Il signore degli orfani
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La manipolazione del reale
Il Signore degli Orfani – Adam Johnson – 2012
SPOILER
"Io ero terrorizzato, stavo per piangere. Mio padre disse: - Vedi, la mia bocca ha pronunciato quelle parole, ma la mano, la mia mano, stava tenendo la tua. Se tua madre dicesse qualcosa del genere su di me con l'intento di proteggere voi due, sappi che io e lei, dentro di noi, staremmo comunque tenendoci per mano. E se un giorno dovrai dire a me qualcosa di simile io saprò che in realtà non sarai tu a dirlo. Perché dentro, dentro, padre e figlio si terranno sempre per mano - " (pag.253)
Lettura di gruppo e vincitore del premio Pulitzer per la narrativa nel 2013.
Ma non posso fare a meno di applaudire al fatto che questa lettura sia venuta dopo quella di "Il Mondo Nuovo" di Huxley.
È la storia della vita (breve) e delle esperienze (per lo più brutte, a tratti orrende) di Pak Jun Do, Corea del Nord.
Cresciuto in un orfanotrofio, benché abbia entrambi i genitori (la madre, cantante di successo, viene costretta a trasferirsi nella capitale e non se ne sa più nulla, il padre è il direttore dell'orfanotrofio) il protagonista è fin da subito a contatto con la fame, il freddo, la sofferenza e la morte.
Ma più ancora – ed è il dato che mi ha maggiormente colpito – è la forza dell'abitudine che fin da bambino il protagonista fa a tutto quello che lo circonda: "Prima erano lì e poi non c'erano più, portati via chissà dove, come Bo Song. Questo pensava, della maggior parte della gente: comparivano nella tua vita come trovatelli sulla porta di casa e poi venivano spazzati via come da un'inondazione."
Presto però comincia ad avere un ruolo più fattivo: è lui a dare il nome agli orfani (sono i nomi dei martiri della "rivoluzione"), è lui a scegliere a chi toccherà un lavoro particolarmente faticoso o pericoloso. È lui che imparerà, con un'occhiata, a riconoscere quali bambini se a caveranno e quali no (e ad accorgersi di volere più bene ai secondi). Attraverso la descrizione di situazioni in cui la differenza fra la vita e la morte è data da un posto dove dormire più vicino al corridoio (più freddo) o al centro della camerata (più caldo).
Ci sarebbe poco altro da raccontare, oltre a questa invadenza e banalità della morte, se non fosse che non ci troviamo in una situazione di "normale" povertà o carestia. Ci troviamo in un regime che alla povertà e alla carestia unisce la necessità di trasmettere il messaggio che tutto va bene e che ci si trovi nel migliore dei mondi possibili.
Naturalmente questo viene ottenuto attraverso una pesante manipolazione della realtà e un severissimo apparato repressivo. Questa presenza manipolatrice e controllante è presente ovunque: nei discorsi dagli altoparlanti, nelle storie edificanti che vengono narrate, nelle capre che pascolano sui tetti, giù giù fino ai rapporti fra gli individui, fra colleghi, amici, coniugi, genitori e figli.
In questa realtà surreale, dove niente di quello che accade sembra essere vero e niente di quello che è vero sembra concepibile, si muove il nostro giovane protagonista.
Dapprima, viene addestrato per il combattimento al buio in tunnel sotterranei che varcano il confine con la Corea del Sud. Successivamente viene "promosso" e inviato a rapire cittadini giapponesi e sud coreani. Segue l'unica parentesi leggermente lieta della storia, cioè il periodo in mare sul peschereccio Junma.
Pak Jun Do, incaricato di intercettare comunicazioni radio "nemiche" passa molti mesi con l'equipaggio. "Aveva sempre trascorso la maggior parte della sua vita cercando di starsene da solo, ma c'erano momenti, a bordo della Junma, in cui si sentiva una parte, e questa sensazione veniva accompagnata da una soddisfazione che era non dentro di lui, ma tra lui e gli altri."
Il comandante, in particolare, rimarrà nel cuore e nei pensieri del protagonista (e non solo). Così come i pescatori, con il loro uso di tatuarsi sul petto il ritratto della moglie.
Lo farà anche il nostro, pur non avendo una moglie, per non creare sospetto in caso la nave venisse intercettata da "nemici". Non avendo moglie, Pak Jun Do decide di farsi tatuare il volto della notissima attrice Sun Moon, moglie del Comandante Ga, braccio destro del "Caro Leader".
