L'altalena del respiro
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Bello, ma...
Al termine della seconda guerra mondiale, la comunità tedesca della Romania subì una serie di deportazioni da parte dei sovietici: di una di queste è vittima l’adolescente Leo, che sul momento considera il trasferimento in Ucraina come una fuga dall’opprimente piccola cittadina in cui è cresciuto e in cui è appena sbocciata la sua omosessualità. Gli basta poco per rendersi conto che il lager è il rosario di sofferenze che abbiamo imparato a conoscere: la fame, il freddo, il lavoro tanto inutile quanto massacrante, i pidocchi producono un abbrutimento che trasforma l’esistenza in pura lotta per sopravvivere. Per mantenere intatta la propria essenza, il giovanotto fa convergere l’attenzione sulle piccole cose, regalando nella sua mente agli oggetti inanimati una sorta di soffio vitale, e al contempo si aggrappa alle parole, unendone suono e significato allo scopo di restare in contatto con una realtà che l’assurdità del vivere quotidiano tende a sfumare. Nei cinque anni di prigionia in molti muoiono e chi sopravvive resta segnato per sempre: al ritorno a casa, il protagonista si sente un estraneo e, malgrado i tentativi, un tranquillo tran-tran esistenziale non riesce ad aver senso per lui. Come Leo, rumena di origine tedesca è anche l’autrice che ha pubblicato il libro nello medesimo anno – il 2009 – in cui ha vinto il premio Nobel: per riuscire a narrare il doloroso argomento, Müller si basa sui ricordi del poeta Oskar Pastior, tanto che l’opera doveva essere a quattro mani, progetto sfumato dopo la morte di Pastior stesso. Come ci si può aspettare, il risultato è un romanzo su cui aleggia una coltre plumbea, ma che sa comunque affascinare in svariati dei suoi passaggi malgrado il ritmo sia nell’insieme al rallentatore. La prosa è complessa e fitta di immagini poetiche, ma la concentrazione in più che richiede è ripagata dai numerosi momenti e personaggi che rimangono nella memoria, non importa se isolati o ciclici: se fra i primi si possono citare l’incontro con la vecchia o la raccolta delle patate, dei secondi vanno almeno sottolineati i balli di gruppo o le sedute dal barbiere. I capitoli che raccontano simili episodi sono spesso e volentieri brevi o brevissimi, come per meglio mettere a fuoco i particolari, e si alternano ad altri che si dilungano nei dettagli della vita e, soprattutto, del lavoro nel campo: la descrizione è senza eccezioni minuziosa in modo esagerato, finendo per stridere con il tono complessivo del volume. Forse il contrasto tra la banalità di ogni giorno e la capacità di sollevarsi della mente è voluto, ma non si può negare che il mancato amalgama fra le due parti appesantisca un po’ la lettura, togliendo qualcosa alla soddisfazione complessiva.
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Tabù
La genesi di questo scritto è significativa e permette di capirne la natura e di apprezzarne l’intensità.
Il libro nasce da un sogno, quello di svelare un tabù privato e collettivo: la deportazione subita dalla minoranza rumeno- tedesca nei campi di lavoro forzato dell’Ucraina a partire dal gennaio del 1945 in seguito alla capitolazione della Romania e alla sua dichiarazione di guerra alla Germania, ex alleata. I sovietici, chiesero al governo rumeno che la minoranza tedesca fosse ceduta per essere impiegata nella “ricostruzione”. Il dopoguerra, gli anni di pace seguiti al secondo conflitto diventarono così per molti, anni infernali, di stenti, di morte, di duro lavoro e di deprivazione assoluta di quel poco che ancora c’era da togliere.
Il tabù privato è, nell’ordine, quello della madre della Muller che mai riuscì a parlare degli orrori vissuti e dell’amico poeta Oscar Pastior che casualmente si aprì al ricordo e lo consegnò all’amica che da anni si documentava soprattutto utilizzando le fonti orali rappresentate dal racconto dei sopravvissuti. Il tabù collettivo fu quello di un popolo costretto al regime dittatoriale che non ammetteva ricordo.
Il sogno sarebbe stato quello di pubblicare un libro insieme; l’improvvisa morte di Pastior arrestò momentaneamente l’intento e dopo il dolore la tenace Herta, riformulò le sue carte donando nuova vita al ricordo.
Depauperando lo scritto di un vero e proprio impianto narrativo, decise di offrire l’universo sensoriale di Leo, un diciassettenne rumeno, tutto riferibile alla sua vita in un lager ucraino, esiliato, deportato, umiliato e offeso per ben cinque anni.
Non si legge dunque un resoconto romanzato, non si legge un memoriale; sulla tenue linea del criterio cronologico si entra in sessantaquattro episodi per immagini nei quali, di volta in volta è dominante un unico elemento. Può essere il cemento o i pioppi neri o i cani della steppa, il pane, i dieci rubli, le patate...
Se inizialmente la lettura risulta spiazzante e frammentata, gradualmente si familiarizza con lo stile duro e poetico che anima un impianto a tratti onirico e surreale per giungere a piena comprensione di un quadro tremendamente reale. Si entra in piena sintonia del sentire, all’unisono quasi il fiato, nell’altalena del respiro che è il delirio della fame, della paura, della sopravvivenza. Tremendo uscire dal lager con Leo, si è rapiti da quell’indicibile malinconia e nostalgia che ha reso casa un luogo di sofferenza e di morte. Si lascia lo scritto empaticamente vicini a Leo, capaci di capirne la difficile reintegrazione, incapaci di dimenticare quelle scene che più ci hanno colpito.
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L'angelo della fame veglia su tutti noi
Premetto che questo è il primo libro di Herta Muller che leggo. Incurisita dal suo premio Nobel ho comprato il libro per il titolo che definirei senza esitazione spettacolare. Fin da subito però vedendo citato il poeta Oskar Pastior mi sono chiesta quanto realmente fosse opera esclusiva della Muller. Questo non saprei dirlo, anche se per certo il poeta nel lager ci è finito veramente e la Muller tiene a precisare nelle ultime pagine che il libro doveva essere scritto a quattro mani ma poi Pastior è morto e in genere se un autore precisa una cosa del genere vuol dire che sotto sotto probabilmente il romanzo andava anche firmato con il doppio nome... A parte ciò, nel romanzo di una potenza notevole ci troviamo di fronte a una storia di deportazione, un giovane tedesco finisce in un campo di lavoro russo e là rimane per 5 anni. Le descrizioni sono di una durezza e crudeltà uniche, crudeltà che solo chi ha vissuto il lager può replicare sulla pagina. Elementi di una bellezza ineguagliabile sono le descrizioni del cibo di fortuna e di come procurarselo, su tutti il pane distribuito a "misura" con gli scambi ossessivi tra i deportati o le piante che crescono lungo le strade e l'angelo della fame che veglia in ogni momento sul protagonista e dei suoi compagni di lavoro e la morte che si affaccia sui volti con la sua peluria bianca. E' difficile dire se sia un bel romanzo, è talmente coinvolgente anche se in alcune parti sembra non andare in nessun luogo che alla fine si cerca di perdonare la Muller per l'omissione del secondo autore. Bellissima l'immagine delle 273 patate.