Il vino della solitudine
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Troppo tardi per perdonare
(…)vorrei un affetto sicuro e sereno... Eppure non sono più una bambina, ho l’età in cui si tagliano con orrore i vincoli affettivi più dolci... Sì, ma a me questa dolcezza è mancata... E poi, non essere stata una bambina quando era il momento di esserlo forse fa sì che non si possa mai maturare come gli altri; si è appassiti da un lato e ancora acerbi dall’altro, come un frutto esposto troppo presto al freddo e al vento...”.
Nella Némirovsky, scrittrice strappataci anzitempo, storia e autobiografia si intrecciano inestricabilmente in molte sue opere.
Anche qui, come ne “Il ballo”, che ho letto giorni fa, torna l’eterna tematica del conflitto con la figura materna che si traduce spietatamente nel detto Mors tua, vita mea.
La piccola Hélène, protagonista de “Il vino della solitudine”, si pone come obiettivo di vita quello di vendicarsi della madre, della sua freddezza, dell’amore e dell’affetto mancati nell’infanzia. Hélène vuole dimostrare a sua madre Bella che anche a lei spetta una piccola “fetta di felicità nel mondo”, le strapperà anche l’amante, se necessario, sarà la sua terribile rivale.
Tale conflitto, tale spietato odio, oserei definire contro natura nel rapporto madre-figlia, ricorre in più opere della Némirovsky e diventa sempre più crudele e irreversibile.
La figura paterna è l’unica figura amata, anche se non sempre presente, perché lontana per viaggi di affari: solo dal padre Hélène accetta baci e manifestazioni di affetto.
“Hélène assomigliava solo a lui, ne era il ritratto fedele. Da lui aveva preso il fuoco degli occhi, la bocca grande, i capelli ricci e la carnagione scura dal colorito che tendeva al giallognolo non appena la bambina era triste o sofferente.”
Boris Karol, papà della protagonista, ha però tante debolezze: la più grande è l’amore verso la moglie Bella. Le perdona i capricci, le sfuriate, l’incostanza: è l’unico che mantiene la famiglia, porta “milioni, milioni, milioni” in casa che servono alla consorte per avere gli abiti più costosi di Parigi e per fare doni al suo giovane amante, Max. Una relazione adultera, una delle tante, di cui lui fingerà di non essersi accorto. Boris ha anche il vizio del gioco e della scommesse: perde interi patrimoni, anche se a volte riesce a recuperare denaro con azzardi in Borsa.
La madre, Bella, è una donna leggera, frivola e fredda, che considera la figlia dapprima come un fardello, poi come oggetto da maltrattare, “stai dritta, stai composta”, mai un gesto o una parola affettuosa. Ama i viaggi, adora Parigi, le avventure clandestine, legge giornali di moda, sogna ad occhi aperti di
“Stringere fra le braccia un uomo di cui non sapeva da che paese provenisse né come si chiamasse, un uomo che non l’avrebbe mai più rivista, questo soltanto le dava quell’emozione forte che cercava. E pensò: «Ah, non sono nata, io, per fare la brava mogliettina borghese placida e soddisfatta, con un marito e una figlia!».”
Il lettore si imbatterà in uno stile secco, asciutto, che lancia fendenti nell’animo, descrizioni efficaci tratteggiate sapientemente con pochi tratti essenziali.
Abusi, debolezze, sesso, ricchezze, nell’aria vento di guerra imminente, spostamenti continui da Pietroburgo a Parigi. Questi ultimi biograficamente si traducono nel bilinguismo dell’autrice: la Némirovsky non scrive nella sua lingua madre,il russo, ma in francese, la lingua della patria adottiva, da cui spera di ottenere la cittadinanza.
È il romanzo della borghesia del tempo, legata ai precari e sfuggenti meccanismi della Borsa: quotazioni, azioni, perdite profitti che ora ti coronano d’oro e diamanti ora ti spogliano di tutto e gettano famiglie onorabili sul lastrico.
“Tutti si arricchivano. L’oro sembrava sgorgare a fiotti, e quella fiumana aveva un corso talmente capriccioso, impetuoso, tumultuoso da spaventare persino quelli che vivevano sulle sue rive e vi si abbeveravano. Tutto era troppo rapido, troppo facile... Appena si era entrati in possesso di un titolo di Borsa, ecco che si vedeva il suo valore schizzare alle stelle. Intorno a Hélène non si sparavano più, festosamente, delle cifre: adesso si sussurravano. Non erano più «milioni» quelli che sentiva, ma «miliardi», pronunciati con voce esitante, bassa e ansimante, e lei non vedeva attorno a sé che sguardi avidi e smarriti”.
