Il sussurro del mondo
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Recensione della Redazione QLibri
IL GRANDE SOGNO DI UN MONDO INCORROTTO
“Io credo che una foglia d'erba non valga affatto meno della quotidiana fatica delle stelle.” (Walt Whitman, “Tutto vale”)
Circa un anno fa, rispondendo a un commento relativo alla mia recensione de “Il tempo di una canzone”, mi sbilanciai scrivendo che, se un autore contemporaneo fosse stato in grado di scrivere il prossimo “Grande Romanzo Americano”, quello sarebbe stato proprio Richard Powers. Ebbene, lo scrittore dell'Illinois, con “Il sussurro del mondo”, è riuscito a superare ogni più ottimistica previsione e a scrivere addirittura quello che, senza esagerazioni, può essere a mio parere definito il “Grande Romanzo del Pianeta”. Le tematiche ecologiche, come ciclicamente accade, sono tornate di estrema attualità, come dimostra il successo mondiale riscosso da una giovane attivista quale Greta Thunberg, e confesso che quando ho preso per la prima volta in mano il ponderoso volume di 650 pagine mi ha sfiorato il sospetto di un astuto paraculismo, di una opportunistica intenzione di cavalcare un argomento di gran moda come la difesa dell'ambiente. Il dubbio si è però rivelato assolutamente infondato nel breve volgere di poche pagine, tanto appariva chiara e trasparente la volontà di comporre un autentico, genuino inno alla natura e alla bellezza incomparabile degli alberi e delle foreste, e solo secondariamente di lanciare un monito alla civiltà che, attraverso uno sviluppo incontrollato e insostenibile e lo sfruttamento sconsiderato delle risorse (“Stiamo per riscuotere un miliardo di anni di buoni di risparmio planetari e sperperarli in gioielli assortiti”), sta distruggendo intere specie che erano sulla Terra ben prima che facesse la sua comparsa l'uomo. Powers, come sua abitudine, non rinuncia a un approccio marcatamente scientifico, e la biologia (così come la musica e la fisica quantistica ne “Il tempo di una canzone”, o la fotografia, l'informatica e la genetica in altre sue opere) viene sviscerata con l'autorevolezza e la competenza di un vero specialista della materia. Ma egli è altresì convinto, come si esprime uno dei personaggi del romanzo, che “le migliori argomentazioni del mondo non faranno cambiare idea alle persone” e “l'unica cosa in grado di farlo è una bella storia”. Così ne “Il sussurro del mondo” non ci viene presentata una sola bella storia, ma, in un profluvio incontenibile di ispirazione, ben otto storie che, nalla prima parte intitolata “Radici”, costituiscono quasi una raccolta di racconti apparentemente autonomi e autosufficienti. I nove personaggi (giacché in un capitolo ad essere protagonista non è un individuo singolo ma una coppia) sono quanto di più diverso per età, provenienza geografica, estrazione sociale e inclinazioni culturali si possa immaginare. C'è il discendente di una famiglia di coloni che nell'Ottocento si erano trasferiti in America dalla Norvegia, la figlia di un profugo di Shanghai in fuga dal comunismo di Mao, un ragazzo autistico interessato a tematiche di psicologia sociale, un veterano del Vietnam, un avvocato esperto di brevetti e copyright con la sua compagna stenotipista e attrice amatoriale, un programmatore informatico ideatore di videogiochi di successo, una studentessa in crisi di identità e una biologa innamorata delle piante al punto da preferirle di gran lunga agli esseri umani. L'unica cosa che in un certo senso accomuna questi personaggi è che le loro esistenze sono, in qualche caso (la biologa Patricia) in modo evidente, in altri casi in maniera assai più indiretta e nascosta, contrassegnate dalla presenza degli alberi: dal castagno che, per una