Un paio di fatti molto gravi turbano per sempre i bei momenti sulla Junma: l'incontro con una nave americana e la – successiva – diserzione del secondo ufficiale.
In entrambi i casi, la parte più surreale è quella in cui tutto l'equipaggio si mette a concordare una "versione ufficiale" da fornire alla autorità per evitare di finire in prigione (che scopriremo essere destino peggiore della morte). Perché il tutto comincia in sordina e riecheggia quelle storielle infantili/adolescenziali che si organizzavano in gruppo per darla a bere a genitori o insegnanti ("diremo così... faremo credere che... se ci chiedono... noi rispondiamo che..."), ma piano piano assume contorni sempre più drammatici.
Pak Jun Do, in particolare, deve procurarsi ferite da morso di squalo per avallare la storia inventata dall'equipaggio (che peraltro non ha fatto nulla di male, ma sa che potrebbe non essere creduto).
Il nostro protagonista in qualche modo se la cava e viene spedito niente meno che in missione negli Stati Uniti! Qui cerca di espiare i crimini commessi (fornisce una lista dei cittadini rapiti o uccisi) e cerca di far capire qualcosa del suo incomprensibile mondo ai cittadini americani.
Ma la missione, dal punto di vista della Corea del Nord, è un fallimento, quindi, nonostante le versioni da fornire inventate e collaudate mille volte, il nostro viene imprigionato.
Queste pagine sono molto dure.
E sono le migliori di tutto il romanzo.
Il "Virgilio" di Pak Jun Do in questo orrendo girone infernale è la vecchia Mongnan, fotografa della prigione. Grazie a lei il nostro apprende mille trucchi per sopravvivere e mille e uno motivi per voler morire. Ritroverà per brevi attimi il comandante della Junma ed incontrerà persino il potentissimo Comandante Ga.
E lo ucciderà.
Da qui prende l'avvio la seconda parte, in cui il nostro protagonista assume l'identità del comandante Ga. L'ennesima finzione a cui tutti fingono di credere. Dal Caro Leader alla famiglia di Ga.
Attraverso storie edificanti e verbali di interrogatorio, fino al finale.
Alcune parti di questo romanzo mi sono piaciute molto.
Su tutte quelle sulla Junma, con cieli e mari e uomini capaci di far provare qualche ramingo pensiero umano anche in un tale deserto di umanità. Quelle della prigionia e delle torture perché vi ho trovato qualcosa che mi ha rievocato Primo Levi. Lucide, precise, ma mai compiaciute. A volte quasi "banali" di quella che Arendt chiamava "banalità del male."
Le manipolazioni della realtà, del regime per soggiogare gli uomini e degli uomini per compiacere il regime. Le bambine vestite di bianco del Compagno Buc che mangiano le pesche sciroppate.
Meno riuscite, secondo me, le parti più sentimentali. Onestamente la figura di Sun Moon non mi ha detto molto, se non che è stata ricalcata pari pari sulla sconosciuta madre del protagonista e forse per questo così amata? Non so, sentirò il dottor Freud.
Per il resto non so se avrei letto senza l'input del gruppo di lettura.
So che l'autore è stato in Corea del Nord e certamente è ben documentata ogni sillaba che scrive. Tuttavia, a tratti, ho percepito un tono leggermente "paternalista" come se l'autore appartenesse (e noi stessi appartenessimo) a realtà incommensurabilmente diversa da quella della Corea del Nord e – soprattutto – che il rischio di trovarsi in un regime del genere fosse più che abbondantemente superato, ammesso che fosse mai esistito.
Be' c'eravamo poco più di cinquant'anni fa, in molti posti ci sono ancora e non è che se mi guardo attorno i segni siano molto rassicuranti.
