In caso di disgrazia
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Il fascicolo “Gobillot”
Lucien Gobillot è un avvocato parigino di grande successo. Negli ambienti del Palazzo di giustizia si usa dire che se si è innocenti va bene qualsiasi difensore, ma se si è colpevoli e si vuol essere assolti allora ci si deve rivolgere a Gobillot. La sua vita privata, però, non è altrettanto soddisfacente. È sposato con Viviane, vedova dell’avvocato da cui fece pratica, donna di spiccata intelligenza e abilità, che gli ha consentito di risalire la scala sociale e ritagliarsi una ragguardevole nicchia nella élite parigina. Ma Gobillot vive questa sua condizione come un inevitabile onere imposto dalle convenzioni sociali; accetta con frustrante inquietudine e cupa rassegnazione la routine quotidiana, divisa tra Tribunale, studio e incontri mondani al seguito della moglie.
La sua vita ingessata subisce, però, un inaspettato stravolgimento quando una sera gli si presenta in studio Yvette, una ragazzina sfrontata e affascinante che confessa una tentata rapina e gli offre spudoratamente il suo corpo come onorario. Accettato l’incarico e ottenuta l’assoluzione in modo clamoroso e assai poco deontologico, Gobillot, ormai catturato dal fascino perverso della ragazza, intraprende una relazione con lei in modo sempre più scoperto, mentre la moglie tace e tollera, seppure a fatica, l’umiliante ménage a trois.
Nei primi giorni di un piovoso novembre, Gobillot decide di aprire una pratica a proprio nome come se dovesse istruire un procedimento che lo riguarda. Dopo le prime frasi, impostate quasi come per un testamento, il fascicolo si riempirà di una specie di memoriale nel quale l’avvocato annoterà con scrupolosa attenzione tutto ciò che gli accade, ma soprattutto quelle che lui pensa siano le cagioni del suo agire e del suo progressivo degradarsi nella situazione in cui versa che egli stesso ritiene assurda e ridicola, ma dalla quale non riesce a uscire. Ed è dal memoriale che apprendiamo gli antefatti, i turbamenti, le angosce e gli imprevisti e drammatici sviluppi di tutta la vicenda.
Gli eventi subiranno una tragica, ma forse prevedibile, accelerazione quando un giovane studente infatuato di Yvette comincerà ad avanzare pretese sulla ragazza - ormai ospitata stabilmente in un appartamento di Gobillot a pochi passi dalla residenza coniugale - e si farà minaccioso.
Lo stile che George Simenon usa nei suoi cosiddetti “romanzi duri” (tra i quali rientra a pieno titolo questo “In caso di disgrazia”) è assai diverso dalla prosa agile e scattante del ciclo di gialli con protagonista Maigret.
Queste storie, assai più cupe e opprimenti, procedono con studiata lentezza, accumulando le vicende gradualmente per stratificazione delle une sulle altre. Meticolosamente i fatti vengono introdotti e incastrati tra di loro a creare l’inesorabile meccanismo che, alla fine, intrappolerà i protagonisti portandoli alla perdizione che essi stessi si sono guadagnata se non addirittura ricercata. La psiche umana viene attentamente esaminata e sezionata, in tutte le sue sfaccettature, senza alcuna indulgenza o pudore. Le bassezze e le meschinità dell’animo umano sono portate allo scoperto.
Nella fattispecie Gobillot si confessa completamente al lettore nel suo scritto, con una sincerità che non avrebbe se dovesse narrare a viva voce la propria vicenda. Sulla carta egli ha il coraggio di ammettere la propria sconfitta di fronte a un sentimento che non comprende e controlla, ma che ritiene non abbia nulla a che vedere con l’amore romantico. È questa solo una forma di schiavitù a passioni più primordiali e istintive che, in quanto tali, hanno la meglio sull'individuo razionale e compassato che lui cercherebbe di impersonare? Gobillot ce lo suggerisce senza prendere posizione. Alla fine egli ci appare come un perdente, nonostante il suo successo professionale e sociale. Anche quando cercherà di mostrarsi duro e implacabile, in realtà si limiterà ad arrendersi agli eventi che subirà passivamente più che contribuire a determinarli. Quindi un protagonista tutto in negativo.
Tuttavia anche coloro che gli gravitano attorno non sono esenti da mende, neppure le presunte vittime di torti. Chi per un verso chi per l’altro si mostrano a noi nel loro lato peggiore, più meschino e corrotto. Forse colei che ne esce meglio è proprio Yvette che, nonostante la sua immoralità, le sue bugie, il suo opportunismo risulta l’unico personaggio spontaneo e vero, che combatte lo spettro della povertà e dell’abbandono che la terrorizza con le uniche armi che conosce: la seduzione del suo corpo e l’assoluta assenza di inibizioni.
