racconto di amicizia in crescendo tra due ragazzi di origini differenti, che raggiunge il culmine nelle ultime righe del racconto. Sono incuriosito da ciò che ha riservato l’autore nel sequel di questo libro.
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Non un amico qualsiasi
In una Stoccarda degli anni '30 in cui il vento del Nazismo non ha ancora cominciato a soffiare impetuoso, nasce l'amicizia tra due adolescenti sedicenni: Hans, figlio di un medico ebreo "rispettato sia dagli ebrei che dai gentili" e decorato con la Croce di Ferro, e Konradin von Hoenfels, appartenente a una ricca famiglia aristocratica che vanta un glorioso passato.
Hans - nella cui figura si ritrovano elementi autobiografici - ha "un'idea romantica di amicizia" e una prospettiva ancora incerta sul suo futuro, sicuramente meno pratica di quella che tanti suoi compagni di classe hanno del loro avvenire; pur simpatici, in nessuno di essi riesce a scorgere quell'amico che risponde al suo bisogno di fiducia, di lealtà e di abnegazione.
Konradin con un volto fiero, un portamento elegante, una "figura che, trasudava agio e distinzione" suscita ammirazione e al tempo stesso agitazione, non soltanto in Hans.
Entrambi timidi e solitari, si scoprono uniti dalla comune passione per le monete, per i libri e la poesia, per l'arte e il teatro, discutono di religione, di Dio e di ragazze.
Ma "l'occhio del tifone" non è così lontano, così esterno al loro "cerchio magico".
Tanti favorevoli giudizi di critica e di pubblico ne hanno fatto un piccolo grande classico da leggere senza esitazione.
Aspettarsi che il libro (di cui conoscevo il successo ma che non avevo ancora letto) restituisca, per il suo particolare contesto storico, in modo più compiuto e diretto una testimonianza di questa pagina nera della Storia del Novecento può in qualche modo 'guastare' la lettura.
In realtà, "questo smilzo volumetto" è da apprezzarsi in quanto, prima di tutto, storia di un'amicizia - narrata a distanza di anni dallo stesso Hans - nella quale si ritrova ciò che in ogni tempo, pur con sfumature diverse, contraddistingue quelle tipiche dell'età adolescenziale.
C'è, prima di ogni cosa, il bisogno stesso di amicizia - e per Hans non di un amico qualsiasi (ma lo stesso è per Konradin che lo confermerà poi anche in "Un'anima non vile", secondo libro della "Trilogia del ritorno" di Uhlman: "cercavo così disperatamente l'amicizia", "tutto quello che volevo era abbattere ogni barriera sociale che ci separava").
Ci sono poi l'ammirazione e il senso di inferiorità ("Cosa potevo mai offrire io, che ero figlio di un medico ebreo... a quel ragazzo dai capelli d'oro il cui solo nome bastava a riempirmi di tanta rispettosa ammirazione?"); l'affetto e la rabbia ("ora scoprivo con ripugnanza che, a causa di Konradin, mi comportavo come un piccolo snob idiota", "Per la seconda volta in meno di un'ora provai un sentimento di odio nei confronti del mio innocente amico"); il voler essere accettato ma non umiliato ("preferisco la solitudine alle umiliazioni. Valgo quanto tutti gli Hoenfels del mondo."); i pregiudizi ("E mia madre non solo detesta gli ebrei, ma li teme... Se stesse per morire e non ci fosse nessuno, tranne tuo padre, in grado di salvarla, dubito che si deciderebbe a chiamarlo."); la delusione, la vulnerabilità, la nostalgia, un amaro 'ritorno'.
E, in questo caso, sullo sfondo - ma non così tanto - lei, la Storia, che Uhlman ci consegna qui non attraverso i 'fatti grandi' bensì attraverso gli occhi di Hans e Konradin e delle rispettive famiglie, in un misto e in una contrapposizione tra forte attaccamento alla patria, lingua e cultura tedesca ("Eravamo prima di tutto svevi, poi tedeschi e infine ebrei"), un'impotente rassegnazione ("Il lungo e crudele processo che mi avrebbe portato a perdere le mie radici era iniziato e già le luci che avevano guidato il mio cammino si stavano affievolendo"), atavici pregiudizi e ingenua fiducia in un'ideologia.