Questo senso di esaltazione e di precarietà però sembra solo sfiorare Hélène, presa com’è dall’attesa di diventare donna, e di mostrare alla madre di conoscere già tutte le sottili arti della seduzione e di prendersi una rivincita su di lei. Per questo motivo non si prova compassione per Hélène, nè riusciamo a capire questo odio terribile che prova verso la madre. Tuttavia il disgusto che prova verso di lei, lo proverà ben presto anche verso se stessa, perché si renderà ben presto conto che lo stesso fuoco che brucia nella madre, brucia anche in lei. Le somiglia più di quanto sia capace di ammettere.
Ci saranno brevi e intensi guizzi di compassione verso la madre, ormai sfiorita, che paga giovani e aitanti gigolò per illudersi di una giovinezza ormai dipartita, ma tali barlumi di tenerezza durano pochissimo. Hélène sa che è ormai troppo tardi, conosce troppo bene se stessa e sa che è incapace adesso di perdonare. È stata educata ad offendere, a tradire, a abusare, a ingannare.
Vendicarsi è il suo ineluttabile e spietato destino.
Non c’è spazio per riflettere e parlare, non c’è tempo per perdonare.
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Tutte le opere dell’autrice
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Come un'arma carica
La storia di un lungo e doloroso apprendistato, la crescita a una feroce indipendenza, alla gioiosa libertà dal bisogno di affetti e legami (a parte il gatto), ad una strada senza accompagnatori e senza timori. All’inizio della vita adulta, Hélène calpesta complessi edipici e vecchie ferite narcisistiche, felice di sentire il sangue giovane e sano scorrere nelle vene e il vento freddo di Parigi danzarle intorno. Una solitudine inebriante, la sua, conquistata a caro prezzo dopo aver passato le notti della sua infanzia nell’incertezza e nel timore, nel gelo di una famiglia senza affetti e senza valori, con la precoce consapevolezza della precarietà della vita. Accanto a lei, un solo affetto, un’unica fonte di calore e di valori: Mademoiselle Rose, l’istitutrice che proviene dalla Francia, il paese più bello e più dolce del mondo. Rose è l’unica in grado di insegnare, di offrire, di dare. Rose è un filo di luce in un deserto buio, una luce meravigliosa ma fragile, sempre minacciata dai capricci ottusi della madre assente di cui prende il posto.
Hélène, la protagonista di questo stupendo romanzo di formazione, è una splendida guerriera, che da bambina sogna di diventare come Napoleone e odia sopra ogni cosa il disamore della sua famiglia e l’ipocrisia viscida come schiuma, che copre senza nascondere. Indimenticabile, la scena in cui riscrive a matita “la descrizione di una famiglia unita” su un libro per la lezione di tedesco:
“Prese il pezzetto di matita che teneva sempre in fondo a una tasca, esitò, lo accostò piano piano al libro, come un’arma carica. Scrisse: - Il padre pensa a una donna che ha incontrato per la strada, la madre ha appena lasciato un amante. Non capiscono più i loro figli e i loro figli non li amano...”
Il lavoro dello scrittore è anche questo: riscrivere a matita sull’ipocrisia dei libri di scuola.
Quelle parole sparate a matita causeranno un’esplosione drammatica che metterà a nudo l’ottusa pochezza del focolare in cui vive e che cambierà per sempre la sua vita. Lo schema padre (con o senza donne occasionali) - madre - amante è davvero un’istituzione tra i ricchi europei dell’epoca: interessante notate che l’autrice descrive anche altre forme di questa “famiglia allargata”, che lasciano spazio alla tenerezza e alla complicità tra genitori e figli.
Nel romanzo famigliare di Hélène, invece, lo spazio per l’amore è minimo, e ancora più misero quello destinato alla tenerezza: una costellazione di buchi neri senza luce, astri oscuri e avidi di lusso e spazzatura, privi di radici e di significato, sempre in fuga dalla guerra, dalla povertà, dalla vita. Ogni forma di amore consuma in fretta il suo minimo capitale di autenticità, e il tempo corrode senza pietà le carni e la pelle e la passione, senza lasciare traccia di ricordi buoni. L’autrice mette in scena con efficacia suggestiva questa misera e feroce umanità, la incornicia nella sciatteria e nella desolazione delle case di lusso, nella decadenza della carne, nella sguaiata bruttura che segna ogni sguardo, ogni dialogo, ogni scambio.
