Ironweed
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Premio PUlitzer 1984, National Book 1983
Questo romanzo rappresenta la favola di Cenerentola per gli aspiranti scrittori. Respinto da tutti gli editori, viene pubblicato grazie alla discesa dal cielo della fata madrina (niente di meno che Saul Bellow) che trasforma le sue pagine da carta straccia in dollari. Infatti il romanzo vince tutti i premi dal Pulitzer al National Book e come se non bastasse dal libro esce un film di successo con J. Nicholson e Meryl Streep (che io però non ho visto).
Detto questo mi piacerebbe anche scrivere che il libro è meraviglioso. Però, la verità è che non mi ha convinto del tutto. A distanza di tempo sembra un po’ datato e troppo letterario. Se un romanzo è un capolavoro secondo me non dovrebbe risentire troppo del tempo perché continua a parlare al lettore. Questo romanzo invece è “anziano”, pieno di buoni sentimenti, buoni propositi, buonista nonostante i drammi e le vicende. Intendo dire che anche se la vita è dura l’uomo è e resta umano, ma in modo poco vero. C’è qualche nota artificiosa tra le pagine.
Il romanzo è ambientato nel mondo dei senza tetto, molti dei quali sono finiti in strada per drammi famigliari come anche il protagonista Francis Phelan. Mentre accudiva il figlio di tre mesi, il bimbo gli cade dalle mani (lo teneva per il pannolone) e muore. Una specie di scherzo del destino visto che lui è anche un campione di baseball.
La storia poi ricorda anche il libro di E. Lee Master L’antologia di Spoon River. In diversi punti del romanzo Francis parla con i morti come se li vedesse e in qualche modo si riconcilia con loro.
Il romanzo è fatto in prevalenza di dialoghi molto letterari per cui il testo assomiglia fin troppo a una sceneggiatura. Sembra leggendolo che l’autore già sognasse di farci un film. Il fatto che questi dialoghi come pure i personaggi siano così costruiti, almeno questa è la mia impressione, non mi ha fatto amare alla follia il romanzo che comunque è bello e merita di essere letto ma non è proprio tra i libri indimenticabili.