bizzarra consuetudine tramandata di generazione in generazione dagli antenati di Nicholas, viene fotografato lo stesso giorno di ogni mese, fino a ottenere una sorta di zoopraxiscopio, un migliaio di fotografie che cambiano tra loro impercettibilmente e che, viste in rapida successione, mostrano in time-lapse il mistero della vita in divenire, all'anello di giada con un albero di gelso finemente intagliato portato dalla Cina dal padre di Mimi, dagli alberi piantati dal padre di Adam in occasione della nascita di ciascun figlio e che Adam è convinto che creino un collegamento magico con ciascun bambino influenzandone il carattere e il destino, alla famosa foresta del “Macbeth” che Ray e Dorothy recitano all'epoca del loro primo incontro, dal baniano che salva la vita di Douglas nell'Estremo Oriente al leccio da cui invece precipita Neelay condannandolo a un futuro da paraplegico, e così via. I nove protagonisti sono quasi dei predestinati, degli esseri prescelti (con un meccanismo che mi ha ricordato alla lontana “Incontri ravvicinati del terzo tipo”) per portare avanti le istanze di un mondo a rischio di estinzione. E' così che nella seconda parte (“Tronco”) le varie storie convergono, si sfiorano, si incrociano e si intrecciano, fino a procedere all'unisono sullo sfondo dei movimenti ambientalisti di protesta e del radicalismo ecologista a cavallo tra gli anni '80 e '90 negli Stati Uniti dell'Ovest. Ribattezzandosi con nomi di albero come dei partigiani, Olivia, la donna che è spinta ad agire mossa dalle voci di misteriose creature di luce, Nicholas, Mimi, Douglas e Adam partecipano a sit-in di protesta, occupazioni pacifiche e altre plateali manifestazioni, cercando di mettere i bastoni tra le ruote della fiorente industria nordamericana del legname che disbosca a ritmo forsennato intere foreste di alberi secolari e pagando spesso in prima persona con violenze ed arresti il loro giovanile e appassionato idealismo. Sono anni di ideali, di speranze, di visioni perfino (come detto, Powers non esita neppure a flirtare con il paranormale, come aveva già fatto un altro grande romanzo di questi anni, “Canta, spirito, canta” di Jesmyn Ward), destinati a scontrarsi duramente con interessi, economici e politici, molto più grandi e potenti. Olivia e Nicholas trascorrono addirittura un anno in cima a una gigantesca sequoia, per impedire che venga abbattuta, scoprendo che tra i rami del grattacielo verde, a sessanta metri sopra il livello del suolo, vive uno straordinario e inimmaginabile ecosistema (con tanto di piante di mirtilli e laghetti popolati di salamandre). Il dolore causato dalla vista di tanta distruzione e la volontà di ritardare il più possibile ciò che loro considerano una imminente apocalisse finiscono fatalmente per spingere i cinque amici ad intraprendere piccoli gesti di terrorismo, che sfoceranno inevitabilmente in tragedia. Dal canto suo, Patricia, la biologa che vive appartata nei boschi e le cui idee rivoluzionarie (gli alberi sono organismi sociali, che comunicano tra loro, nell'aria e sotto terra, si nutrono vicendevolmente e costruiscono sistemi immunitari condivisi, diffondendo messaggi chimici di allerta quando un pericolo si avvicina), dopo essere state inizialmente respinte dalla comunità scientifica, tornano in auge riabilitandola agli occhi del mondo, scrive un bestseller sugli alberi e ottiene una generosa sovvenzione pubblica per creare una sorta di banca dei semi di specie a rischio di estinzione, cosa che tuttavia non le impedendisce di sentirsi in colpa al pensiero di quante piante abbiano dovuto essere abbattute per poter stampare il suo libro o quanto danno abbiano arrecato all'atmosfera i suoi viaggi in aereo per scopi scientifici.
