Indignazione
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Quando la storia influisce sulla tua vita
Siamo in America, è il 1951 e la guerra di Corea non sembra finire mai. Ormai siamo al secondo anno e per molti ragazzi lo studio e quindi il college non è solo una volontà ma anche una scelta quasi obbligata per potersi sottrarre a questa guerra che sembra non stancarsi mai di porre fine ai giovani.
Marcus Messner è ebreo, la sua famiglia ha una macelleria kosher, ovvero una macelleria che rispetta tutte le regole ebraiche su come si deve trattare la carne. Al banco c'è il padre e Marcus oltre ad essere un eccellente studente non si è mai tirato indietro per aiutare in negozio.
Ma proprio il padre con tutte le sue paure ed apprensioni provoca nel ragazzo un atto di ribellione che lo porterà a decidere di continuare gli studi al Winesburg College, un college decisamente distante dalla famiglia e soprattutto dal padre.
Qui il ragazzo si troverà ad affrontare un sacco di battaglie, alcune dettate dalla sua inesperienza ma altre causate anche dal suo carattere. Tutto quello che può sembrare un normale susseguirsi degli eventi diventa invece una chiara battaglia interiore e non solo.
Philiph Roth crea un romanzo di formazione che va ad innescare nella mente del lettore tanti pensieri. Lui non ci mostra la guerra di Corea ma ne presenta i risultati in patria. Il suo romanzo è un atto di ribellione “camuffato” ma ben percepibile.
E soprattutto Roth ci lascia questo messaggio:
“il terribile, incomprensibile modo in cui le scelte più accidentali, più banali, addirittura più comiche, producono gli esiti più sproporzionati”.
Bello, riflessivo e non banale.
Buona lettura!
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Fuga senza ritorno
Quando Marcus Messner, giovane iscritto al college della sua città natale, decide di cambiare istituto e trasferirsi a chilometri di distanza da casa dei suoi, dove ha vissuto sino ad allora, è perché la sua sopportazione nei confronti della morbosa apprensione del padre ha raggiunto il limite.
Da allora qualcosa cambierà irreversibilmente nella sua vita.
E’ il 1951, la guerra tra le due Coree sta seminando morte e distruzione e l’unico modo per migliaia di giovani statunitensi per sottrarsi alla chiamata al fronte è quella di studiare con profitto.
Nel nuovo college di Winesburg le intenzioni di Marcus sono né più né meno che quelle, in linea con la sua condotta di ragazzo diligente che sin da piccolo era stato educato al lavoro nella macelleria kosher di famiglia dove erano nati e poi proliferati i continui scontri con quel padre le cui vedute conservatrici iniziavano a porre vincoli troppo ottusi alla crescita del protagonista.
Eppure la permanenza e i buoni propositi non si rivelano così fluidi e scontati; ben presto Marcus si troverà a fronteggiare piccoli problemi di vita quotidiana che, se da un lato lo distoglieranno dal dovere, dall’altro faranno maturare in lui quel rifiuto nei confronti di una politica bigotta e pseudo-clericale professata nel college e che rappresenteranno di lì in poi la sua “indignazione”.
La prima uscita con Olivia, ragazza incontrata nel college, finisce per scardinare definitivamente la ormai precarie certezze che il giovane si era costruito e che si basavano sulla cultura castigata e conservatrice del papà macellaio di origini ebree, della famiglia felice a tutti i costi dove le tensioni era meglio reprimerle in nome di una facciata da conservare al cospetto degli altri.
Olivia è il suo contrario, figlia di divorziati, disinibita, con problemi comportamentali, un esempio di quello che c’è fuori dal “guscio” dei Messner o che più propriamente è contenuto in potenza nei Messner ma trattenuto da uno scudo inconscio che li protegge e li fa sopravvivere, ma che ora è finalmente pronto ad esplodere in un pianto liberatorio.
Romanzo atipico quello di Roth, il mio primo, dietro ai cui eventi si nascondono sottili parafrasi di vita e il cui messaggio, sapientemente rinchiuso nell’originale epilogo, è un insegnamento che spaventa.
Tanto è stato attento e premuroso lo studente modello a perseguire il suo percorso che lo avrebbe tenuto lontano dalla guerra, tanto più una banalità, che qui non riporto, lo ha dato in pasto a quella guerra che se lo è portato via.
