Il Simpatizzante
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Recensione della Redazione QLibri
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Schizofrenia globale
Il romanzo Il simpatizzante, premio Pulitzer 2016, mette il dito su una ferita ancora aperta nel cuore americano: la guerra in Vietnam. L’autore lo sa fare con intelligenza in modo critico (ma nel finale la critica si diluisce e si disperde). In realtà quello che nella prima metà è un romanzo saggio sulla guerra in Vietnam e sui suoi retroscena diventa andando avanti soprattutto un Orwell ambientato nel passato e nel presente, cioè nell’attualità. Il romanzo porta il lettore a guardare il mondo con occhi disincantati, spietati, cinici senza trovarci un’ombra di umanità.
Il romanzo parte con il bellissimo incipit: Sono una spia, un dormente, un fantasma, un uomo con due facce. E un uomo con due menti diverse, anche se questo probabilmente non stupirà nessuno.
Il Capitano, l’io narrante, ci racconta di se stesso, un uomo con una natura doppia, padre europeo e madre vietnamita. Un uomo diviso dall’amore per la madre e dall’odio per il padre ( un prete che ha abusato della madre-ragazzina tredicenne). Diviso dalla sua razza che lo considera un bastardo, dai suoi parenti che lo trattano da inferiore. Ha al mondo due soli amici e un deserto affettivo e sociale da cui sa solo di voler emergere a ogni costo. “Promettimi che sarai migliore di tutti loro”, gli chiede la madre. Questo desiderio di farsi avanti è la molla che lo spinge, una molla spietata puntellata dall’odio più che dall’amore per la madre. Mai una volta il Capitano sembra muoversi all’insegna dei sentimenti. E’ sempre la sua mente divisa a dettare le regole del gioco, a suggerire cosa conviene e non conviene fare. Unica eccezione il rapporto con gli amici.
Il Capitano, fuggito dal Vietnam in America grazie a un alleato dell’esercito americano, analizza alla perfezione la società americana affetta dalla stessa schizofrenia,che affligge anche lui: l’ipocrisia ovvero la doppiezza. La società americana mostra una faccia amichevole e sorridente ma ha una mente nera e le mani sporche di sangue. Il Capitano odia questa società perché assomiglia molto a suo padre che spiegava alla gente i sermoni e la parola di Dio che non applicava. L’odio per il padre biologico si estende dalla società alla religione cattolica e alla parola di Dio (considerato una estensione del suo padre biologico). Il romanzo è pieno di citazioni religiose a scopo non religioso anzi allo scopo opposto di smontare/irridere il senso religioso. Quale ideologia potrebbe cullare l’odio per religione e per il capitalismo meglio del comunismo? Perciò il Capitano è una spia, un dormiente, un simpatizzante comunista. Lavora per il Vietnam del Sud ufficialmente ma fa la spia per il Vietnam del nord. In un certo senso per allontanarsi dal padre ne segue le orme ricalcandone la doppiezza. In fondo, gli verrà detto a un certo punto, basterebbe scegliere: tra nord e sud del Vietnam, tra capitalismo e comunismo, tra bene e male, tra essere un soldato o un amico. Ma di fatto il peccato originale del Capitano è non scegliere. Vivere nel solco di due vite vivendo sia l'una che l'altra a scapito degli affetti che non si può permettere perchè farebbero oscillare la sua identità. Unico suo lusso sono quei due amici.
Il Capitano è un Bastardo. Un Bastardo non solo dal pdv del DNA ma soprattutto dal pdv del comportamento con i suoi simili. Manda a morte i due personaggi migliori dal pdv umano del romanzo: un ufficiale gaudente e Son, il personaggio a lui più simile (come origini) ma in una versione idealista. Il Capitano è diviso anche interiormente: agisce ma ha una Coscienza, non trova piacere a tradire, spiare, uccidere. Il suo senso di colpa si esplicita nella insolita capacità di parlare con alcuni morti e fare beneficienza alla vedova.
In ogni caso avrà modo di espiare le sue colpe.