La struttura del romanzo di Powers è genialmente a immagine e somiglianza di un albero. Alle radici e al tronco delle prime due parti, seguono la chioma e i semi delle altre due sezioni. E come le storie individuali si erano riunite per un certo periodo nell'azione comune, nella solidarietà della lotta e nella complicità affettiva, così lo scorrere del tempo fa tornare a prevalere le spinte centrifughe e distanzianti. Come i rami che si biforcano e si allontanano, i nove protagonisti tornano a vivere le loro vite solitarie e appartate, minate dal rimpianto per ciò che non si è realizzato, dallo scoramento per i fallimenti subiti e dalla paura nei confronti di un passato che sembra farsi vivo solo come eterna minaccia e non come una promessa che si avvera. E' la vecchiaia che segue all'infanzia e alla giovinezza, in un'altra ideale e simbolica ripartizione del libro. La morte, la solitudine e la condanna fanno capolino nel romanzo, diffondendo un'aura di pessimismo e di sconfitta. Ma le molteplici e imprevedibili diramazioni dei rami di un albero richiamano alla mente anche le diramazioni della vita, le esistenze alternative che si sarebbero potute realizzare in un universo parallelo. Come un mago della dimensione temporale, Powers immagina che un suicidio per aver ingerito un veleno da un bicchiere possa trasformarsi in un brindisi al non-suicidio, o che la figlia che i coniugi Brinkman non hanno mai avuto possa rivivere all'indietro, in un poetico time-lapse, mentre i loro occhi sono fissati sul castagno del loro giardino. C'è un personaggio emblematico che ipostatizza alla perfezione questa “fluidità” temporale, ed è Neelay, il guru della realtà virtuale, il quale attravreso i suoi elaborati videogames crea nuove vite e nuovi mondi, talmente realistici da poter essere preferiti da milioni di persone alla realtà vera. Ebbene, Neelay, sconcertato per il fatto che i suoi giocatori riproducono nei suoi universi virtuali tutti i comportamenti negativi del mondo autentico (cieca violenza, accumulazione indiscriminata di ricchezze, distruzione di risorse, espansione illimitata), progetta un nuovo gioco in cui il mondo è una sorta di nuovo paradiso terrestre, ma in cui le risorse sono calmierate come le nostre, i comportamenti non sono senza conseguenze e le vite non sono infinite, bensì solo una, da gestire con oculatezza, non solo risolvendo problemi ma anche prendendosi cura della comunità, dell'ambiente e della natura circostanti. E' una sorta di sogno chimerico, che dimostra comunque come Powers abbia profondamente a cuore la speranza. In un mondo che l'uomo ha sempre pensato fosse fatto esclusivamente a suo uso e consumo, e che i suoi comportamenti dissennati minacciano pericolosamente di distruggere, non è utopistico pensare che la salvezza risieda proprio negli alberi, “i prodotti più spettacolari di quattro miliardi di creazione”. E' una sorpresa per i personaggi del libro scoprire alla fine, dopo aver faticosamente metabolizzato la delusione per non essere riusciti a salvare le foreste dalla furia erinnica del capitalismo selvaggio, che le creature che dovevano essere salvate non erano gli alberi, ma erano proprio loro, gli uomini, e che i salvatori sarebbero invece stati, con la loro silenziosa e paziente tenacia pronta a sfidare i secoli, gli alberi. “La vita ha un modo tutto suo – pensa Neelay – di parlare al futuro. Si chiama memoria”. Gli alberi di Powers possiedono uno straordinario potere, quello di annullare il confine tra passato e futuro, di trasformare i ricordi in predizioni, di far rivivere ciò che non è più: i ricordi di Mimi bambina che in riva al fiume pesca col padre risuscitano al profumo irresistibile di un pino (“una zaffata devastante di duecento milioni di anni prima”), così come gli alberi piantati in gioventù e poi colpevolmente dimenticati riportano in vita la freschezza e la gioiosità dei primi, spensierati anni del matrimonio di Ray e Dorothy, e le fotografie del castagno degli Hoel dissepolte da Nicholas lo riportano vertiginosamente indietro nel tempo, all'inizio del secolo scorso.