Marcus è l’agnello sacrificale di una cultura, quella conservatrice Americana di quegli anni (ma non molto dissimile alla odierna, a tratti un po’ bigotta), che poco lasciava alla libertà di pensiero personale e Marcus avrà a disposizione solo quegli istanti prima di morire per riflettere sui suoi errori.
Come una beffa, solo in quegli istanti, sotto morfina, finirà per imparare l’unico insegnamento che quell’odiato padre vicino alla follia gli aveva propinato nel corso della sua breve vita: stare attento a quel “terribile, incomprensibile modo in cui le scelte più accidentali, più banali, addirittura più comiche, producono gli esiti più sproporzionati”.
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Sono indignato!
E' il primo libro di Roth che leggo, spinto e incuriosito dalle numerose recensioni che lo acclamano, lo consigliano e lo indicano come lettura che fa crescere. Personalmente l'ho trovato molto noioso e anonimo, autoreferenziale e senza alcuna tensione narrativa. L'ho portato a termine solo per l'esiguo numero di pagine, che di per sé non hanno rappresentato una minaccia, merito anche di uno stile asciutto e veloce.
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Quel qualcosa in più
"Indignazione", è difficile pensare ad un titolo più azzeccato ed è difficile pensare ad un termine più appropriato per descrivere, riassumere e spiegare (o spiegarci) quanto detto da Philip Roth in questo romanzo. E’ infatti quest’ultimo un inno all’indignazione. Ogni singola pagina è permeata da un sentimento di ribellione subliminale, di leggeri sospiri di sconforto che durante il viaggio di pochi mesi del protagonista si trasformano, in un calmo (ma pur sempre ricco di dramma) crescendo, in urla di rabbia contro l’illogicità di tutto quanto lo circonda.
Già, infatti, se non lo si fosse ancora capito in questo libro si parla di “indignazione.”
Ma contro chi? Contro cosa?
Difficile (eppure indispensabile) rispondere, poiche al pari dell’evoluzione geografica e cerebrale del protagonista anche il sentimento fondamentale del libro si evolve e migra posandosi su ogni aspetto della vita del vent’enne di cui Roth ci racconta la sorte.
Inizialmente ciò che lui prova è l’indignazione più classica e banale, quella contro il padre, il genitore oppressivo. Quella del giovane ormai adulto che comprende di doversi confrontare e scontrare con dei valori che non fa più suoi, che non riconosce più come tali. Senza un compromesso, come spesso accade, questo scontro porta ad una separazione. Ma la separazione dal guscio familiare invece di alleviare la pressione genera nel giovane uomo una nuova e sconfinata serie di soggetti e oggetti contro cui scagliare la propria rabbia. Quali sono questi soggetti? Semplice, la vita e ogni singolo, stupido, importante, facile, complesso problema/rapporto che quest’ultima comporta: il ragazzo va al college, abbandona la casa e se prima l’unica fonte di contrasto era quella genitoriale ora si trova al cospetto di centinaia di fonti, migliaia. Una per ogni singolo nuovo impulso che riceve dalla sua nuova esistenza. Prima i compagni di college, così diversi e così scoccianti, poi i clienti del primo lavoro così irriverenti e disturbanti, poi la prima ragazza così disinibita e pazza (e qui la narrazione pur mantenendosi di alto livello è pervasa di un’ironia che non si può esattamente definire “fine”, ma ciò non di meno azzeccatissima) ed infine i capi, i superiori, coloro che gli impongono una determinata condotta, un determinato modo di essere. Ma al ragazzo, ormai collegiale, questo non è sufficiente: contro tutti, specialmente contro chi è più forte di lui, non si può scagliare, non può combattere e sperare di vincere e allora fa l’unica cosa sensata: rivolge la sua attenzione alla causa scatenante, concentra la luce del suo riflettere sul motivo percui tutto ciò che ai suoi occhi c’è di più assurdo gli viene imposto senza un minimo di logica. E cos’è quel motivo, quella causa che determina la condotta dei suoi compagni, della sua simil-fidanzata, dei suoi professori? Il Sistema, con la S maiuscola, inteso come insieme delle norme, delle regole, delle consuetudini e della tradizione di quel college. E cosa c’è di più illogico della tradizione agli occhi di un giovane con il sangue del rivoluzionario e gli attributi di un bue? (Si noti che la citazione di un animale, ahi lui, castrato non è casuale).