Il romanzo è intelligente, lucido, spietato. Mancano i sentimenti e gli ideali e in 500 pagine la mancanza del cuore pesa, nonostante l’autore compensi bene con la sua intelligenza brillante. Il mondo descritto è invivibile e insopportabile. Lucido il riferimento all’arte a al suo scopo didascalico e propagandistico. La visione del mondo è spietata a 360 °C. Non salva nessun uomo e nessuna ideologia. Il romanzo è freddo ma non disperato. Ha la freddezza di chi è ben consapevole che per sopravvivere occorre un coltello tra i denti ed è ben deciso a usarlo. In un certo senso una simile storia non riconcilia con il mondo e con l’umanità ma nega l’umanità. Afferma il nulla come unica cosa più importante della libertà e dell’indipendenza. Nega i sentimenti. E’ un romanzo raggelante. Forse esiste l’amicizia, ma il paio di amici che ci sono in 500 pagine non scaldano il cuore.
A me sono sembrate di troppo le ultime dieci pagine ( un po’ didascaliche) che accompagnano il lettore in modo superfluo, smorzando l’effetto del romanzo. Avrei terminato il tutto lasciando il lettore con indosso gli abiti leggeri e alla rovescia del niente, abiti che solo un Bastardo o un uomo senza faccia può indossare.
Un romanzo bello ma gelido che non riconcilia con il mondo e con la vita, anzi… Ne emerge un mondo disumano e senza speranza dato che l’unica speranza è sopravvivere. E i buoni ( Son) non ce la fanno. Ma forse non ne vale la pena.
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La guerra del Vietnam raccontata da un vietnamita
Nonostante in molti dicano che i premi letterari siano pilotati e che non sempre le opere migliori sono le premiate io continuo a seguire i maggiori riconoscimenti sicuro che qualcosa di buono prima o poi ne esce. Infatti, questo libro vincitore del premio Pulitzer per la narrativa del 2016 l’ho scoperto proprio in questa maniera.
Un libro bellissimo, scritto in maniera splendida, tradotto da Luca Briasco in maniera altrettanto splendida, con dei contenuti da libro destinato a restare nella storia del genere della guerra del Vietnam.
La storia è grossomodo la seguente: un agente dei servizi del Vietnam del Sud (filo USA) fa il doppio gioco al soldo dei servizi Vietnam del Nord (comunista), alla caduta di Saigon è costretto a scappare negli Stati Uniti in modo da mantenere la sua copertura e continuare la sua attività di agente infiltrato.
Tramite i suoi occhi e i suoi ricordi veniamo a conoscenza del punto di vista dei Vietnamiti su quello che è successo in quegli anni di guerra nel loro paese. Un punto di vista spesso zittito, a cui non è stata data la voce che invece gli americani si sono presi con il più grande mezzo di propaganda della storia: Hollywood.
In questo libro riusciamo a entrare nelle pagine della Storia dal lato vietnamita e a capire e notare molte sfaccettature di quello che successe all’epoca dei fatti, come funzionavano i vari apparati e come erano davvero i rapporti tra esercito USA e esercito Vietnamita.
Inoltre è molto ben descritta la vita delle migliaia di rifugiati politici vietnamiti che dopo la fine della guerra trovarono rifugio negli Stati Uniti con tutte le difficoltà e le nostalgie che si possono immaginare; un’altra bella sezione del libro è dedicata ad un’analisi lucida e spietata sull’industria cinematografica di quegli anni che tanto lucrò sul business del racconto della guerra del Vietnam e da cui tutti noi ha attinto per farsi un’idea di cosa sia stata. Beh, signori a quanto pare, e non c’è da stupirsi, la visione mostrata nei filmoni hollywoodiani è alquanto di parte e con questo libro si ha una migliore capacità critica di quello che si vede e si ascolta su queste vicende.
In conclusione questo è un gran bel libro, scritto in maniera magistrale, che apre gli occhi su tanti avvenimenti storici recenti e non solo; questa è anche una splendida spy story, di quelle reali di quelle senza esplosioni o effetti speciali ma ben più vera e reale.
