Il vino dei morti
Editore
Recensione della Redazione QLibri
Risurrezioni diluite
Come tutti i manoscritti, anche questo che sta alla base de ”Il vino dei morti” ha una storia affascinante: non è rilegato, è composto di 331 fogli, è a firma Romain Kacev, è siglato dalla data 1938- il che lo colloca come l’opera prima di R. Gary -, fu consegnato alla donna che amava all’epoca e da lei conservato fino al 1992 per poi finire all’asta ed essere così ritrovato da Philippe Brenot che ne ha curato l’edizione per i tipi di Gallimard nel 2014. Ora Neri Pozza ci dà occasione di leggerlo in traduzione italiana e di migliorare dunque la conoscenza dell’autore di numerosi romanzi che hanno riscosso successo anche presso il pubblico nostrano, da “La vita davanti a sé” a “Gli aquiloni” o ancora “Educazione europea” o “Il senso della mia vita” per citarne solo alcuni.
Più che godere di un’esperienza di lettura al netto, ci ritroviamo però a scoprire che questo è il pozzo sacro dal quale l’autore ha continuato ad attingere per la creazione di molti dei suoi romanzi futuri: interi stralci di questo primo scritto sono infatti stati riversati in “Educazione europea” o in “Mio caro pitone” o ancora in “Pseudo” o ne “La vita davanti a sé”. E questo ci porta a sconfinare quasi nell’esegesi non tanto di questo romanzo quanto dei successivi, nel tentativo di penetrare il segreto di una scrittura che fu, come ben sappiamo, truffaldina, legata allo schermo dello pseudonimo Émile Ajar, irriverente, scanzonata e al tempo stesso delicata e profondamente umana. È come se Gary avesse insomma scritto un unico grande romanzo. Proprio ciò che questo primo non è, esso infatti si presenta come una giustapposizione episodica di grotteschi quadretti dall’aldilà. In fuga nell’oltretomba è il novello picaro Tulipe che, dopo aver scavalcato il cancello di un cimitero, si ritrova nel mondo dei morti. Inizialmente questi hanno le sembianze che avevano da vivi ma a guardarli da vicino il loro disfacimento è ancora in divenire: vermi fuoriescono da orbite oculari o da ombelichi, arti si staccano, a volte basta uno starnuto per rompere l’illusione dell’integrità corporea. Sono morti viventi: soggetti a tutte le manifestazioni corporali, anche le più volgari, parlano tra di loro e ricordano episodi della loro vita. Sono sbirri per lo più, prostitute e caduti in guerra. Un universo di miseria umana in una visione tutta terrena scaturita da un vino di pessima qualità, quello bevuto dal protagonista prima del suo ruzzolone nel perimetro infernale. Perché inferno è, questo.
“ Il vino dei morti” è così paragonabile a un negativo pronto allo sviluppo che restituirà, come in una risurrezione diluita, personaggi già stazionati all’inferno, da lì provenienti, pronti per un nuovo giro di giostra, nell’inferno fatto terra.
Indicazioni utili
- sì
- no