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Quel leader tanto caro
Il libro si divide in due parti: la prima in cui l'autore descrive la vita del protagonista Jun Do, orfano, o comunque cresciuto con gli orfani in una situazione terribile, e la sua carriera al servizio del caro leader prima come rapitore di giapponesi poi come spia su un peschereccio. Questa parte del romanzo è molto bella anche se molte situazioni si comprendono solo in parte e solo in seguito. E' come osservare il mondo esterno da dentro un tunnel senza riuscire ad avere la piena comprensione di nulla. Il mondo arriva sotto forma di immagini quasi oniriche: la vogatrice nuda che rema di notte, la partita a scacchi tra russi e americani. Anche la vita di Jun Do arriva al lettore con lo stesso linguaggio: la pesca degli squali che vengono privati delle pinne e ributtati in acqua dove sprofondano vivi negli abissi a occhi spalancati, il mare che si riempie di scarpe Nike che sembrano piovere dal cielo, l'arrivo a bordo degli americani che si impietosiscono per i mezzi rudimentali dei nemici, le bugie che devono essere inventate per far passare la tragedia di un'immagine del Caro leader trafugata dagli americani. Bellissime le bugie che si inventano e il modo in cui le dicono. L'idea del tatuaggio della donna amata da portare sul petto come un'impronta sul cuore per la vita.
Questa è la parte più interessante del libro, quella più ricca dal punto di vista dello stile, delle immagini, delle suggestioni e per cui l'autore si è documentato 7 anni in Corea. Come abbia fatto a documentarsi e a sopravvivere meriterebbe un altro romanzo, credo.
A partire da questa base interessantissima si innesta la seconda parte che è una storia più d'azione, più fantasiosa, più filo-americana che a me è piaciuta molto, molto meno. Quella in cui il protagonista uccide il Comandante Ga, sadico e sterminatore di omosessuali, nonchè marito dell'attrice SunMoon che il protagonista porta tatuata sul petto. Il protagonista si sostituisce a Ga, la sostituzione fa comodo sul momento al caro leader per cui passa senza conseguenze immediate e Yun Do progetta la fuga se non sua almeno di Sun Moon e dei suoi figli. Questa seconda parte è troppo infarcita d'azione, sentimentalismo, inevitabile filo americanismo per i miei gusti. Molto da Oscar.
Ma la prima parte è molto bella e interessante. In ogni caso è incredibile come il caro leader sia riuscito a imporre un regime feroce e disumano basato sul terrore, sulla schizofrenia, sulla menzogna, sull'incoerenza, sulla fame e sulle torture che ha pochi precedenti nella storia per il livello di crudeltà.
Le persone sembrano come gli squali: privati delle pinne sprofondano negli abissi a occhi spalancati, senza poter far nulla e senza quasi credere ai loro occhi.
"Ero piccolo" disse. "Ero andato a fare una passeggiata e mi ero perso. I miei genitori erano un po' distratti e non si erano accorti che mi ero allontanato.Vennero a cercarmi ma era troppo tardi, ero troppo distante. Si levò un vento freddo che disse:Avanti ragazzino, dormi tra le mie lenzuala bianche e fluttuanti, e io pensai: Adesso morirò congelato. Corsi via per sfuggire al vento e il pozzo di una miniera disse: Vieni e riparati qui sotto, e io pensai:Adesso morirò sfracellandomi. Corsi via nei campi dove viene buttata la spazzatura e dove vengono lasciati i malati. Lì un fantasma mi disse: Fammi entrare ti scalderò da dentro, e io pensai: Adesso morirò di febbre. Poi arrivò un orso e mi parlò, ma io non conoscevo la sua lingua. Scappai nei boschi e l'orso mi inseguì, e io pensai:Adesso verrò divorato vivo. L'orso mi prese tra le sue braccia e mi tenne vicino al suo muso. Usò gli unghioni per pettinarmi. Intinse la zampa nel miele e la portò alle mie labbra. Poi disse: Ora imparerai a parlare il linguaggio degli orsi e diventerai come l'orso e sarai al sicuro.
Tutti riconoscemmo la storia che viene raccontata a tutti gli orfani, in cui l'orso rappresenta l'amore eterno di Kim Jong II.
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Una distopia reale.
Avete presente 1984 di Orwell?
Probabilmente sì, lo avrete letto e anche apprezzato.
Probabilmente non avete però immaginato che i meccanismi perversi di uno stato totalitario e feroce, come quello disegnato da Orwell, siano in realtà molto più concreti di quanto un romanzo possa mai suggerire.
Nel XXI secolo è sufficiente girare il mappamondo fino a fermarsi sulla Corea del Nord. Lì, in questo momento, l'incubo di Orwell è quotidianità.
E' la prima impressione che ho avuto dalla lettura de " Il signore degli Orfani", vincitore del premio Pulitzer 2013. Questo libro non è semplicemente un romanzo, un racconto fantasioso e metaforico su di una astratta dittatura del futuro.