Ho sottolineato un’infinità di brani, definizioni di cosa sia stata quella guerra, di come si sia evoluta e di cosa abbia lasciato alle sue spalle. Libri come questi sono la linfa che tiene in vita la mia voglia di leggere, imbattersi in tali opere anche solo un paio di volte l’anno giustifica la mia continua ricerca di questi.
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Caos
Che si tratti di una scelta stilistica ben precisa di Nguyen o che sia solo il frutto di storture secondarie al lavoro di traduzione, adattamento ed impaginazione, purtroppo la fruizione di questa lettura è resa ostica dalla forma.
Dopo una breve quanto drammatica presentazione del protagonista (coincidente con l’io narrante), si è improvvisamente travolti da una vertiginosa “sbobinatura” di pensieri, dialoghi, azioni, descrizioni di dettagli che si susseguono in rapida successione.
Ad aggravare la sensazione di apnea, secondaria alla scelta di stipare ogni pagina di lettere stampate con pochissimi spazi bianchi (le pause sono importanti quanto le note in una sinfonia), si scopre da subito un uso massiccio del discorso diretto libero. Un espediente quest’ultimo che priva ogni dialogo presente nel testo di qualsivoglia indicatore grafico, seppellendolo nel caos indistinto di una selva di parole.
Per quanto riguarda il contenuto l’impressione per il lettore è quella di essere vittima di una involontaria, maldestra intrusione in una vita altrui, dove di tutto ciò a cui si assiste, poco si comprende a fondo mentre tanto si cerca di intuire con fatica.
Il racconto non manca di evocare la brutalità del conflitto, eppure la prospettiva troppo incentrata sul protagonista ci priva di una visione più ampia e speculativa sul contesto della Guerra del Vietnam.
L’io narrante è quasi egoista nel negarci uno sguardo sugli scenari e sulle genti che hanno vissuto in primo piano le vicende belliche, troppo concentrato ad eviscerare la propria introspezione e a recitare mestamente le sue gesta che inoltre si rivelano ben poco coinvolgenti.
Forse l’unica vera nota positiva, di un romanzo a mio parere deludente, sta invece nel lessico, piacevolmente ricco e costellato di molteplici similitudini e metafore.
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- sì
- no
Au revoir, Saigon
“Abbiamo atteso a lungo il grande romanzo sulla storia del Vietnam, e ora eccolo, è arrivato.” I Veterani Vietnamiti d’America
Francamente, anche io da qualche anno aspettavo questo libro, dai tempi di un viaggio in Vietnam che mi lasciò con qualche interrogativo di troppo. Di un popolo che, a casa propria, non mi parve ostile ma nemmeno molto accogliente. Chiuso in se stesso, decisamente coriaceo, ben protetto da un carapace inossidabile. Un popolo forte, che alla già tremenda guerra intestina tra Nord e Sud, dovette resistere anche all’incursione statunitense. Una sconfitta clamorosa, l’Agente Arancione e il Napalm non portarono vittoria, senza il supporto del fatidico bottone.
Decenni dopo, una sorta di tensione si avverte ancora, eppure non è semplice trovare una lettura che sezioni la mente vietnamita, dal punto di vista vietnamita. Almeno fino all’incontro con un recentissimo, meritatissimo Pulitzer alla narrativa: Viet Tanh Nguyen.
Sebbene di un romanzo si tratti, chiamarlo romanzo mi è difficile. La sensazione è di sminuirne il peso e l’apporto, perché’ alle spalle della trama di questo sud vietnamita, spia Vietcong infiltrato negli Usa, si cela un testo dal taglio psicologico colossale. Satirico, il lavoro di Nguyen è tragicamente polemico su più fronti. Fortemente su quello americano, spaziando dagli orrori sul campo di battaglia alla realtà successiva alla caduta di Saigon, tra i profughi fuggiti e rifugiati e le manipolazioni Hollywoodiane, alabarda dei perdenti che stavolta scrissero la storia. La critica non sottrae elementi al fronte vietnamita stesso. Ci si chiede, patetici e storditi, ha senso lottare per libertà ed indipendenza imponendo sterminio e tortura?