Simenon era uso dire che il suo stile scaturiva dalla vicenda che raccontava e ad essa si adattava. In questo romanzo si percepisce quasi tangibilmente l’oppressione determinata dalla vicenda narrata. Se da un lato ciò è un mirabile pregio che va riconosciuto all’A. dall'altro è inevitabile che la prosa divenga difficile da leggere, faticosa, a tratti quasi tediosa. Si procede solo per brevi brani, si arranca per giungere alla fine; sospirata anche se, da subito, si presagisce che sarà tragica. Questa ci lascia un sapore amaro in bocca, in parte per essere oltremodo realistica e “scontata”, in parte per il tono di gelida notifica con il quale ci viene comunicata.
Da quanto sopra detto la piacevolezza della lettura ne viene inevitabilmente sminuita senza per questo che il valore dell’opera ne tragga alcun nocumento.
Tra l’altro debbo confessare che la storia, così ben raccontata e congegnata, mi ha stimolato il desiderio di vedere (rivedere?) il film che ne fu ricavato nel 1958 ed ebbe come fantastici interpreti Jean Gabin e Brigitte Bardot, per poter dare un volto alla tragedia di Lucien e Yvette.
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Canaglia!
Scritto a Cannes nel 1955 , pubblicato l’anno successivo e nel 1958 portato sullo schermo, in Italia anche censurato. È un romanzo atipico rispetto agli schemi abituali di Simenon, si tratta in sostanza di una sorta di diario privato che l’avvocato Gobillot, uno dei più celebri di Parigi, tiene dai primi di novembre al giorno di Santo Stefano. Lo scrive appunto in caso di disgrazia come se stesse istruendo, stavolta, la sua pratica personale e la scrittura è improntata allo stile caratteristico di tale linguaggio. In sostanza, ripercorrendo la sua vita e la brillante scalata sociale, priva di etica ed alimentata da un certo arrivismo, ci parla dello sconvolgimento che la sua stessa esistenza subisce in seguito all’incontro fortuito con la giovane Yvette. È un susseguirsi di udienze, impegni di lavoro, cene di rappresentanza organizzate dalla moglie e nei ritagli di tempo gli indispensabili incontri con la ragazza che presto si trova a difendersi dalla presenza invadente del suo ex. In realtà questo aspetto è volutamente enigmatico e su di esso, le vere intenzioni di Yvette, probabilmente si gioca l’interesse dell’intero scritto. La parte che avrebbe dovuto restituirci l’intima essenza del caro avvocato mi è parsa, purtroppo, mal gestita o forse disturbante per lo stesso ritratto che ne vien fuori. È comunque un personaggio negativo che non si imprime come altri personaggi del belga probabilmente perché, nonostante l’epilogo, cade in piedi mantenendo il suo ruolo di canaglia che difende le canaglie. A suo modo è comunque anch’egli un vinto ma, come dire, ne vien fuori imbattuto. Canaglia!
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- sì
- no
Yvette
La trama non è delle più originali e in certi passaggi la si tira un po' per le lunghe, il che non fa di questo romanzo uno dei migliori di Simenon; non mancano però passaggi degni di nota, soprattutto nelle pagine finali.
Fulcro della narrazione è l'autoanalisi, e il coraggio di essere sinceri con se stessi attenendosi rigorosamente ai fatti.
Lo sa bene il protagonista, avvocato di successo e senza scrupoli che redige una sorta di diario/dossier passando al setaccio la sua passione per Yvette, giovane non bella, corrotta nel corpo e nello spirito, e magnetica, per qualche ragione.
La ragione, all'inizio, ha a che fare con una sorta di sfida: perché non concedersi lo sfizio di rotolarsi un po' nel fango, dopo aver raggiunto l'apice della carriera?
Ma le cose col passare dei mesi mutano e un'ulteriore spiegazione sembrano fornirla queste righe:
“Per me Yvette, come la maggior parte delle ragazze che non significano niente, personifica la femmina, con la sua debolezza, la sua codardia, e anche quell'istinto di aggrapparsi al maschio e fare di sé la sua schiava”.
Lui, che non ha mai amato la moglie, donna forte e volitiva che lo ha aiutato nella scalata sociale, ancor meno parla d'amore per Yvette: semplicemente, senza di lei gli risulta impossibile continuare a vivere.
E' interessante osservare la sua graduale perdita di controllo, lo spettacolo patetico di un uomo che sprofonda inesorabilmente nelle sabbie mobili della dipendenza amorosa concedendo tutto e lasciando sparsi qua e là, con noncuranza, brandelli di dignità.
Tra un ménage à trois e l'altro (la sessualità prorompente di Yvette ha le sue esigenze) qualcuno finisce per lasciarci la pelle, come nella migliore tradizione simenoniana, mentre la frase conclusiva del romanzo con poche ciniche parole sembra chiudere il cerchio.