Questo libro vuole essere anche un documentario, un racconto realistico, frutto di ricerche, dei racconti di sopravvissuti e disertori, di un viaggio pericoloso in quel paese oscuro al resto del mondo per raccontare un po' di verità.
L'autore, un celebre giornalista statunitense che si è appassionato ai misteri del regime nordcoreano, ha voluto fondere le fonti di informazioni a sua disposizione in un unico racconto, al fine di proiettare il lettore nelle feroci dinamiche di uno stato che tutto vuole e tutto controlla, privando anche il più innocente delle creature della propria dignità.
Ed è infatti dall' infanzia di un piccolo coreano che viene a svilupparsi l'intreccio. Pak Jun Do viene cresciuto in un orfanotrofio, il padre lo dirige ma non può né vuole riconoscerlo, la madre è stata costretta ad abbandonare la famiglia per le più perverse politiche nazionali.
Vive di stenti, di lavoro e di fatica. Cresce vedendo gli altri bambini morire e subire i più indicibili soprusi fin quando non è abbastanza grande per andarsene, iniziando una vita che non sarà altro che lo specchio della sua infanzia. Lui, come tutti gli altri suoi connazionali, non ha futuro proprio perché non ha libertà. E' orfano della libertà.
Sono i pochi al potere a decidere per lui, tracciando un sentiero lastricato di falsa propaganda ed ipocrisia, di fame e di bugie a cui nessuno crede ma che tutti danno per vere, fino a rendere l'uomo un automa, un perfetto cittadino nordcoreano ma un pessimo essere umano.
Le pagine si susseguono amare e a volte poco digeribili, Johnson non ha paura di proiettare il suo protagonista in una serie di eventi raccapriccianti, forse troppo numerosi per accadere tutti ad un'unica persona. Il suo scopo non è però quello di rendere Pak Jun Do un uomo reale, bensì di renderlo sintesi e simbolo delle condizioni di un'intera nazione.
La scrittura è a tratti ruvida e pesante, manca di quella leggerezza o di quel gusto poetico che di solito cerco in un libro. Sotto questo aspetto non l'ho apprezzata , anche se devo ammettere che è più adatta al tenore delle situazioni rappresentate.
Quanto al contenuto, la lettura mi è piaciuta, non posso non ammetterlo. E' stata terribilmente affascinante e sconcertante allo stesso tempo.
Poter visitare tramite gli occhi di Pak jun Do le strade della capitale nordcoreana, le sue abitazioni ed abitudini, le sue perversioni, i suoi campi di concentramento e di tortura fa molto riflettere. E' mai possibile che nel 2014 ancora esistano luoghi del genere? E' mai possibile che Orwell sia stato profeta inconsapevole della più dura dittatura esistente?
Chiusa l'ultima pagina ho capito una cosa: la libertà è tanto più dolce quanto è amara conquistarla.
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Il nostro Caro Leader (che assomiglia non dico a
Se questo fosse un libro di fantascienza, sarebbe uno di quei romanzi distopici così di moda che ti lasciano in bocca il gusto del "poteva essere, ma per fortuna no".
Invece non lo è, è realtà. E' la Corea del Nord, realtà dimenticata se non fosse per qualche sparata atomica di suoi leader e nei confronti del quale lo scrittore ha condotto, anche d persona, indagini approfondite.
Il romanzo, premio Pulitzer 2013, è alienante, appassionante e vivo. Il suo protagonista, uomo del regime, orfano e militare, indottrinato dalla nascita dall'unica radio di stato, non si arrende, cerca la libertà a livello epidermico pur senza conoscerne l'effettivo significato.
Bello, intenso, disturbante. Da leggere.
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Deludente
L'argomento trattato mi attraeva moltissimo ed inoltre sapendo che aveva vinto il Pulitzer non vedevo l'ora di leggerlo; per questo forse la mia delusione è risultata maggiore!
Scritto in maniera che, almeno a me, è risultata pesante, confusa, con dialoghi così mal orchestrati che talvolta ho avuto difficoltà a capire chi pronunciasse quelle parole. È vero che ci fa intuire le assurde condizioni di vita, arretrate di almeno 50 anni, del popolo Nord Coreano ma la storia non appassiona, non coinvolge e soprattutto la seconda parte (con la sovrapposizione fra i due personaggi e l'io narrante della Dittatura) mi è risultata pesante e non scorrevole tantoché più volte sono stato tentato di abbandonarlo. Insomma sarò stato io a non capirlo ma vi garantisco che arrivare alla fine è stato davvero duro.