Da leggere anche "Un'anima non vile", in cui Uhlman, a completamento della narrazione, ci restituisce sì la stessa storia ma stavolta la affida alla voce di un Konradin von Hoenfels anch'egli ormai adulto e prossimo a quell'epilogo, inaspettato, con cui lo si ritrova nelle ultime pagine del racconto di Hans.
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BREVE MA INTENSO
Quando scrittori e lettori descrivono questo romanzo come capolavoro minore, fanno bene a specificare che minore è attribuito solo per la brevità del libro.
Eh si, perché di minore da altri punti di vista non è.
Ho letto L’Amico ritrovato in poco più di qualche ora ma, seppur siano poco meno di cento pagine, mi ha letteralmente lasciato con qualcosa dentro.
Vale la pena leggere questo piccolo romanzo solo per il tema toccato, l’olocausto, un argomento che mi ha sempre attirato anche se con timore, ma anche per i sentimenti di amicizia, amore per la patria, innocenza giovanile, tutto questo comprare nelle poche pagine di Uhlman.
Ma più di tutto, la conclusione è quella che ti rimane, io l’ho trovata davvero toccante.
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“Ora ero risvegliato alla vita.”
“Entrò nella mia vita nel febbraio del 1932 per non uscirne più.”
“…fonte della mia più grande felicità e della mia più totale disperazione.”
Mi sembra di sentirlo il tono elegante e rispettoso mentre pronuncia il suo nome…”Konradin, conte di Hohenfels, nato a Burg Hohenfels”…
Siamo a Stoccarda, Germania, inizi degli anni 30 e quella tra Hans Schwarz, ragazzo ebreo di famiglia borghese e Konradin, di famiglia aristocratica, è più di una amicizia e di un comune amore per la letteratura e l’arte.
Gli eventi ci vengono raccontati direttamente da Hans in prima persona.
Quando si incontrano per la prima volta hanno sedici anni.
“Studiavo il suo volto fiero e sono certo che nessun innamorato guardò mai Elena di Troia con altrettanta intensità…”.
Konradin risponde all’idea romantica e anche ideale che Schwarz ha dell’amicizia, come nessuno aveva fatto mai, e realizza che per lui e solo per lui, avrebbe potuto dare la vita.
L’amore non conosce età né religione né sesso né scopo e niente potrebbe essere più vero; chi pensa che siano frasi di una banale ovvietà dovrebbe leggere questa lunga novella, lasciare andare le proprie certezze e paure. E percepirà la felicità negli attimi, il profumo della primavera, la poesia dello sbocciare dei fiori e i loro colori e l’entusiasmo per l’attesa delle passeggiate che verranno, e sapere che anche domattina i due amici si attenderanno reciprocamente.
Amicizia che con l’andar degli anni verrà ripetutamente messa alla prova. Toccherà a Konradin quando andrà per la prima volta a casa dell’amico e conoscerà i genitori di lui. Il padre di Hans, medico ebreo, fortemente tedesco nell’animo, ha combattuto nella guerra con onore, e ritrovandosi in casa Konradin si comporterà in modo da sorprendere e umiliare Hans; quest’ultimo ripenserà alla figura di quel padre, di cui ha tuttavia tanta stima e affetto arrivando a provare un irresistibile senso di avversione nei confronti di quell’amico capace di far nascere in lui sentimenti così contrastanti. Eppure Konradin supera per entrambi l’umiliante momento, ponendo la sua attenzione unicamente ai libri e dando così il tempo ad Hans di liberarsi in lacrime e un sorriso. E’ un attimo nel racconto degli eventi a cui spesso sono tornata con la mente, di una dolcezza e sensibilità difficile da tradurre in parole, eppure l’autore ci riesce, e lo fa con poche frasi che si trasformano in struggenti immagini in me che leggo….l’amicizia… travalica l’amore puro.
Hans e i suoi dubbi… il sentirsi non completamente accettato, forse indesiderato, è una dolorosa sensazione sempre viva; trova conferma in quell’invito tanto anelato a casa dell’amico, che quando finalmente arriverà sarà sempre, inspiegabilmente, in assenza dei genitori di quest’ultimo.
Avanza il nazional-socialismo e precipitano gli eventi e anche l’amicizia.
La perfetta intesa appare un puzzle smembrato.
Delusione, sconcerto, rabbia. Grande dolore.