Ecco dunque finalmente un oggetto inanimato, un entità non troppo concreta, contro cui scagliare la propria ira sicuri che tanto questo, per sua natura, non può rispondere per le rime. Ma il ragazzo, che in questa fase sembra più giovane di quando lascia il nido familiare carico di aspettative, fa male i suoi calcoli, poiché il sistema college, e per estensione il sistema sociale dell’America fine anni 50, sono sì un’entità astratta con connotazioni non perfettamente definite e delineate, ma sono anche termini inclusivi, che descrivono e racchiudono in un unico insieme delle persone reali che condividono e sposano le stesse idee e i medesimi valori. Il “sistema college” infatti è costituito dall’insieme degli individui che popolano il college, il sistema sociale invece è costituito niente meno che da la gran parte della popolazione americana; scontrarsi contro quei sistemi equivale scontrarsi contro i costumi, le credenze e i valori del tempo, scontrarsi contro tutte quelle cose equivale a scontrarsi contro un' intera società. E quando il rapporto di forze è cosí impari non si può vincere, al contrario invevce, se la disputa eccede il piano puramente intellettuale e il ragazzo fa il passo più lungo della gamba, non solo rischia di andare incontro a delle ripercussioni sia morali che fisiche ma rischia anche di essere respinto, marchiato come anormale e ripudiato da quella società che odia ma a cui in fondo persino lui appartiene.
Così pare accadere.
Finalmente si penserà dunque che il ragazzo abbia raggiunto il suo obiettivo: estraniarsi totalmente da quell’assurdo ambiente di pregiudizi, preconcetti e valori superficiali che costituiscono il suo mondo, ed elevarsi, finalmente libero, ponendosi come alternativa a tutto ciò che c’è di illogico, tradizionale e ignorante… Eppure non è così. Si scopre, lui scopre, che infondo, forse quel bisogno di combattere, di ribellarsi al sistema, nasce dal bisogno di essere accettato, di essere parte proprio di quel sistema che lui odia tanto.
Forse è così e forse no, è naturale che non sia sicuro, che abbia dei ripensamenti, è sempre difficile auto analizzarsi, specialmente a vent’anni, ma è del resto anche naturale che proprio per questi ripensamenti, proprio nel momento in cui è libero, ma solo e abbandonato, appena il sistema, la società, la tradizione del college, comunque la si voglia chiamare, gli ridà una possibilità permettendogli di rientrare nel caldo e sicuro insieme dei “normali”, appena l’illogica vita comune gli tende nuovamente la mano, lui, assetato di affetti e di contrasti, di superficiali piaceri e illogici sconforti, vi si aggrappi ardentemente.
E il presunto ribelle che finalmente aveva trovato il coraggio alla prima possibilità ritorna sui suoi passi facendosi fagocitare da tutto ciò contro cui aveva combattuto.
Be ognuno trova la sua strada, se a lui va bene così… Dunque finalmente felice? Destinato ad un normale, canonico, roseo, ancorché limitato, futuro?
Così parrebbe, ma la giustizia poetica è in agguato dietro l’angolo, ed è una giustizia quanto mai vendicativa.
E’ vero ora il ribelle è tornato in società, il pazzo ora è sano, ma qualche germe di indignazione l’ha pur sempre con sé. Senza giri di parole: sarà anche come gli altri ora, ma certe regole non le ha mai sopportate, ne mai le sopporterà. Fortuna che ora è parte del sistema sociale, della normalità e questa normalità è molto vasta; nella normalità sono contemplate moltissime casistiche, perfino estreme, perfino controproducenti, eppur tuttavia ancora normali, come per esempio quell’antico adagio che vuole che una volta trovata la legge sia “gabbato lo santo”. Ma il sistema è meschino e la società con i suoi pregiudizi è anche peggiore, con una mano da e con l’altra toglie il doppio: il giovane rientra al college, si affligge quotidianamente con tutte le regole e norme che vuole la tradizione, ma una cosa non l’ha mai potuta soffrire: la funzione domenicale in chiesa. Neppure tanto quella di per se stessa, ma la costrizione di parteciparvi. Fortunatamente il sottoinsieme studenti del sistema società col suo ampio spettro di casistiche “normali” prevede molteplici scappatoie. Cosa c’è di più naturale dunque per il ragazzo, ora semplice studente come gli altri, se non aderire alla normalità? Cosa c’è di più ingenuo e innocuo se non approfittare di una di quelle previste scappatoie? Nulla! Ma com’è detto è troppo ingenuo, innocuo e la giustizia morale, l’atroce arma delle maggioranze è pronta a colpire.