Una storia ancora molto attuale; una scrittura generosa, che nel raccontare la miseria dell’avidità lascia un segno ricco e indimenticabile.
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Non si perdona un'infanzia rovinata
C'è molto della biografia dell'autrice in questo romanzo della Némirowsky: Hélène odia sua madre, Bella, donna vanesia e anaffettiva e cresce con un'istitutrice francese, Mademoiselle Rose che, seppur con molti limiti, sostituisce la figura materna. Il padre, Boris Karol, si dedica agli affari e al gioco d'azzardo dilapidando grandi fortune. Bella frequenta un giovane amante, Max, tra l'indifferenza del marito e l'ostilità della figlia e la famiglia Karol resta negli anni infelicemente unita, salvaguardando apparenze e fragili equilibri. Sullo sfondo della prima guerra mondiale e della rivoluzione russa i Karol, per sfuggire ai conflitti, viaggiano tra Ucraina, Finlandia e Francia e la piccola Hélène ha così l'occasione di innamorarsi di Parigi, città dove vorrà tornare per godere, infine, della sua solitaria libertà.
'Il vino della solitudine' è un romanzo in cui il tema dominante è un leitmotiv caro all'autrice: la sofferenza che una figlia prova nel sentirsi trascurata, non amata, da una madre incentrata esclusivamente su se stessa. Il punto di vista è quello della giovane Hélène, bambina intelligente, amante dello studio e dei libri “per la loro facoltà di dare l'oblio”, ma soprattutto sensibile, riflessiva e chiusa in se stessa. Il rapporto con Bella è, per la giovane, devastante ed insanabile: “nutriva nei confronti di sua madre un odio strano che sembrava crescere con lei; che, come l'amore, aveva mille ragioni e nessuna”. Hélène cresce “affamata di solitudine, di silenzio, di una malinconia amara di cui si sarebbe riempita l'anima fino a saziarla di odio e di tristezza”, sentimenti che sviluppano nella ragazza una sete di vendetta per tutto ciò che la madre le ha fatto patire nell'infanzia e nell'adolescenza. Cresciuta e ormai consapevole della propria femminilità, Hélène assume, prima inconsapevolmente e poi volutamente, tutti quegli atteggiamenti civettuoli che tanto aveva odiato in Bella. Gli uomini diventano per lei oggetti di conquista perché “non si ama un uomo per se stesso, lo si ama contro un'altra donna” e quella donna è sua madre. Cinica e disincantata Hélène persegue nel suo obiettivo fino a privare Bella di ciò a cui tiene maggiormente: la considerazione, le attenzioni e l'affetto di Max. Raggiunto lo scopo, a Hèlène non resta che gustarsi il calice amaro del vino della sua solitudine per poi staccarsi definitivamente dagli affetti familiari: "Non ho paura della vita” pensò "Sono stati solo anni di apprendistato. Terribilmente duri, è vero, ma che mi hanno temprata, hanno rafforzato il mio coraggio e il mio orgoglio. E questo mi appartiene, è la mia ricchezza inalienabile. Sono sola, ma la mia solitudine è aspra e inebriante".
La Némirowsky ha una penna tagliente, un bisturi che seziona l'anima; attingendo dalla propria dolorosa esperienza biografica, delinea con meticolosità quasi ossessiva la conflittualità tra la figlia e la madre facendo percepire al lettore tutta la sofferenza di quel rapporto. 'Il vino della solitudine' fu pubblicato in Francia nel 1935; sappiamo che l'autrice, prossima ad essere arrestata e deportata, stilando l'elenco delle sue opere sul retro del quaderno di "Suite Francese", accanto a questo titolo scrisse «Di Irène Némirovsky per Irène Némirovsky» e non è difficile trovarvi delle analogie tra la vita dell'autrice e la trama del romanzo: un padre assente, dedito solo al culto degli affari e una madre superficiale e insensibile che non manca mai di rimproverare la figlia per la sua goffaggine. L'unica figura positiva è quella della tenera e protettiva governante Rose che la Némirovsky descrive pensando alla sua cara Marie che le infuse l'amore per la Francia.
