Il volo di Natale
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Cowboy dal cuore d’oro
“Il volo di Natale” di Craig Johnson è una storia che combina umorismo, buoni sentimenti e avventura in una formula che tiene adeguatamente a bada il rischio di sconfinare nelle lacrime grazie alla figura dell’ex sceriffo Lucian, personaggio rude e primitivo, ma essenziale e generoso.
Alla vigilia di Natale nell’ufficio dello sceriffo Walter Longmire (“Anche tutti gli altri sceriffi del Wyoming sono dichiaratamente pazzi?”) si presenta una giovane donna giapponese, che chiede di essere accompagnata da Lucian, nei confronti del quale la sconosciuta ha un debito di riconoscenza.
L’ex sceriffo è ormai a riposo e conduce il tempo tra alcol, gioco delle carte e stranezze varie.
Riaffiora così la storia di un Natale passato, quando Lucian – veterano di guerra, già amputato di una gamba (“Il nome indiano che avevano dato a Lucian, Nedon Nes Stigo: colui che ha perso la gamba”) – fu raccattato completamente ubriaco da Walter e convinto a pilotare un vecchio aereo (“Questo è un vecchio VB-25J, all’epoca dello sbarco in Normandia lo usarono come aereo personale di Eisenhower”) per salvare la vita a una bambina giapponese (“Il nome Amaterasu significa colei che splende nel paradiso”), l’unica superstite di un terribile incidente d’auto. L’equipaggio improvvisato (formato da sceriffo, ex sceriffo, l’inesperta Julie – chiamata bambola o angelo, come nella migliore tradizione western – in qualità di secondo pilota, il vecchio medico tedesco Isaac, la bambina in fin di vita e la sua nonna) affronta un volo nella tempesta di neve, tra mille pericoli (“Il problema del carburante è più grave di quanto pensassimo; ne abbiamo perso un sacco, con quelle maledette porte aperte”), cavalcando un reperto che ha un passato alterno (“Lo comprò una ditta di Tucson per spruzzare disinfestanti contro le cavallette…”) e vario (“per sganciare schiuma antincendio sui boschi in fiamme”) e sfidando la fortuna che sibila insieme ai venti di tempesta.
La parte centrale soffre di eccessivi tecnicismi aeronautici e medici, ma la trama è efficace (“Sai qual è la differenza tra ansia e paura?”) e il finale è semiserio (“I piloti videro la stella che portavo in petto e mi consegnarono la gamba…”): la genuinità dei personaggi scongiura il rischio di precipitare, insieme al pericolante velivolo, nella classica storia melensa di Natale. Il lieto fine è agrodolce, scosso dai sussulti della veracità di Lucien, che sa cavalcare la sua storia proprio come un cowboy in un rodeo (“Lo sa perché si chiamava Steamboat?... Era un cavallo da rodeo, una bestia indomita di fama leggendaria… nei primi anni di vita si ruppe il naso e da quel giorno in poi fischiava a ogni respiro, proprio come uno steamboat, un battello a vapore”).
Bruno Elpis