E quell’assurda ammirazione nei confronti di Adolf Hitler…
Sarò stata l’unica al mondo a non sapere cosa ha riservato la sorte ai nostri amici e dunque ho tanta pena, mi fermo indecisa e stupita e Uhlman mi fa scoppiare il cuore e mi libera, proprio quando penso di non aver capito nulla… mi lascia commossa e indifesa, ancora e ancora e ancora e sempre, dopo diciassette lunghi anni.
Buone prossime letture.
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T'ho fregato!!!
La fine del racconto sembra proprio dire questo: "t'ho fregato, amico mio"
Se c'è un racconto classista, questo è il più eclatante.
I ricchi sono cattivi e intolleranti. Gli umili buoni e altruisti.
E' sempre difficile riuscire a dare un giudizio su un libro, che si professa storico e tratta il tema dell'Olocausto.
In questo breve romanzo si incontrano e scontrano due mondi diametralmente opposti.
Da una parte un giovane ebreo che deve fare i conti con l'inizio dell'onda antisemita, dall'altra un solitario figlio di sangue blu che ha una famiglia simpatizzante per baffetto.
In mezzo a questo casino, si dirama l'inizio della fine della Germania nazista.
Il testo è gradevole, qua e la ripetitivo, con un velato sentimento di angoscia e di rassegnazione che pervade gran parte della narrazione.
Il finale è la parte più interessante, frizzante e per certi versi inattesa di tutto il racconto.
Solitamente i libri che trattano il secondo conflitto mondiale, sono dei polpettoni indigeribili, questo testo invece scorre via leggero e velocemente, mantenendo sempre un tono abbastanza gaio in relazione al tema trattato, forse perchè il vero conflitto non è ancora scoppiato quando i due giovincelli si conoscono e per certi versi sembrano anche essere attratti l'un con l'altro....nel loro rapporto infatti si supera un po quel sottile limite che divide un amicizia da un qualcosa di più affettuoso e intimo. Poi parliamo di un secolo fa, quindi certe cose era meglio celarle oppure magari etichettarle come "amicizia".
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Lode all'amicizia e non solo
Era tempo che non mi capitava eppure mi sono ritrovata a piangere come una disperata leggendo questo libretto carico di verità e di durezza velata, raccontato con una finezza estrema.
Amicizia, Storia e ingiustizia si intersecano. Un ciclone invade senza che se ne possano accorgere un'amicizia pura, sincera, limpida. La storia universale e umana, per non dire disumana, schiaccia la storia personale di due ragazzi così intrinsecamente uguali e così esteriormente diversi.
Un libro che racconta la storia vista non da lontano, come grandi avvenimenti definiti e determinati, ma da vicino, dagli occhi delle persone che hanno visto la loro vita ribaltata da un giorno all'altro, dagli occhi di chi non poteva nemmeno immaginare la crudeltà e la spietatezza del genere umano. Un libro che fa nascere la paura oggi, perchè la storia ricorda come l'uomo sbagli sempre e non impari mai dai suoi errori. Un libro che racconta quanto l'uomo sia cieco, perché il ciclone, che ci sembra tanto lontano, che ha travolto Konradin e Hans potrebbe colpire noi, oggi, sotto altre mille forme.
E se, per il suo tono tenue in contrasto con l'immensa tragedia del '900, "L'amico ritrovato" non passerà alla storia per il suo sfondo storico sarà sicuramente ricordato come la più vera e sincera storia d'amicia: di un'amicizia alta e degna, orgogliosa e sincera ma soprattutto che sa darsi in tutto e per tutto perché la vera amicizia è pronta a dare ogni cosa:
"Sono convinto che non si trattasse di un'esagerazione e che non solo sarei stato pronto a morire per un amico, ma l'avrei fatto quasi con gioia".
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Un’opera minore che non ci aiuta a capire
'L’amico ritrovato' è senza dubbio l’opera più celebre di Fred Uhlman, autore tedesco naturalizzato britannico, sorta di scrittore dilettante (la sua professione principale essendo quella di avvocato) attivo nella seconda metà del secolo scorso.