Il ragazzo si fa sostituire alla funzione in chiesa, viene beccato.
Il protagonista, ormai non più ragazzo, forse neppure uomo, ma solo essere atemporale, ha perso tutto, ora è completamente estromesso da ogni aspetto della vita comune, lui si è fidato in fine ed infine è stato ingannato. Ora è uno sconfitto perenne, non ha più nulla. Ed ecco, come una malattia latente che quando sembra sconfitta riappare più vigorosa di prima, ecco l’indignazione, la causa di tutto, ricomparire in tutta la sua deprecabile gloria. E il giovane si ritova traboccante odio ma senza un obbiettivo, un soggetto su cui riversarlo.
Anche qui il passo successivo è quanto mai ovvio: senza più nessuno, non può far altro che scagliare l'ira contro l’unica cosa che gli rimane: se stesso, o meglio il concetto di se stesso, l’idea che in quei pochi anni di vita s’è fatto del suo modo d’essere. E dunque ora, solo come un cane, riprende quel lamentoso adagio appena sospirato che lo accompagna lungo tutte le pagine del libro che può essere riassunto con il seguente ennesimo interrogativo: è più giusto indignarsi contro l’illogicità del mondo o è meglio indignarsi contro noi stessi che non possiamo fare a meno di notarla? (Anche qui il cambio di soggetto non è casuale, poiché è vero che il libro parla di un ragazzo, di un qualcun altro, ma le domande che il ragazzo si pone sono le stesse che l’autore ci pone.) E’ lecito dunque essere indignati (e chiunque, per lo meno una volta, per lo meno per una singola cosa lo è stato) o sarebbe più lecito tentare di guardare dentro noi stessi poiché questo sentimento come gli altri nasce esclusivamente da noi? E’ più giusto lamentarsi di qualcosa o cercare di migliorare noi stessi per migliorare poi il resto? Ed infine è più coraggioso urlare, ribellarsi, e gridare la propria rabbia o sopportare per una vita in silenzio tentando di adeguarsi continuamente e costantemente a qualcosa che sappiano essere ingiusto? Cos' è più difficile, cos'è più facile, cos'è più doloroso?
Il protagonista non ha alcuna risposta per noi, lui è solo un mezzo per farci pensare, è l’agnello sacrificale del mondo ideato da Roth, per nulla distante dal reale, lo strumento per farci riflettere sulla nostra natura, su quello che con il nostro intelletto abbiamo creato, su quello a cui ormai siamo abituati a definire consuetudine, fosse anche l’aberrazione di un uomo che costringe un altro, che ha diritto di vita e di morte su un altro, l’aberrazione di una parola inventata che stabilisce cosa è giusto e cosa non lo è, di un sentimento che detta la sorte di una persona predestinandola e in fondo fosse anche l'ironia di quell’assurdo gioco che è l’alternarsi della vita e la morte; cose così comuni e banali da non farci più caso ormai, così semplici da essere scontate, eppure così costrittive da non riuscire a contemplarne l'alternativa. Potere - debolezza, comando - esecuzione, volere - dovere, noi - gli altri, vita - morte, accettare - ribellarsi, cos' è più difficile, cos' è più facile, cos' è più doloroso?
Roth con questo suo romanzo sembra dirci: “signori questa è la vita, non c’è altra possibilità, se vi piace è così altrimenti siete liberi di andarvi ad ammazzare. Badate bene però che poi non vi rimarrà nulla se non la vostra indignazione, l’indignazione per voi stessi, per quanto siete stati stupidi e alla fine addirittura l’indignazione di essere indignati.”
Questo è il significato dell'opera, l'interpretazione dei suoi molteplici eppure unitari contenuti. Più che dei contenuti però mi preme parlare del modo di scrivere. (Per quanto mi renda conto di quanto possa essere assurda questa mia affermazione dopo che ho impiegato più di cento righe per esprimere i concetti a cui rimanda il romanzo!) Per pietà nei confronti di quei pochi, nonchè masochisti, lettori che si sono spinti fin qui tenterò comunque di essere conciso.
