Il soccombente
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Solitudini diversamente estreme
…”Il soccombente è già stato messo al mondo come soccombente, È stato da sempre il soccombente”….
Tre pianisti e un incontro, un corso con Horowitz frequentato ventotto anni prima, per uno di loro, Glenn Gould, il pianista per eccellenza, naturale inizio di altro, per gli altri l’ abbandono di quello che avrebbe potuto essere un percorso brillante e virtuoso.
Da quel momento la caduta con vista sul precipizio, per Wertheimer un viaggio all’ interno della propria follia con un epilogo brutale ma necessario, per il narratore la rassegnata constatazione di un talento musicale non all’ altezza, per entrambi la certezza che non sarebbero mai stati degli artisti..
Due possibili virtuosi e un genio, loro che avevano ascoltato suonare le variazioni Goldberg nella sublime interpretazione di quell’ americano-canadese, una melodia che reca il timbro dell’ immortalità.
Come accettare e raccontare una vita non vita, fallimenti che attraversano la lenta implosione nelle scienze dello spirito e l’ inizio del proprio intristimento, il filosofo e il soccombente.
Di certo i due rinunciano a suonare il pianoforte perché non posseggono la grandezza di Glenn, ma come arrivare all’ auto annientamento dopo una conoscenza intellettuale basata sulle proprie differenze, benché con la medesima concezione dell’ arte?
Il narratore ricostruisce i fatti ricercandone le cause, ricordi, testimonianze, visite, colloqui, incontri, momenti famigliari, porzioni di vita, ipotesi, un senso claustrobico attraversa il racconto e si fa ossessione protratta, la bussola del tempo sostituta da un’ ossessione altra, l’ impossibilità di vivere il proprio fallimento all’ ombra di chi non ha bisogno di dimostrare, di simulare e dissimulare, del pubblico e del suo consenso, non nasconde fragilità, semplicemente e’.
Là genialità di Glenn Gould si auto rappresenta, un uomo con una grande autodisciplina, contrario alle imprecisioni, fanatico dell’ordine, che detesta quasi tutta l’ umanità non pensante come il suo pubblico e da esso si e’ ritratto trovando riparo fino alla morte in una casa americana in compagnia di Bach, che ama profondamente, la sua fine prematura e naturale si tingerà di beffa, sopraffatto dalla propria arte.
Il narratore e Wertheimer continueranno a frequentare la sua ombra, alimentando un rapporto di odio-amore.
L’ affannosa ricerca di se’ insegue spiegazioni improbabili in tempi e luoghi lontani, tra città e campagna, luoghi insalubri e inospitali, una disperazione che sa d’ infanzia, frammenti esistenziali, implicazioni freudiane, egocentriche, famigliari, gesti improbabili e accusatori, angusti spazi della memoria, inospitali stanze affettive ricolme di solitudine e di lontananza da chi si credeva appartenerci e che ci ha abbandonato per sempre.
La rappresentazione di una vita ( quella di Wertheimer) e l’ impossibilità di viverla, l’ onnipresente fantasma di Gould, interrogativi inquietanti, quanto la sua morte sarà la loro morte, un legame spezzato in un senso apparentemente insensato, è poi certo che siano stati annientati dalla sua figura e dalla sua grandezza?
In un crescendo di ripetizioni e di ossessive presenze, in cui il timbro della penna di Thomas Bernhard e la sua impeccabile costruzione scenica risuonano famigliari, nel tentativo di chiarire ciò che è evidente, si fa manifesto, celato da tracce sempre più evidenti, un senso condiviso di infelicita’ e di insensatezza, e ci si chiede quanto ciascuno rappresenti semplicemente la propria solitudine profonda, nell’arte, nella scrittura, in un ambito famigliare, ma forse, come diceva Glenn, …” siamo semplicemente ciò che siamo”…. era così sin dall’ inizio.
Quale l’ intreccio tra arte e vita, come un’ idea di perfezione può convivere con un’ imperfezione evidente, il senso di finitezza aspirare all’ assoluto in anni che hanno conosciuto l’ inconoscibile?
Impossibile fare chiarezza, indagare su timbri così diversi e complementari, una spiegazione possibile in quell’ inizio, l’ ascolto estasiato e silente dell’ inarrivabile interpretazione delle variazioni Goldberg eseguita da Glenn Gould, quando tutto pareva già scritto.
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Mutilati si sopravvive
“Il mondo è pieno zeppo di mutilati”
Romanzo apparso in Germania nel 1983, inaugura una trilogia dedicata all’arte e composta da “A colpi d’ascia” e “Antichi maestri”, dedicati rispettivamente al teatro e alla pittura, mentre questo scritto tratta della musica.