Nato nel 1901 a Stoccarda in una agiata famiglia della borghesia ebraica, Uhlman lasciò la Germania pochi mesi dopo l’avvento al potere del nazismo, approdando dopo varie peripezie a Londra nel 1938, dove tra l’altro fondò una associazione culturale tedesca di cui fecero parte tra gli altri anche Oskar Kokoschka e Stefan Zweig, associazione da cui si discostò quando assunse connotati comunisti. Fu anche un apprezzato pittore e grande collezionista di arte africana. L’amico ritrovato uscì nel 1971, divenendo negli anni un piccolo classico della narrativa inerente il nazismo: è un breve romanzo, o meglio una lunga novella, primo capitolo della 'Trilogia del ritorno', comprendente anche 'Un’anima non vile' e 'Niente resurrezioni, per favor'e.
Va subito detto che il mio giudizio critico sull’opera è forse monco, perché essa andrebbe probabilmente letta e valutata insieme al secondo capitolo della trilogia, che narra le stesse vicende viste con gli occhi del secondo protagonista, Konradin von Hohenfels.
La novella narra dell’amicizia tra due ragazzi sedicenni nella Stoccarda del 1932: Hans Schwarz, figlio di un medico ebreo, e appunto Konradin von Hohenfels, giovane rampollo di una delle più nobili ed antiche famiglie tedesche. Hans, dietro il quale è facile scoprire l’autore, narra in prima persona della sua amicizia giovanile con Konradin, quando negli anni ‘60 ormai da decenni vive a New York essendo diventato un affermato avvocato.
Nel febbraio del 1932 Konradin entra nella classe del liceo frequentato da Hans. Entrambi i ragazzi sono timidi e non legano con gli altri compagni di classe, troppo rozzi o troppo affettati per suscitare il loro interesse. Hans è affascinato da ciò che Konradin rappresenta, dalla storia quasi millenaria della sua famiglia, e cerca di attirare in vari modi la sua attenzione: finalmente un giorno fanno insieme la strada verso casa e diventano amici, scoprendo di condividere la passione per il collezionismo di monete e reperti antichi. Per alcuni mesi i due ragazzi si limitano a vedersi a scuola, poi un giorno Hans invita Konradin a casa sua: mentre la madre di Hans accoglie l’amico del figlio con una spontanea tenerezza materna, il padre, veterano e decorato della prima guerra mondiale, si rende ridicolo trattando Konradin con un inopportuno cameratismo militaresco da cui traspare un evidente senso di inferiorità sociale e gerarchica nei confronti del rampollo della famiglia illustre.
Intanto sulla Germania si fanno sempre più cupe le nubi politiche, anche se a Stoccarda, vivace capitale del ricco e culturalmente avanzato Württemberg, la vita scorre apparentemente tranquilla e delle prevaricazioni naziste giungono solo echi attutiti. Anche nella famiglia di Hans sono convinti che il nazionalsocialismo rappresenti una malattia passeggera, e che il popolo di Schelling, Hölderlin, Hegel e Beethoven non possa cadere preda della barbarie nazista: Hans si sente ”prima svevo, poi tedesco e infine ebreo”, la sua famiglia è di fatto agnostica e come detto il padre ha combattuto valorosamente per la sua patria, senza mai sentire la sua origine ebraica come elemento di differenziazione sociale, tanto da disprezzare il movimento sionista.
Hans però nota che Konradin per lungo tempo non ricambia l’invito ad andare a casa sua, salutando sempre l’amico sulla soglia dell’arcigno palazzo Hohenfels; quando infine viene invitato dall’amico a entrarvi i genitori di Konradin sono assenti, e così pure le volte successive.
In quello che si può considerare il capitolo centrale della novella, Hans si reca a teatro con i suoi genitori, dove scorge Konradin con la famiglia, oggetto dell’attenzione generale: nel foyer Konradin, che sfila accanto ai genitori per salutare regalmente gli astanti, ignora Hans. Nella drammatica spiegazione tra i due che segue, Konradin confessa che sua madre, di origini polacche, odia gli ebrei, e che anche suo padre non vede di buon occhio la sua amicizia con Hans.
Gli eventi intanto precipitano: nel liceo arriva un professore antisemita, ed anche molti compagni iniziano a tormentare Hans in quanto ebreo. I genitori di Hans, ormai consci della gravità della situazione, ritirano il figlio dal liceo e nel gennaio del 1933 Hans parte per New York, dove potrà studiare e vivere presso alcuni parenti. Prima di partire riceve una lettera nella quale Konradin gli dice di aver aderito al nazismo come argine al comunismo, minimizzando ciò che sta accadendo agli ebrei.