Leggendo i libri di Philip Roth, e soprattutto questo, ciò che mi sorprende ogni volta non sono tanto i contenuti, i pensieri, le discussioni interiori che nascono dalle sue parole, ma le parole stesse, o meglio, la scelta di queste, dal titolo all’ultimo termine dell’ultima pagina infatti non c’è mai nulla di più appropriato per descrivere, narrare, spiegare, raccontare quanto riportato nel libro. E’ realmente difficile pensare a uno stile narrativo migliore; i paragoni con altri scrittori a lui antecedenti si sprecano, l’avevo già accostato per un'altra sua opera ad Hemingway, altre volte a Steinbeck, ma in questo caso, a costo di peccare di sensazionalismo (o quant’altro vi paia) affermo che, ebbene sì, qui li supera! Da quei due grandi trae il realismo concreto e oggettivista con cui racconta la vita (per quanto l’autore stesso abbia affermato di essere stato influenzato da altri scrittori, come per esempio Saul Bellow), ma al contempo rielabora tutto aggiungendoci qualcosa di suo, qualcosa di indefinito che per certi aspetti può essere considerato il cosiddetto “messaggio”, la morale per intenderci, ma poi a ben rifletterci si capisce come anche questa definizione sia del tutto imprecisa ed inascrivibile a questo e agli altri suoi romanzi dal momento che, egli stesso, pone molte più domande di quante risposte trovi, dal momento che spesso alla fine lascia il lettore con un senso di compiutezza nell’incompiutezza, come a dire “sì la vicenda umana e la narrazione sono terminate, ora sta a voi stabilire cosa sia giusto e cosa no, cosa fare proprio di quello che vi ho raccontato e cosa no.” Ma se questo effetto non è dato semplicemente dal significato dell'opera non è neppure dato dalla trama o dai contenuti, in sé e di per loro piuttosto canonici, per non dire banali, e neppure dalla sublime accuratezza nel periodare. Tutto è appropriato, d'accordo, dai termini, al ritmo, alla lunghezza delle frasi, ma non è sufficiente, non basta: non sono tanto i singoli aspetti a rendere questo e molti altri suoi libri, particolari, piuttosto la somma di questi più qualcos'altro ancora, qualcosa di impalpabile, indefinibile.
Data questa sussurrata eppur concreta inspiegabilità fenomenologica non mi resta che affidarmi alle sensazioni e tentare di fare oggettivo ciò che in realtà probabilmente è niente più che una esperienza soggettiva. Ebbene: quando si leggono i libri di Phili Roth, a differenza di molti altri autori a lui assimilabili per fama, bravura o anche solo numero di copie vendute, non si ha mai l’impressione di buttar via il tempo.
Un po’ poco penserete, eppure no.
Riflettiamoci, quante persone quando leggono prendono la lettura sul serio, intendo come parte della loro esistenza, come strumento per la propria evoluzione personale, come metodo di catarsi sociale volto alla comprensione del reale? E quanti invece usano i libri semplicemente per rilassarsi dopo una giornata di lavoro, per staccare la mente alla sera o per ben disporsi l’animo alle fatiche della giornata, magari il mattino assolvendo alle proprie funzioni corporali?
Io il più delle volte sono colpevole di far parte del secondo gruppo, perfino leggendo dei mostri della letteratura come Hesse o Dostoevskij mi adeguo sempre al costume sociale dei secondi, ma malgrado sia innegabile che si riscontrino maggior spunti nei due sopracitati grandi che in un Ken Follett qualunque (non me ne voglia l’autore e tanto meno i suoi seguaci), persino la lettura di “quei due” la inserisco in quella fascia, in quel secondo ambito puramente intrattenitivo, che spesso si accorda alle quotidiane funzioni fisiologiche degli esseri umani a mo di passa tempo. (Forse è proprio questa la bellezza e l’assurdità della vita: i pensieri più profondi, le riflessioni più importanti avvengono spesso nei momenti più bassi che la natura umana ci ha riservato.)