In realtà essa vi appare come mero elemento contestuale, indirettamente attraverso la finzione letteraria che le regala statuto da protagonista mescolando il dato reale: la grandezza del genio artistico di Glenn Gould, sintetizzata nelle “Variazioni Goldberg” di Bach, con il dato fittizio: la voce narrante e Wertheimer, il Soccombente, che con lui entrano in contatto.
Il narratore è fumoso, indefinito, irrisolto e alle prese con un dato di fatto, si sta accomodando nella vecchia locanda già frequentata con i suoi amici, dopo essere rientrato dal funerale di Wertheimer, morto suicida. Il suo lungo monologo assume subito la forma di pensiero intercalato ossessivamente dalla parola ”pensai” e mentre ripercorre la storia di questa atipica amicizia intellettuale, assistiamo allo sforzo di ricostruire una dissoluzione umana. Il suo obiettivo pare essere quello, in fondo, di farsi una ragione di quel gesto estremo. Lui stesso, promettente concertista prima del corso di Horowitz a Salisburgo, si ritrova a indagare le ragioni, in fondo, di tre fallimenti. Il primo è il suo: unico dei tre ancora in vita, ambisce a scrivere la biografia del grande Glenn Gould e si ritrova invece a scrivere di Wertheimer. Il secondo è quello di Glenn Gould, morto di musica quindi in certo senso fallito, schiacciato dall’arte. Ultimo è quello di Wertheimer, apparentemente il più cocente.
La costruzione della narrazione, come già da me constatato in “Antichi maestri” è geniale, lo stile, acido e dissacrante, un vero piacere, il contenuto gradevole, la sostanza invece immateriale, sfuggente, difficilmente catalogabile. Se dovessi esprimere in poche parole il contenuto di questo scritto direi che è la storia di tre destini schiacciati da un estremo senso di appartenenza all’arte: Gould per via della sua genialità, il narratore-Bernhard per l’estremo senso di inconcludenza che lo condanna alla scrittura, e infine il soccombente per via del suo contesto familiare.
Nel romanzo insomma si intrecciano tutti i motivi che stanno alla base della narrazione tipica dell’autore, geniale compromesso che gli permette di sopravvivere, beffardamente, su tutti, benché non perfettamente integro nemmeno lui.
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Cose di vita
Thomas Bernhard, oltre che a essere uno scrittore di grande rilievo rappresenta per me anche uno stile letterario a sé. Basta leggere una frase a occhi chiusi e, chi conosce un po' la sua prosa, lo riconosce. Contraddistinto dall'arte della esagerazione sia attraverso le dure parole utilizzate che dalla loro simmetrica ripetizione nell'interno della stessa frase ma anche lungo tutto il romanzo, nelle sue opere descrive principalmente lo sconforto umano, i drammi interiori, la disperazione umana. I suoi romanzi sono degli urli di Munch e Il Soccombente non fa eccezione. Vi si narra la storia di tre uomini, tra cui la voce narrante, Glenn Gould il famoso pianista-fenomeno realmente esistito, e il Soccombente. Tutti studiano insieme il pianoforte e tutti sono bravi, tranne Glenn che eccelle ed eclissa tutti. Ma essere soltanto bravo non basta per il nostro Soccombente, la sua competizione con l'eccellenza Glenn diventa autodistruttrice, o tutto o niente, non può accontentarsi di essere solo un bravissimo pianista, ma deve essere il migliore in assoluto. La voce narrante invece, accetta tranquillamente questa superiorità di Glenn e riconosce le sue insoddisfacenti predisposizioni artistiche verso il pianoforte dedicandosi quindi ad altro, andando avanti con la propria vita e nel libro rappresenta una bilancia tra Glenn, l'eccellenza, e il Soccombente. Osserva i percorsi di entrambi e soprattutto quello del Soccombente che duella con sé stesso per primeggiare. Artista si nasce, non si diventa e questo fatto non viene capito, nonostante il protagonista fosse un uomo intelligente, però troppo preso dal suo accecante narcisismo ed egoismo. La sconfitta non viene accettata e le conseguenze sono drammatiche. Il Soccombente non fallisce soltanto nel diventare il migliore pianista, ma fallisce anche umanamente. Questa sua mania di primeggiare non riguarda soltanto la sua passione per il pianoforte ma si estende anche sulle persone che lo circondano. Infatti, oltre all'ossessione per il pianoforte si osserva anche l'ossessione per la sorella dalla quale si aspetta la completa dedizione. Il soccombente, non sarà sconfitto soltanto nell'arte musicale ma anche in questa lotta con la sorella che si ribellerà e scapperà via, sposandosi.
Si avrà di fronte un personaggio che di certo non desterà la simpatia del lettore perché despota, intelligente ma nello stesso tempo di così anguste vedute, innalzato attraverso l'arte ma anche sprofondato nella bassezza dell'egoismo malsano e della sopravalutazione di sé, suscita il disprezzo ma anche la pietà.