In Hélène troviamo tutto il dolore della scrittrice, la sofferenza di tutte le creature non amate dalla propria madre che per sempre patiranno di una ferita insanabile:
«Non si perdona un'infanzia rovinata...[...]Mi sembra che non si possa mai maturare come gli altri: siamo marci da una parte e acerbi dall'altra, come un frutto esposto troppo presto al freddo e al vento...»
Ho trovato questo romanzo avvincente ed intrigante, sofferto e profondo, come tutti quelli di questa autrice.
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Odio, vendetta, solitudine
Madre e Padre
Bella è una donna volubile, capricciosa, infedele. Pur essendo piacente d’aspetto, ha qualcosa che ricorda un’arpia (“Un’agile e spasmodica torsione che ricordò a Hélène il movimento dei serpenti ritti su una testa di Medusa…”). Ha sposato Boris per interesse (“Voi! Sposare un piccolo ebreo oscuro, vissuto Dio sa dove, di cui non si conosce neanche la famiglia!”), ha una figlia che non ama e che la ricambia (fin da piccola, Hélène nelle preghiere “sostituiva il nome di sua madre con quello di Mademoiselle Rose, con una vaga speranza omicida”).
Boris “sapeva che la moglie era corteggiata, che piaceva agli uomini… E lui l’amava…” Litigi e tradimenti sono all’ordine del giorno (“Karol partì e le serate tornarono a essere tranquille”). La personalità di Boris è recessiva (“Karol era interessato solo al denaro, al meccanismo del denaro, agli affari, e Hélène era una bambina innocente che stava in adorazione davanti a lui”) e immatura (“Ha una sola passione che gli divora lentamente l’anima: il gioco, alla borsa o a carte”). Frequenta “uomini d’affari febbrili, inquieti, dallo sguardo impaziente, le mani tese e avide come gli artigli” e ha “sempre tenuto gli occhi chiusi, rimosso la verità”.
La figlia
In questo clima familiare, la figlia matura il proprio odio viscerale per la madre (“Nutriva nei confronti di sua madre un odio strano che sembrava crescere con lei; che, come l’amore, aveva mille ragioni e nessuna…”), che tradisce Boris con quello che oggi chiameremmo “toy-boy”: il nipote Max.
Naturale per Hélène invidiare gli altri nuclei familiari, patire le allusioni dei grandi e soffrire: “Le sembrava di percepire tutta la solitudine che c’era nel mondo; la camera diventava ostile e terrificante…”
“Nel suo petto il cuore era pesante e colmo di un dolore complicato, strano e indecifrabile.”
E concludere: “Sarei meno infelice in collegio.”
Infanzia e adolescenza
L’infanzia di Hélène è in una cittadina sul Dnpr (“Il ricordo la rendeva più bella, le dava un fascino malinconico. Rievocavano, sognanti, l’aria limpida e gelata dell’autunno, le strade addormentate, il tubare dei colombi selvatici, l’antico parco dello Zar, sul fiume, gli isolotti verdi e i campanili d’oro dei conventi…”), con escursioni a Parigi e Nizza. L’adolescenza è a Pietroburgo (“Hélène la odiava già quella città sconosciuta; la guardava e si sentiva stringere il cuore come nell’imminenza di una disgrazia”). Poi la famiglia fugge in Finlandia (dove Hélène ha una relazione più giocosa che erotica con lo sposato Fred: “Proprio come a lei gli piacevano l’aria pura, il sole, le grida e i capitomboli sulla neve bagnata e soffice”) e ripara (“Il soffio della rivoluzione, e la conseguente, capricciosa diaspora di uomini e cose sulla superficie della terra, nel luglio del 1919 spinse i Karol ad approdare in Francia”) a Parigi (“Era l’epoca in cui la Borsa volava…” “Le donne… portavano un modello d’abito che si chiamava gosse de riches, che fasciava i fianchi e mostrava fino alle cosce le gambe vigorose”).
Il disegno di Hélène
Presto l’idea della vendetta (“Eppure ho la vendetta a portata di mano”) si fa largo (“Vendicarmi! Ah, non posso rinunciarvi!”) perché “ogni giorno che passa toglie un’arma a te e ne aggiunge una a me” e perché “un’infanzia rovinata, quella non si perdona”.