Richard Powers non è uno scrittore che indulge in virtuosismi inutili, in acrobatici tour-de-force verbali, non è un Nabokov o un Faulkner per intenderci. Il suo stile è fatto di periodi brevi, essenziali, precisi, apparentemente neutri e cronachistici, eppure capaci di aperture straordinariamente liriche ed evocative, come un fiume carsico che esce in superficie quando meno lo si aspetta. Se dovessi avvicinarlo a un altro autore contemporaneo, il nome che farei sarebbe senz'altro quello di Cormac McCarthy. Ne “Il sussurro del mondo” questa scrittura appare quanto mai congeniale, perché è come se l'autore si fosse messo alla stessa altezza degli alberi, e osservasse, con il loro stesso metro temporale, le vicende umane. Le tragedie e gli altri momenti topici, per esempio, capitano all'improvviso, quasi senza preparazione, in maniera del tutto anti-emotiva e anti-spettacolare, proprio come se fossero viste “sub specie aeternitatis” (o sarebbe meglio dire “sub specie arboribus”). Sono infatti gli alberi, più che i personaggi umani, i veri protagonisti del romanzo. Le loro esistenze ieratiche e solenni sono, benché misconosciute, sommamente più interessanti di quelle umane. Gli alberi fanno riprodurre gli uccelli, assorbono carbonio, purificano l'acqua, filtrano veleni dal suolo, formano il clima e costruiscono l'atmosfera, riparano, nutrono e proteggono tutti gli esseri viventi, offrendo persino l'ombra ai boscaioli che li distruggeranno. Powers li guarda con un senso di reverente meraviglia, di stupefatto incanto, e dedica loro pagine ispiratissime, magari per descrivere una semplice venatura lignea sulla superficie di un tavolo o la forma unica e inconfondibile di una foglia. Quando scrive il suo libro “La foresta segreta”, Patricia ricerca nel suo scritto tre qualità: speranza, verità e utilità. “Il sussurro del mondo” le possiede indubbiamente tutte quante: in primis la speranza che la civiltà umana, che è ormai ridotta come “un vitello cui vengono somministrati gli ormoni della crescita”, possa finalmente imparare non solo a convivere pacificamente con i suoi vicini vegetali, a cui è legata da tantissime affinità (in fondo, viene fatto notare nel romanzo, tutti quanti proveniamo dallo stesso seme e, pur avendo intrapreso strade opposte, ancora adesso condividiamo il 25% del DNA), ma anche a comprenderli per l'interesse della propria specie (“Se sapessimo cosa vuole il verde, non dovremmo scegliere tra gli interessi della Terra e i nostri. Sarebbero gli stessi!”); la verità, poi, supportata da inoppugnabili anche se sorprendenti (per un profano) affermazioni scientifiche, come la messa in discussione della visione antropocentrica del mondo (in fondo, se riduciamo la vita dell'universo in una sola giornata, l'uomo sarebbe apparso solo pochi secondi prima della mezzanotte); infine l'utilità di trasmettere al lettore una visione inedita del mondo vegetale, dal momento che, dopo aver letto “Il sussurro del mondo”, non credo che si possa più fare jogging in un parco o una passeggiata in un bosco senza guardare i faggi, gli aceri o le betulle con occhi nuovi e pieni di gratitudine, meravigliandosi di averli trattati fino ad oggi con così poca considerazione e degnati di così scarsa attenzione. Ma oltre a speranza, verità e utilità, nell'opera di Powers c'è – soprattutto – bellezza, la bellezza di un libro che ci avvince con le sue straordinarie storie di amore, di amicizia, di dedizione, di tradimento e di perdono, capace di farci attraversare il corso dei secoli, magari in un unico momento di estatica visione (Adam che dal suo appartamento vede improvvisamente Manhattan come doveva essere prima della comparsa dell'uomo, con le sequoie al posto dei grattacieli e gli animali preistorici al posto dei newyorkesi), di farci assaporare la libertà dei nostri limiti e il potere dei nostri sogni (foss'anche solo quello di trasformare il giardino di casa in una piccola foresta, a dispetto di tutte le leggi e le ordinanze comunali), e persino di inviare messaggi a un lontano futuro (come Nicholas che con i tronchi caduti nella foresta compone una gigantesca scritta - “TUTTAVIA” - che può essere letta dallo spazio), la bellezza di un libro eccezionalmente denso, stratificato e complesso, che le mie parole non sono forse in grado di restituire appieno, ma che sono sicuro un giorno sarà considerato un imprescindibile caposaldo della narrativa del XXI secolo. Se anche gli alberi non dovessero riuscire a salvare il mondo, sicuramente, con “Il sussurro del mondo”, avranno in piccola parte contribuito a salvare la letteratura contemporanea.