Molti anni dopo Hans, ormai affermato professionista che ha fatto di tutto per dimenticare il suo passato, riceve a New York una richiesta di donazione da parte del suo vecchio liceo per l’erezione di un monumento funebre agli allievi morti in guerra, accompagnata dalla lista dei caduti. Dopo avere represso il primo istinto di gettare subito tutto nel cestino, Hans inizia a scorrere la lista, scoprendo che moltissimi suoi compagni di classe, compresi i nazisti della prima ora, sono morti: non ha però il coraggio di leggere cosa ne sia stato di Konradin, il cui tradimento gli fa ancora molto male al cuore. Finalmente l’occhio si posa sulla lettera H… e qui lascio al lettore di scoprire come termina la novella.
Nella sua brevissima introduzione all’edizione londinese del 1977, quella che decretò il successo internazionale de L’amico ritrovato, Arthur Koestler – scrittore e giornalista ungherese naturalizzato britannico dalla parabola umana e politica simile, benché molto più drammatica, a quella di Uhlman – definisce la novella dell’amico un capolavoro minore, specificando che l’aggettivo ”si riferisce alle dimensioni ridotte dell’opera”. Personalmente credo che l’aggettivo minore debba essere invece esteso al giudizio complessivo che si può dare della novella di Uhlman, sia per quanto concerne il suo contenuto sia per ciò che riguarda gli aspetti formali.
Ho ritrovato infatti in questa novella tutti i difetti che avevo riscontrato negli scritti di un altro scrittore tedesco di origini ebraiche costretto a fare drammaticamente i conti con il nazismo: Stefan Zweig - che peraltro come accennato Uhlman frequentò nei suoi primi anni londinesi - difetti aggravati da almeno due elementi: dal fatto che L’amico ritrovato sia stato scritto nel secondo dopoguerra, quando la riflessione sul nazismo, anche in ambito strettamente letterario, aveva già fornito prove di ben altro spessore, e dallo stile di scrittura di Uhlman, ancora più dimesso e piano (per non dire convenzionale) di quello del già moderato Zweig.
Al fondo della novella di Uhlman c’è infatti a mio avviso, analogamente a quanto accade in molte delle opere di Zweig, un’operazione di nostalgia per il mondo di ieri che si può comprendere solo tenendo presente il milieu sociale cui Uhlman/Hans apparteneva; vi ho scorto inoltre una sottile opera di rimozione delle cause del nazismo, che finisce per limitare fortemente la valenza complessiva dell’opera. Molte pagine sono spese per descrivere la dolcezza del territorio svevo, la vivacità culturale della Stoccarda dei primi anni ‘30, la dolce vita che vi si conduceva, fatta di teatri, musei e trattorie sulle colline di cui Uhlman ci descrive con puntiglio le specialità gastronomiche. Se da un punto di vista umano, considerato sia l’esilio cui l’autore fu costretto sia il fatto che quella Stoccarda fu di fatto rasa al suolo dalla guerra, la nostalgia che gronda dai primi capitoli del libro è comprensibile, non altrettanto si può dire riguardo alla sua oggettività. È infatti una nostalgia che tende a farci apparire Stoccarda e la Svevia come una sorta di isola felice in una Germania nella realtà attraversata da un drammatico scontro sociale e politico, iniziato con la sconfitta nella prima guerra mondiale, con le tremende condizioni di pace imposte dai vincitori e proseguito con la grande inflazione e quindi con i tragici effetti della crisi del ‘29, la disoccupazione di massa e le politiche di austerità del cancelliere Brüning. Di tutto questo non c’è traccia nel mondo ovattato di Hans, se non l’apparizione improvvisa di muri deturpati tanto dalle svastiche quanto dalla falce e martello, sorta di esposizione di una teoria degli opposti estremismi che non ci fa fare alcun passo in avanti nella comprensione di ciò che stava accadendo e che costituisce, come vedremo, a mio avviso una delle tesi di fondo dell’opera. Il nazismo è una malattia, che per di più viene da fuori, dalla Prussia, come emblematicamente rappresentato dal prussiano Herr Pompetzki, il nuovo professore di storia antisemita: da sottolineare che qui tra l’altro Uhlman compie (anche se non so dire quanto consapevolmente) una vera e propria operazione di rimozione, visto che la culla del nazismo non sono stati i freddi e lontani lidi baltici, ma la Baviera, assai più vicina geograficamente e culturalmente prossima al Württemberg.