Tra convinzioni dominate dall’astio (“Dammi retta, ragazzo, non si ama un uomo per se stesso, lo si ama contro un’altra donna”), attenuati complessi di colpa (“Ho passato la vita a combattere contro un sangue detestabile, ma questo sangue è anche in me”) e progressiva trasformazione del sentimento negativo (“guardando sua madre con un sentimento che non era più odio ma una sorta di orrore davanti a quel volto devastato, pesto, imbellettato…”), Hélène trova nell’orgoglio e nella determinazione la sua strada: “Sono sola, ma la mia solitudine è aspra e inebriante”.
“Il vino della solitudine” è una tragedia moderna ove la nuova declinazione di Medea incrocia complessi edipici ed Erinni, per ribadire drammatiche verità: il bisogno di sentirsi amati, il diritto ad avere un’infanzia felice, il ruolo tragico del protagonista, che è completamente solo nella sua lotta per la vita. Nello stile magico di un’autrice che incanta anche narrando gli orrori familiari di Hélène.
Bruno Elpis
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Altre opere dell'autrice.
Troppo rancore
La storia, autobiografica se non nella trama almeno nellla sua essenza, indaga uno squallido quadretto familiare dove ognuno si preoccupa delle sue passioni e nessuno, a parte la splendida governante, si interessa della protagonista, una bambina di dieci anni. La bambina ha una forza invidiabile e una consapevolezza altrettanto invidiabile delle sue doti e delle mancanze altrui. Crescendo si rende conto però di non essere migliore degli altri, di essere soggetta alle stesse passioni e contraddizioni. E' attirata da una vita simile a quella che ha condotto la sua antagonista di sempre, sua madre. Ma per fortuna oltre alle passioni ha una spiccata intelligenza e capacità autocritica che manca totalmente a tutti gli altri personaggi. Pian piano la sua convinzione di essere migliore degli altri grazie al cielo vacilla. Vacilla la fiducia nella sua forza. Anche la libertà interiore, che ritiene di avere perchè priva di legami, richiederà per essere davvero conquistata uno sforzo ben al di là della vendetta. La conclusione è l'unica possibile.
Il fiele avvelena un po' (non troppo) la narrazione rendendo la madre in alcuni punti quasi caricaturale. In compenso la storia diventa una confidenza fatta al lettore, che perciò perdona la poca obiettività della narrazione e la semplificazione di molti personaggi, visti con gli occhi della bambina dimenticata da tutti e non della donna-scrittrice.
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Miele e fiele
“In quello spicchio di mondo in cui Hélène Karol era nata, la sera si annunciava con un fitto pulviscolo che volteggiava lentamente nell’aria e ricadeva con l’umidità della notte”.
Alla dolcezza malinconica di queste righe, incipit di un romanzo dal sapore autobiografico, si contrappone la descrizione particolareggiata di uno squallido quadretto familiare composto da persone rancorose, insoddisfatte, rassegnate, che si ritrovano a tavola per la cena. In mezzo a loro, ignorata da tutti, c'è Hélène, una bambina con una gran voglia di dormire e il bisogno struggente e inappagato di essere amata. Due soli affetti brillano nel suo piccolo mondo: il padre, roso dalla passione per il gioco e da quella non meno deleteria per la moglie, e la governante francese, presenza discreta e rassicurante. La madre, donna annoiata che vagheggia avventure galanti, ha ben altro per la testa che occuparsi di lei, che maturerà come “un frutto esposto troppo presto al freddo e al gelo”.
E allora sarà l'odio, anziché l'amore, a indicarle la strada da seguire, a renderla forte e orgogliosa, sempre più consapevole del suo fascino e della sua capacità di elevarsi al di sopra degli altri attraverso la scrittura. Userà questi doni come un'arma, e farà della sua solitudine “aspra e inebriante” un punto di forza: “Grazie a Dio, non amo nessuno, sono sola e libera”.
Conoscerà i baci appassionati di un uomo sposato, conquisterà per vendetta l'amante della madre (“Aspetta, cara mia, aspetta...”), ma conserverà sempre l'innocente sensualità di una creatura selvatica. Perché lei non è come loro, lei è coraggiosa, viva, giovane, e vuole lasciarsi alle spalle il lezzo stantio del passato, il viso ormai sfiorito, “da vecchia strega”, di colei che l'ha messa al mondo.