Bernhard era un amante dell'arte e della musica, non ha mai suonato il pianoforte bensì il violino, e questo breve e intenso libro è anche un piccolo tributo alla musica, così come il suo "Antichi maestri" lo è alla pittura e "A colpi d'ascia" al teatro. La sua prosa è un fiume in piena, vertiginosa, intensa e ripetitiva. Non culla e non rassicura, non osserva il fiore in primavera che si schiude e non contiene amore, nemmeno la parola in sé, figurati il senso. Lui distrugge e sviscera fino allo sfinimento i suoi tenebri argomenti e chi lo legge o se ne innamora o lo abbandona. E' tra gli autori che non hanno lettori "di mezzo", neutri, ma divide nettamente così come fanno nelle loro opere. Io ne sono profondamente innamorata.
"Il bambino era stato gettato dalla madre in questo ingranaggio dell'esistenza, che implacabilmente faceva il figlio a pezzi. I genitori sanno perfettamente che l'infelicità ad essi connaturata la perpetuano nei figli, ma nella loro crudeltà vanno avanti a fare figli e a gettarli nell'ingranaggio dell'esistenza."
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Delirio narrativo
Testo narrativo delirante, che rispecchia in pieno la poetica nichilista del suo autore. L'io narrante ripercorre la vita, le ossessioni e le frustrazioni di Wertheimer, il " soccombente", che con lui e con il grande pianista Glenn Gould partecipò in gioventù ad un corso di perfezionamento in pianoforte a Salisburgo sotto la guida del maestro Horowitz. Non c'è una trama, un filo logico. Non ci sono capitoli, né punti e a capo. Solo puro flusso di coscienza, solo una lenta ed inesorabile discesa nell'abisso. Dominano le iterazioni, le epistrofi, quasi a voler rappresentare attraverso il linguaggio l'ossessione di chi, consapevole della propria mediocrità, non può che soccombere nei confronti del genio. Lettura sofferta e sofferente, che consiglierei solo a chi (ed io non ero fra questi) sa già cosa aspettarsi da Bernhard e ne condivide visione della vita ed incubi.
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Maniacalità distruttiva
Quando c'è passione per un'arte ci si può accontentare di coltivarla senza necessariamente essere i migliori, si può essere contenti delle proprie qualità anche se non sono propriamente eccelse. Ma quando il legame con l'arte in questione diviene viscerale, quando ad esempio un musicista non solo vuole "saper suonare" il pianoforte ma desidera addirittura "essere" il pianoforte stesso, allora non basta avere talento, non basta essere virtuosi, per stare in pace con se stessi bisogna essere dei geni, bisogna essere i numeri uno. Ma, è chiaro, non può che esserci un solo "migliore", agli altri non restano che due possibilità: continuare ad esercitare eclissati dalla sua ombra o gettare la spugna e abbandonare del tutto. E' questo ciò che succede ai protagonisti di questo romanzo di Bernhard. Tre amici studiano insieme al Mozarteum di Salisburgo sotto la guida del grande compositore russo Vladimir Horowitz, condividendo studio, casa e una passione maniacale per il pianoforte. Sono Glenn Glould, il "virtuoso", Wertheimer, il "soccombente" e la voce narrante, il "filosofo", di cui non conosciamo il nome. Sono i migliori allievi della loro scuola, tre grandi talenti, tre fenomeni. Ma soltanto uno di loro è il genio, solo Glenn Glould può essere il top, lui e nessun altro può essere considerato il più grande pianista del ventesimo secolo. Quando il canadese suona le Variazioni Goldberg per un pubblico composto solo dai suoi due compari questi si rendono conto dell'inarrivabilità del suo talento e, non volendo essere secondi a nessuno, scelgono di abbandonare la musica. Una decisione che è frutto, più che di invidia e rancore, dell’amara consapevolezza della propria inferiorità davanti al loro virtuoso amico. Ma mentre per il filosofo l'abbandono non avrà strascichi negativi, Wertheimer, da buon soccombente, inizierà una parabola discendente che, dopo una serie di sintomi di squilibrio, lo porterà a compiere un gesto estremo. Un incalzante monologo composto da un turbine di ricordi e pensieri che si susseguono e si accavallano senza tregua, con volute ripetizioni e sprazzi di amara ironia, che non segue una vera trama e non ha un classico finale, ma coinvolge e appassiona il lettore portandolo in zone spesso inesplorate della psiche umana. Un libro che dovrebbe far capire quanto possa essere pericoloso trasformare le passioni in manie e le aspirazioni in ossessioni, perché non solo le delusioni possono essere tragiche ma anche il successo frutto della maniacalità, come insegna il caso di Glould e del suo “radicalismo pianistico”, può portare alla distruzione.