Konradin von Hohenfels rappresenta, per Uhlman, il distillato di una storia millenaria fatta di gloria e di coraggio, che ci viene descritta analiticamente in uno dei primi capitoli, e che si affianca alla grande tradizione culturale tedesca, anch’essa oggetto di culto da parte del giovane Hans (per la verità accanto alla grande cultura europea). Anche rispetto agli Hohenfels e al loro retaggio storico il nazismo, di cui la novella coglie gli aspetti aberranti esclusivamente in relazione all’antisemitismo, è un fattore esterno: la prima nazista della famiglia è infatti emblematicamente la madre di Konradin, polacca, mentre il padre è più indifferente alla questione, e tradizionalmente solo preoccupato di mantenere alto il buon nome familiare. Quando poi Konradin scrive la lettera con la quale comunica ad Hans di essere diventato nazista si giustifica con la necessità di fermare il comunismo, e significativamente, a mio modo di vedere, Hans non commenta in alcun modo questa scelta, conferendole una sorta di legittimazione che ritroveremo nel finale. Traspare infatti, nei pochi passi esplicitamente politici della novella, una sostanziale equiparazione tra nazismo e comunismo, ad esempio quando Hans ricorda che la madre ”aveva troppo da fare per preoccuparsi dei nazisti, dei comunisti o di altra gente di quella risma”, locuzione che di fatto equipara i due opposti schieramenti.
In sostanza, ci dice Uhlman, esisteva una Germania colta e tollerante, della quale gli ebrei erano da secoli parte integrante, e di cui la Svevia era la punta di diamante. All’improvviso, non si sa bene perché, questa Germania felix fu infettata dai virus del nazismo e del comunismo, entrambi distruttivi seppure contrapposti, ed in qualche modo la società, anche nella sua parte più nobile, si trovò costretta a scegliere tra due mali assoluti, spesso senza rendersi conto del vero volto del nazismo, scoperto quando ormai sarà troppo tardi, come dimostra la vicenda di Konradin. Sappiamo invece come le cose siano andate in modo sostanzialmente diverso, e come le classi dominanti tedesche non si siano trovate a scegliere, ma abbiano attivamente sostenuto il nazismo come strumento per il superamento a destra della crisi e di annientamento del movimento operaio ai fini della conservazione dello status-quo economico, analogamente a quanto avvenuto in Italia una decina di anni prima.
Non sorprende quindi a conti fatti l’unanime entusiasmo con cui 'L’amico ritrovato' è stato accolto in occidente, entusiasmo del quale la quarta di copertina dell’edizione Feltrinelli da me letta dà conto citando fonti come il New Yorker, il Financial Times o Le Monde, ovvero il clou della stampa internazionale ufficiale, liberal o conservatrice: 'L’amico ritrovato' è infatti l’opera perfetta per acquietare le nostre coscienze borghesi, che ci permette di esecrare il nazismo senza fare davvero i conti con le vere cause della sua ascesa, cui non furono affatto estranee le classi dirigenti che più tardi, ma solo molto più tardi, gli si scagliarono contro per distruggerlo; anzi, va sottilmente più in là, ammiccando quasi ad una sua giustificazione di fondo, almeno iniziale, in funzione anticomunista, esattamente quella che sposarono quelle stesse classi dirigenti.
Resta da dire che anche dal punto di vista formale 'L’amico ritrovato' è un’opera minore: lo stile di scrittura di Uhlman è infatti come detto piatto e convenzionale e, a mio avviso, non riesce a trasmetterci appieno né l’atmosfera della Stoccarda anteguerra né le vere emozioni dei protagonisti, perdendosi a volte in descrizioni verbose (gli antenati di Konradin, le specialità culinarie di Stoccarda, gli oggetti delle collezioni dei due ragazzi): se da un lato la scrittura di Uhlman facilita la lettura (non per nulla Le Monde lo consiglia dai dodici anni in su) dall’altro è l’espressione formale della sensazione di superficialità che mi ha lasciato questa novella, tipica rappresentante di una buona parte della letteratura mainstream del secondo dopoguerra.