La scrittrice indugia spesso sull'essenza della giovinezza, sulla “felicità aspra e amara dell'essere viva”, quasi presaga del fatto che per lei la vecchiaia non arriverà mai. E la sua penna, intinta con maestria nel miele e nel fiele, sfida impavida il tempo senza sbiadire.
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Il potere di una madre
Ho scelto questo libro per il titolo e per la trama, sfogliandolo mi sembrava abbastanza descrittivo da potermi piacere, leggendolo non mi ha convinto più di tanto. La protagonista è una bambina, con un difficile rapporto con la madre. Una bambina così piccina che, da dove si trovavano gli altri, c'era tutto un viaggio da fare per arrivare fino a lei e questa immagine mi è piaciuta moltissimo. Subito. Però nel romanzo si racconta di attriti, forti, nei confronti di una madre che lei ha sempre temuto e detestato, si avvertono i fremiti di odio che ha provato nei suoi confronti, si avvertono le ansie interne con cui la bambina è cresciuta, al punto da non essere quasi mai riuscita quasi a respirare liberamente. E' difficile da leggere questo romanzo, è difficile da "sentire", perchè a volte ci si chiede come è possibile provare questi sentimenti, contro natura, nei confronti della propria madre, a volte si sta invece proprio dalla parte della ragazzina. Da leggere, perchè comunque fa riflettere e pensare sul rapporto che ognuno di noi ha con la propria madre. Ma devo anche dire che mi aspettavo che queste pagine mi regalassero qualcosa in più.
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- sì
- no
Un calice amaro
Quanto, quanto, quanto....
Quanto possiamo essere soli ed egoisti? Quanto la nostra infanzia influisce sulla nostra vita adulta? Quanto Freud aveva ragione?
Questo libro è un calice amaro: il vino della solitudine.
E' un vino che nessuno di noi vorrebbe bere, immagino.
Premetto: è la prima volta che leggo Irène Némirovsky.
Il suo stile è meraviglioso: è come se le parole vi stringessero in un abbraccio disperato, voluttuoso, confuso.
Questo libro ha bisogno di essere amato, custodito.
Hélène vive in una famiglia dove il padre è un accanito giocatore d'azzardo e la madre, Bella, la odia a morte, forse perché vorrebbe essere perennemente giovane.
Hélène riesce a rifugiarsi solo nell'amore di Mademoiselle Rose, la domestica che si prende cura di lei.
Nel frattempo, la madre di Hélène si trova un amante molto giovane, e non un amante qualsiasi: si tratta di Max, il nipote di Bella.
Come se non bastasse la situazione familiare tragica, anche la guerra arriva a minacciare la famiglia russa.
Hélène, per tutte le pagine del romanzo, cercherà di staccarsi dalla madre e dalla propria famiglia; dal rancore, dall'odio e dall'egoismo che l'hanno circondata fin dalla nascita.
Perché oramai Hélène sta diventando adulta. Ha ventun anni. Deve decidere cosa farne della propria esistenza.
E' un libro che vi trasporterà in un ambiente malsano, marcio; ma che riesce a catturarvi dalla prima all'ultima pagina.
Bevete questo calice. Sì, è un pò amaro. Ma non vi nuocerà, anzi, forse vi arricchirà.
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sublime
Come altri libri della Nemirovsky, è a dir poco una piccola opera d'arte. Scrive con uno stile sobrio ma con una ricchezza di linguaggio che la contraddistingue e affronta ogni tema dell'esperienza umana in modo del tutto originale e profondo.
Consiglio a tutti un..viaggio con Irene Nemirovsky.
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Da un'infanzia infelice non si guarisce mai!
Ho letto in ordine "Il malinteso" e "Due", "Il vino della solitudine" che ho appena concluso è finora il più bello.
Autobiografia di una donna emancipata e fuori dagli schemi per il tempo in cui è vissuta, leggere i suoi libri mi cambia tutte le volte, ha il dono della scrittrice per antonomasia, che grazie alla sua scrittura superba e al dolore perpetrato della sua adolescenza triste riesce a trasmettermi tutti i sentimenti e le sensazioni del suo tempo, dimenticando il conteso storico, politico in cui è vissuta. Irène Némirovsky è morta ad Auschwitz nel 1942.
Ma lei amava lo studio e i libri, come altri amano il vino, per la loro facoltà di dare l'oblio...