L’autore, docente universitario a Los Angeles, è un vietnamita d’America, fuggito con la famiglia da Saigon nel 1975 all’età di quattro anni e vissuto per tre anni in un campo profughi in Pennsylvania.
E io ancora fatico a chiamarlo romanzo, perché’ la rabbia di questo libro non è inventata. Perché’ la bella scrittura non è sufficiente a velocizzare lo scorrere della lettura, che ho vissuto in maniera lenta, approfondita, i canini affilati dietro le lenti.
È un libro freddo, dove non si salva nulla se non forse l’amore materno e guarda caso le urla più strazianti, sul campo, sono quelle che i soldati smembrati dalle mine, di qualsiasi fazione, rivolgono sempre e solo a lei, la mamma.
Non c’è calore se non tra le fiamme, non c’è odore se non sotto l’oltraggio di un pesticida, non c’è colore se non in quel mortale scarlatto, non c’è luce se non nell’abbaglio accecante di una cella di rieducazione, non c’è pietà e non c’è perdono. Niente. Niente e’ la chiave di tutto.
C’è che per parlare di una guerra ancora viva in un popolo, non sempre si può premere sulla tastiera del sentimento, talvolta bisogna lasciarsi irrigidire da un vento gelido. La penna e’ esperta, l’analisi competente, le radici ben affondate. Gli spigoli di quella corazza non saranno oggi più dolci di ieri ma arrotondati sì dallo scalpello di un nativo, rispettati ancora di piu’ da una straniera come tante perche’ “ il Vietnam non e’ una guerra, e’ un Paese”.
Au revoir, Saigon.
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"Più prezioso dell'indipendenza e della libertà è
E' un romanzo bellissimo sul meticciato come inevitabile condizione della contemporaneità. Il protagonista è un personaggio doppio fin dall'origine: figlio illegittimo di un sacerdote francese e di una cameriera vietnamita, dichiara lui stesso che la sua condizione lo porta a capire le culture altrui, al di là della divisione amico/nemico: "se col tempo ho imparato che passare sopra le differenze tra noi e gli altri può essere altamente meritevole, lo devo a mia madre. Dopo tutto, se non avesse trascurato le differenze tra una cameriera e un sacerdote, o se non avesse lasciato che queste differenze venissero meno, io non sarei venuto al mondo". Divenuto comunista convinto, a partire da una spinta di tipo nazionalista, viene mandato a studiare, con l'acribia di un antropologo, la mentalità americana, e si serve di questa competenza per svolgere al meglio la funzione di spia infiltrata per conto dei vietcong nello staff del generale in capo della polizia sudvietnamita, insieme al quale fugge in America dopo la caduta di Saigon, continuando a informare i servizi segreti vietnamiti dei tentativi di revanche degli esuli. Ma le cose si complicano per tre motivi: il capitano finisce per avvertire il fascino della cultura americana che ha acquisito almeno quanto quello della cultura vietnamita ( a sua volta frutto di molte ibridazioni) in cui è cresciuto; alla fedeltà alla causa si aggiunge, e a volte si contrappone, il patto di sangue da cui si sente vincolato con due amici, uno dei quali è il suo capo, ma l'altro è un convintissimo ex membro degli squadroni della morte sudvietnamiti; per svolgere al meglio il suo compito di informatore deve anche confermarsi come il più fidato dei collaboratori del generale nel cui staff è infiltrato, e questo lo porta per due volte a determinare la morte di persone innocenti. Per giunta le sue esperienze lo mettono a contatto con gli eventi (dalla fuga dei boat people alle vicende della Cambogia, alla guerra tra Vietnam e Cina) che determinarono in Occidente nella seconda metà degli anni '70 un rapidissomo eclissarsi del mito del Vietnam. Per questo il finale, che non rivelo, e in cui il trio degli amici che avevano stretto a 14 anni il patto di fratellanza di sangue finiscono per ritrovarsi, è costruito su un amaro e dissacratorio rovesciamento della famosa frase di Ho Chi Minh: da "niente è più prezioso dell'indipendenza e della libertà" a "più prezioso dell'indipendenza e della libertà è il niente".