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Una prospettiva non semplice
Se amate la natura e avete voglia di leggere un romanzo con un messaggio ricco di spunti di riflessione, ecco che “Il sussurro del mondo” non deluderà le vostre aspettative. L’approccio con questa lettura non è però semplice. Lo scoglio iniziale non è infatti indifferente perché l’autore avvia la sua narrazione con una serie di racconti tra loro eterogenei, apparentemente non collegati e tutti con un denominatore comune rappresentato da un legame indissolubile di ciascun personaggio con uno o più alberi e con la natura. Perché parlo di difficoltà? Perché i racconti sono otto con nove personaggi e si dipanano per quasi duecento pagine. A ciò si affiancano e susseguono una serie di capitoli tutti denominati con parti anatomiche dell’albero. La narrazione risulta pertanto priva di una vera e propria logica espositiva. Soltanto al termine di questa prima esposizione il puzzle viene ricostruito e trova la sua vera ragion d’essere, il suo vero fondamento. Il problema è che il lettore tende a stancarsi, tende a rallentare la lettura perché sfiancato da questo, perché è come se avesse perso più volte le coordinate. Non a caso, viene spontaneo fermarsi e chiedersi: “In quale parte dell’opera sono adesso”? Certamente il testo è conforme al cd. “realismo isterico” proprio del romanziere che è solito mescolare le carte, confondere le idee e alterare realtà e astrazione.
Il messaggio c’è tutto, l’amore per la natura si evince in ogni aspetto e non mancano momenti commoventi e poetici nonché spunti di meditazione, tuttavia, manca il prendere, da parte dell’autore, una posizione chiara e precisa e uno scorrimento più lineare.
Un elaborato non per tutti, eclettico, particolare, dai grandi contenuti ma non di facile lettura.
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Il sussurro, un po' criptico, del mondo
Premetto che è il primo libro di Powers che leggo e che, da naturalista ed ecologista appassionata, ho nutrito fino all’ultimo la speranza che il romanzo potesse convincermi dell’efficacia del messaggio che l’autore credo voglia trasmettere e che condivido.
Gli otto racconti iniziali, apparentemente disgiunti tra loro se non per il filo conduttore che li accomuna, ovvero la presenza di alberi che segnano la vita dei nove personaggi, non sempre sono convincenti e nemmeno memorabili. I successivi capitoli proseguono con il titolo preso da alcune delle parti anatomiche dell’albero, ma senza un preciso motivo, o almeno io non l’ho colto. Qui Powers continua a saltare da un personaggio all’altro senza seguire una logica esplicita, imponendo ogni volta un considerevole sforzo nel ricostruire a che punto del romanzo ci troviamo.
Lo stile della scrittura che riflette il genere letterario di Powers, definito forse non a caso “realismo isterico” si manifesta soprattutto in questa seconda parte dove si fatica spesso a distinguere il reale dall’astratto con un conseguente ulteriore sforzo necessario per seguire la trama già piuttosto intricata.
La scrittura è tuttavia spesso arricchita da interessanti spunti scientifici che lasciano intuire la conoscenza e l’amore di Powers per la natura e per la sua tutela. Non mancano momenti molto poetici e commoventi, citazioni colte e forbite e cenni ad eventi salienti della storia, come pure spunti di riflessione interessanti sul tema, tanto attuale quanto difficile da affrontare, della responsabilità dell’uomo nei confronti del cambiamento climatico e delle implicazioni etiche e sociali che esso comporta. Ed è proprio qui che Powers non mi ha convinto, non essendo in grado, a mio parere, di prendere una posizione chiara e decisa nei confronti della bontà e dell'urgenza dell’impegno ambientalista contemporaneo.