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Ricordo dolceamaro
Ho più volte sentito definire questa novella come una lettura imprescindibile per il genere dei romanzi storici basati sul periodo della Seconda Guerra Mondiale, e più nel dettaglio dell’Olocausto. Terminata la lettura, posso finalmente dirmi pienamente d’accordo - ora con cognizione di causa.
Pur non brillando particolarmente per lessico o stile, questo volume è senza dubbio una delle maggiori e più forti testimonianze della Storia, e al contempo il racconto di un’amicizia tanto salda da sfidare le convenzioni sociali e lo stesso destino.
A qualcuno sembrerà stonato l’accenno alla testimonianza in un romanzo, ma è sufficiente leggere l’interessante introduzione a cura di Arthur Koestler per intuire più di qualche accenno autobiografico nell’opera di Uhlman.
La novella si concentra principalmente sulla Svevia dei primi anni ’30; in particolare, la storia inizia in un liceo dove Hans, figlio di uno stimato medico ebreo, incontrerà Konradin, erede di una nobile e ricca famiglia ariana.
I due ragazzi sono entrambi solitari e riservati, ma sentiranno subito una forte connessione che li porterà in poco tempo a diventare amici inseparabili, a discapito di ogni pronostico fatto dai loro compagni e, soprattutto, della volontà della famiglia di Konradin che disprezza gli ebrei e dimostra apertamente il proprio supporto al neonato governo nazionalsocialista guidato da Adolf Hitler.
Grazie all’amicizia di Hans, Konradin inizierà a porsi delle domande sulla sua fede, sia religiosa che politica; e se pure all’apparenza si manterrà fermo nei suoi principi originari, al lettore viene concesso di scoprire fino a che punto le parole dell’amico lo abbiano segnato.
Dal canto suo, anche Hans otterrà un importante insegnamento -essere fieri della propria famiglia e non temere il giudizio degli estranei-, ma forse sarà in grado di comprenderlo appieno solo anni più tardi.
Il romanzo ripercorre poi la partenza di Hans per quello che era allora un lido sicuro per gli ebrei europei, gli Stati Uniti, per poi concludersi con il ricongiungimento all’amico, promesso nel titolo.
Data la brevità del libro e il suo focus diretto al rapporto tra Hans e Konradin, ai personaggi secondari viene dato ben poco spazio. Nonostante ciò, il dottor Schwarz riesce a conquistare l’attenzione e l’affetto del lettore, distinguendosi per la fiera appartenenza allo Stato tedesco; e se inizialmente pare essere miope di fronte alle violenze contro gli altri ebrei, poi dimostra la sua lungimiranza. E uno straordinario coraggio.
Tra i due protagonisti invece, ho scoperto a poco a poco di preferire Konradin: sebbene la storia segua sempre il suo POV, Hans si rivela un mero narratore, mentre Konradin gioca un ruolo ben più attivo e affronta una difficile evoluzione, sempre in modo discreto ed onesto.
Per dei protagonisti tanto positivi ed apprezzabili dal lettore, Uhlman introduce una schiera di antagonisti di prim’ordine, a cominciare dagli immancabili bulli a scuola. Ben più pericoloso il ruolo giocato dalla madre di Konradin e dal loro insegnante di storia, deciso ad inculcare nelle giovani menti dei suoi allievi gli ideali di superiorità della razza ariana.
Il volume in sé non è un vero romanzo: per la sua brevità lo si può giustamente considerare una novella, ma più nel dettaglio è una serie di ricordi che il narratore ormai adulto ripercorre con la memoria. Questo si evidenzia maggiormente per la presenza di dettagli chiari solo in alcuni episodi e per la quasi totale assenza di dialoghi.
Come già accennato, l’autore propone uno stile abbastanza semplice; è però importante notare l’attenta scelta dei colori da usare nelle descrizioni. Con questo espediente, l’Uhlman pittore riesce a palesare la propria natura d’artista.
L’elemento che più mi ha affascinato nella novella è sicuramente il ritratto vivido e reale della vita a Stoccarda negli anni ’30, ma soprattutto la speciale percezione di quel momento storico e sociale filtrata attraverso gli occhi a volte ingenui, a volte fin troppo consapevoli, di un adolescente.
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Piccolo e immenso
Sono tante le parole che possono essere usate per parlare della pagina più buia e triste della storia dell'umanità, eppure io ne ho davvero pochissime...