Con Philip Roth invece no, leggendo i suoi libri, si ha la sensazione costante di fare qualcosa di importante, di non perdere tempo, di dedicarsi costruttivamente ad un’attività propedeutica alla propria crescita individuale. Sì, i libri di Roth trascendono il semplice intrattenimento e si rivolgono direttamente alla nostra coscienza e al nostro intelletto. Ed è questo il motivo che eleva l'autore sopra i suoi simili e lo fa diventare così quotidianamente importante. Tenterò di essere ancora meno comprensibile: nessuno come lui riesce a trarre dal proprio io i pensieri e a oggettivarli presentandoceli sulla carta stampata in modo che noi li si riesca ad interiorizzare, oggettivandoli, proprio mentre stiamo esteriorizzando e per questo rendere l’esperienza personale dell’esteriorizzazione qualcosa di concreto, oggettivo, e soprattutto importante. ...Chiaro, no?
Forse questa mia ultima valutazione potrà sembrare un tantino stramba, eccessiva e fuori luogo, però è concreta e pur traendo dal soggettivo diventa a suo modo oggettiva tanto quanto lo è l’esperienza comune di ogni persona definibile “regolare” tanto d’intelletto quanto di corpo.
Ma a costo di rasentare la scurrilitá, per amore di quella stessa limpida chiarezza, e di quell'intransigente devozione alla causa che non ammette scappatoie, attenuanti, ne tantomeno mezze misure, di cui Philip Roth si fa portavoce, nonchè maestro nei suoi romanzi, voglio essere ancora più specifico e rimarcare ancora di più quella singolare ed imprescindibile peculiarità del suo scrivere che lo rendono unico di fronte a qualunque altro autore del suo tempo: Philip Roth è l’unico scrittore che riesce a rendere importante perfino la cag… mattutina!
Sono propenso a credere che nell'infinito elenco di aggettivi e frasi utilizzate per lodare le capacità di Roth nessuno (direi anche giustamente) ne abbia mai parlato in questi termini. I suddetti termini potrebbero, e a ragione, infatti apparire eccessivi, fuori luogo, ma se la smania di nuovi elogi da rivolgere a uno scrittore è tale da riuscire a stressare una frase fino ad elevarne lo squallore a complimento, be... non occorre davvero aggiungere altro: si è difronte al migliore.
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"La parola più bella del vocabolario."
Se uniste monologhi di un’arguzia unica, con semi flussi di coscienza di un elegante cinismo e con precise digressioni storiche condite di pungenti commenti, otterrete, senz’altro, questo avvincente ed ottimo lavoro del buon vecchio Philip. La storia è, anche questa volta, ambientata a Newark, ai tempi della guerra di Corea, degli anni ’50, ma il personaggio protagonista è Marcus Messner, un giovane studente americano ebreo, alle prese con se stesso e con i difficilissimi caratteri della madre e del padre; è proprio in seguito ad un piccolo litigio con quest’ultimo, Marcus decide di fuggire e trasferirsi in un college dell’Ohio, dove avrà luogo la sua catabasi. Tra depravati compagni di campus, tra sconvolgenti incontri, come quello con Olivia e noiosi obblighi ai quali adempiere, il lettore, soggiogato da una serie di strabuzzanti sorprese narrative, sarà stravolto almeno quanto il protagonista sarà “indignato”.
Non resta che augurare Buon Roth a tutti!
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Il giovane Holden si è fatto uomo?
Siamo nel 1951, c'è la guerra di Corea, e nello stesso anno, aggiungo io, viene pubblicato un romanzo che ha fatto storia: "Il giovane Holden". Quale nesso tra le due cose?
Marcus Messner, figlio di una modesta famiglia di macellai ebrei, decide di proseguire l'università fuori-sede, abbandonando la famiglia e trasferendosi nell'apparentemente patinata realtà del college Winesburg. L'eccessiva apprensione del padre e il suo maniacale bisogno di preservare Marcus dai pericoli della vita vera, fanno sì che il ragazzo scelga di cavarsela da solo, studiando e lavorando in questo nuovo ambiente. La lontananza da casa, inizialmente stimolo positivo per Marcus, diventa la distanza necessaria per valutare la vita per quel che è, per vedere ridimensionate le proprie aspettative, per comprendere come le regole, anche non scritte, ci governino quando siamo liberi da ogni protezione.
