Io sono vivo, voi siete morti
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Recensione della Redazione QLibri
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Ho visto cose...
Visionario.
Qualsiasi opinione si abbia di Philip K. Dick, non si può negare che sia questo l'aggettivo che lo definisce meglio (e che nella letteratura, anche di genere, sembra attagliarsi a lui più che a chiunque altro).
In questa biografia, Emmanuel Carrère racconta il “dietro le quinte” di questa visionarietà, a partire dalla sfera familiare nella quale il giovane Philip cresce: una gemella, Jane, che muore pochi giorni dopo la nascita per ignoranza della madre (che non aggiunge allo scarso latte materno alcun altro nutrimento per i due neonati); una famiglia ben presto smembrata, con il padre che accetta il divorzio e sparisce dalla vita del figlio.
Accadimenti di vita, questi, che contribuiscono a definire una personalità forte ma in disequilibrio. A risentirne saranno soprattutto le capacità affettive di Dick: nel rapporto con le donne, pare afflitto da una specie di sindrome del “buon samaritano” nella quale cambierà di continuo il proprio ruolo (a volte sarà il compassionevole tutore della compagna di turno, altre volte colui che ha estremo bisogno di cure). Fino a quando alcuni episodi accaduti nella primavera del 1974 lo proietteranno in una fase a suo modo “mistica”, che lo accompagnerà, tra alti e bassi, sino alla morte (avvenuta nel marzo 1982).
Alla fine della lettura, l'impressione è che la vita reale di Dick sia molto più ordinaria di quella virtuale, di quella, cioè, costruita dalla sua mente. Cosicché, la parte più interessante della biografia pare essere quella che svela l'ispirazione delle sue opere:
- chiunque ha letto “La svastica sul sole” – la distopia postbellica nella quale è l'Asse (Germania, Giappone) ad aver vinto la seconda guerra mondiale e non il contrario – sa, ad esempio, che uno dei protagonisti del romanzo è l'I Ching, testo di riferimento per conoscere l'insegnamento taoista: sessantaquattro esagrammi indicano, a chi consulta il libro, la via da percorrere. Ciò che forse non sa è che lo stesso Dick era davvero convinto del “potere” dell'I Ching, tanto da utilizzarlo in alcuni snodi della trama per decidere come proseguire. Si spiega così che questo libro – il primo grande successo di Philip K. Dick, vincitore del premio Hugo per la fantascienza – non sembra seguire una vera e propria trama, ma si fa apprezzare soprattutto per la particolare atmosfera;
- analogamente, “Ma gli androidi sognano pecore elettriche?” (il libro che ha ispirato il celeberrimo film “Blade Runner”) trova origine nella riflessione del matematico Alan Turing, che nel 1950 si interrogherà sul futuro dell'intelligenza artificiale e sull'elemento discriminante di questa intelligenza da quella umana. Turing introdurrà l'idea di un test che Dick svilupperà meravigliosamente nel libro, facendo risaltare negli androidi la mancanza di empatia e raggiungendo un effetto che va oltre ogni incasellamento nella letteratura “di genere”, come Carrère sottolinea:
“E' strano trovare nelle pagine di uno scrittore di fantascienza, peraltro dallo stile piuttosto sciatto, brani memorabili, che non solo fanno venire i brividi, ma che ci danno anche la sensazione di aver intuito qualcosa di essenziale, di basilare. Di aver intravisto un abisso che è parte integrante del nostro essere e che nessuno aveva mai sondato prima. Uno di questi brani è contenuto in 'Ma gli androidi sognano pecore elettriche?' ed è quello in cui viene descritto il grido d'orrore di chi scopre di essere un androide. Un orrore assoluto, irrimediabile e inconsolabile, a partire dal quale ogni cosa diventa spaventosamente possibile.”
Una biografia non eccelsa, dunque, ma piena di spunti interessanti: scritta nel 1993, si affianca ad altre biografie di Philip Dick scritte nello stesso periodo – anche sull'onda del successo che i suoi libri pian piano ottenevano – e che forse varrà la pena consultare, per trovarvi conferma o smentita di quanto dice Carrère. Molte parti del saggio, infatti, riportano intime riflessioni di Dick. Da dove può averle ricavate il biografo? Se si pensa che egli stesso, nella nota di chiusura, ammette che tra le fonti del saggio c'è anche la propria immaginazione, la tentazione di prendere il tutto con le pinze è giustificata. Fermo restando che la mente di Philip K. Dick sembra materiale assolutamente “scivoloso” per qualunque biografo.
Un'ultima curiosità: la frase che dà il titolo alla biografia proviene da un altro capolavoro dello scrittore, “Ubik”, nelle cui pagine si assiste ad una magistrale “inversione” tra mondo dei vivi e mondo dei morti. Forse il suo libro migliore, al quale – ad un certo punto della sua crisi mistico-esistenziale – Dick si affiderà come fosse una novella Bibbia, come se in esso vi sia il senso di tutta la sua particolare esistenza.