Lascio volentieri la parola ai libri.
Libri come questo, piccolissimi nell'aspetto, immensi nel contenuto.
Ogni volta penso di essere pronta, di essere ormai "corazzata"...ed ogni volta mi scopro fragilissima, impreparata ed impaurita.
Questo libro, come anche "Una bambina e basta" di Lia Levi, letto pochi giorni fa, non tocca con mano l'orrore dell'olocausto, ma lo sfiora...ce ne dà una visione "periferica", non entriamo dentro i campi di sterminio, non assistiamo direttamente alla ferocia della malvagità umana nella sua più riuscita realizzazione, ma non per questo ci scombussola di meno.
L'orrore è solo più sottinteso.
Il dolore è solo apparentemente "attutito" da un racconto genuinamente adolescenziale.
Eppure in queste poche, intense pagine, basta una parola, l'ultima del libro, a capovolgere tutto, a ridare un filo di luce e di speranza nel nero di un orrore inimmaginabile.
La gioia di scoprire di non essere stati completamente traditi da chi si è amato molto si scontra con l'amara consepevolezza che tale "sentimento ritrovato" sia comunque troppo troppo...tardivo.
"Bisogna fare attenzione prima di concedere la propria fiducia a un tedesco.
Come si fa ad essere certi che l'uomo con cui si sta parlando non abbia immerso le mani nel sangue dei vostri amici o dei vostri parenti?"
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Il gioiello di Fred Uhlman
Scrivere un romanzo sugli anni dell’olocausto potrà essere un’impresa notevole, ma condensare ciò che di più puro e commovente si possa immaginare in una smilza novella ambientata negli anni più atroci della storia umana, ha dell’impossibile.
Ebbene, Fred Uhlman ci riuscì.
Tutto ebbe inizio nella Germania degli anni trenta, a Stoccarda. Hans è un adolescente ebreo della media borghesia tedesca, piuttosto annoiato dalla solita vita e dalla solita gente. In classe non c’è nessuno che corrisponda alla sua idea romantica di amicizia, nessuno per cui dare volentieri la vita. C’era “il Caviale", un gruppetto di ragazzi dotti e simpatici fieri della propria superiorità intellettuale, gli aristocratici orgogliosi dei loro nomi e una serie interminabile di visi poco interessanti e dalle aspirazioni troppo pratiche.
Poi un giorno, senza preavviso, arrivò. Il sorriso appena accennato, lo sguardo vagamente altezzoso, i capelli dorati e quella naturale eleganza che ammutolì la classe intera. C’era qualcosa di diverso in lui, “non ricordo esattamente quando decisi che Konradin avrebbe dovuto diventare mio amico, ma non ebbi dubbi sul fatto che, prima o poi, lo sarebbe diventato.”
Ma come conquistare l’amicizia del ragazzo che, con estrema grazia, aveva già rifiutato quella del Caviale o degli aristocratici? Come far comprendere al discendente di una delle stirpi più nobili e antiche dell’intera Germania, di essere diverso da tutti gli altri e di meritare attenzione? Probabilmente si trattava di destino e infatti, neppure tre giorni dopo, sarà lo stesso Konradin ad avvicinarsi a lui e da quel momento iniziò tutto.
Sarà una di quelle rare amicizie che ogni uomo spera di ricevere dai suoi giorni, un idillio lungo una vita, ma Hans è un ragazzo ebreo e Konradin un nobile tedesco, nell’epoca in cui il mondò impazzì. Nonostante i tentativi di Konradin di nascondere più a lungo possibile la realtà, Hans scoprirà le tendenze antisemite della famiglia dell’amico. Konradin lo pregherà di non accusarlo per le colpe dei suoi genitori, per circostanze del tutto indipendenti dalla sua volontà e Hans non lo farà, ma entrambi i ragazzi lo sanno bene, sanno che la loro vita e la loro amicizia non sarà più la stessa.
Hans partirà per l’America, prima che sia troppo tardi, ma l’idea che Konradin possa aver preso parte a quegli orrori, lo tormenterà per il resto della sua vita.
La fine del romanzo, che lo consacra a vero e proprio capolavoro, svelerà ad Hans la sorte del suo amico, concedendogli, in un certo senso, di ritrovarlo.