Nel nuovo college Marcus si fa alcuni amici (ma molti più nemici), una ragazza (la disinibita Olivia, dall'ambiguo passato e dalla disarmante spontaneità), ma rimane perennemente insoddisfatto: da una parte l'ardente desiderio di uniformarsi, di amalgamarsi nel favoloso e affascinante microcosmo che è il college Winesburg, dall'altra il bisogno incessante di emergere, di esprimere con chiarezza e a voce piena le sue idee e le sue convinzioni, quasi si sentisse un profeta investito dall’onere di diffondere la Verità. A proposito di questo, degni di nota sono tutti i dialoghi con il Decano del college: meravigliosi esempi di retorica (intesa nell'accezione più positiva del termine), sicuramente la parte più illuminante ed emozionante dell'intero romanzo.
Marcus diviso, scisso interiormente, Marcus e le sue paranoie mentali, Marcus e la sua impulsività tipica dei giovani non hanno potuto evitare di condurre il mio pensiero ad un grande protagonista della letteratura del Novecento, Holden Caulfield, il ragazzo ribelle che ha entusiasmato lettori di tante generazioni. Secondo la mia visione di Indignazione, è come se il giovane Holden fosse cresciuto e fosse davanti a noi nelle vesti di Marcus Messner: molti i tratti che hanno in comune, molte le differenze (quello di Marcus è sicuramente un personaggio più evoluto e "risolto", rispetto al problematico Holden e per questo più maturo e definito). Che sia una casualità che l'anno di ambientazione dell'opera in questione sia coincidente con l'anno di pubblicazione de Il giovane Holden?! sinceramente non lo so, ma mi piace pensare ad una sorta di "omaggio" da parte di Roth.
Ma questi sono pensieri miei...e ne avrei molti altri! la brevità di questo romanzo è inversamente proporzionale agli orizzonti di riflessione che riesce ad aprire: personalmente penso che, quando un romanzo sia capace di farci pensare ad esso a distanza di tempo e stimoli costantemente la riflessione e il paragone tra il nostro vissuto e le pagine dello stesso, allora abbia raggiunto il gradino più alto cui possa ambire.
L'aspetto che mi ha meravigliosamente colpita di Indignazione, al di là dei contenuti, è stato lo stile di Roth: non è assolutamente un romanzo semplice (chi l'ha definito così, ahimè, sbaglia di grosso!), non ci si deve lasciar ingannare dalla brevità; anzitutto è diviso in soli due capitoli (di cui il primo occupa il 95% delle pagine), aspetto non determinante, ma che può rendere più difficoltosa la lettura; ha un linguaggio chiaro ma con continui rimandi storici, filosofici, anche tecnici (dopo averlo letto saprete distinguere i vari tagli di pollo!): insomma, ogni singola riga deve essere letta e interpretata, magari anche riletta. E' un romanzo da pensare più che da leggere e proprio qui sta la sua grandezza.
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(se posso suggerire una specifica, l'ideale sarebbe leggere Holden verso la fine del liceo e Indignazione verso la fine dell'università... li trovo molto "calzanti" in queste fasi di passaggio).
Buon libro
Proprio un bel libro !
La storia è intrigante, non tanto per la trama quanto per la dettagliata descrizione degli stati d'animo e della psicologia dei personaggi: Olivia Hutton mi ha colpito fin da subito per l'evidente contrasto tra il suo aspetto e la sua vita tormentata, Marcus a tratti mi ricorda ... me. Diviso tra il perbenismo insito nella sua persona e nella sua educazione e la voglia di scrollarsi di dosso paure e pregiudizi, a mio parere senza riuscirci.
Infine il discorso del preside dell'isituto ai ragazzi è un discorso che andrebbe letto in tutte le scuole alle nuove generazioni, un discorso nel quale si percepisce e si tocca con mano la pochezza delle bravate di un ragazzo del college rapportate ai problemi del resto del mondo.
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indignazione
In questo romanzo dalla scrittura lineare, ironica, energica, Philip Roth ci invita a riflettere su come le azioni apparentemente più banali possano portare a conseguenze drammatiche, a quanto la società, con le sue leggi non scritte, possa mettere in atto discriminazioni nei confronti di chi dimostra di essere differente dalla moltitudine pervasa di mediocrità.