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IL SIGNORE DEGLI ORFANI
E’ incredibile come ancora oggi, possa esistere un paese come la Corea del Nord, con una qualità della vita come quella descritta in questo libro. Di questo paese non sappiamo quasi nulla, se non qualche veloce notizia data da qualche notiziario, che riguarda spesso qualche affronto militare ai danni dei paesi confinanti. Grazie a questo sorprendente testimonianza si ha finalmente la possibilità di sapere qualcosa di più, dal punto di vista della quotidianità e del loro stile di vita. Molte cose sono talmente assurde che è difficile credere che ancora oggi con l’avvento di internet e di altri mezzi di comunicazione, un popolo venga tenuta in un tale isolamento.
Il romanzo narra la storia di un comune cittadino nord coreano costretto a subire, come purtroppo milioni di altre persone, un regime totalitario che controlla ogni cosa, compresa la mente delle persone. Assegnato a lavori umili, riuscirà con caparbia ad entrare gradualmente in contatto con il leader supremo della dittatura nord Coreana, il così detto “Caro Leader”. Pak Jun Do, questo è il suo nome, sarà bravo a sfruttare le assurdità ed incongruenze di questo regime, per arrivare quasi al vertice dello stato, fino a sfidare con la propria intelligenza la carica più alta del paese.
Ho trovato questo romanzo molto interessante dal punto di vista dell’argomento trattato, ma non l’ho apprezzato altrettanto per lo stile di scrittura, trovandolo in alcuni momenti un po’ macchinoso nei dialoghi e nella situazioni. Mi sarei aspettato, visto i premi che ha vinto, una fluidità ed efficacia maggiore. Diverse pagine mi sono sembrate ininfluenti sulla dinamica della storia e hanno finito per appesantire il romanzo.
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un premio meritato
Ho deciso di intraprendere la lettura di questo romanzo senza informarmi troppo sulla sua trama, non ho cercato opinioni questa volta, mi sono affidata al solo quarto di copertina e al fatto che questo romanzo abbia vinto il “premio Pulitzer 2013” (premio che VERAMENTE è assegnato ad ottime opere letterarie).
Ebbene, le attese non sono state affatto disilluse. Al contrario, questo romanzo è veramente molto molto bello, uno fra i più belli e compositi letti recentemente.
Il romanzo è ambientato nel presente (anche se a tratti pare un altro mondo e un’altra epoca), nella Corea del Nord o meglio nella Repubblica Democratica Popolare di Corea. Chi governa il paese è il Caro Leader, Kim Il-sung. Lo scrittore non ha utilizzato pseudonimi. Presumo questa scelta sia stata fatta proprio per dare più forza a questo romanzo. Sostanzialmente, infatti, questo romanzo è prima di tutto un forte grido di denuncia (nemmeno minimamente velata) alla dittatura perpetrata in questo paese. Alla situazione politica, economica e sociale cui gli abitanti nord-coreani sono sottoposti. Le dittatura di stampo comunista di questo paese, con la disillusione di creare uguali diritti per ogni cittadino, ha finito invece con il privare ogni uomo, donna e bambino della propria individualità. Non intendo disquisire su questo argomento, non è assolutamente mia intenzione discutere sulle ideologie politiche ispiratrici delle tante (ahimè) dittature malate presenti tutt’ora nel mondo . Voglio solamente descrivere ciò che viene prepotentemente denunciato in questo romanzo: la negazione e violazione di ogni diritto umano e la conseguente perdita di importanza della vita di ogni singolo individuo. Un episodio tra i tanti descritti nel romanzo: vengono fatti prelievi di sacche di sangue sugli anziani e sui malati gravi, portandoli in questo modo a morte più veloce. Ma tanti, troppi, gli episodi ignobili narrati in questo romanzo che seppur romanzo è, racchiude dentro se tante tristi verità.
Il romanzo è suddiviso in due parti. Nella prima ci viene presentato Jun Do. Orfano di madre, vivrà in orfanotrofio finchè lo stato non gli assegnerà il compito di rapire cittadini Giapponesi e poi quello di spia su un peschereccio con l’incarico di captare segnali radio. Jun Do si ritroverà poi suo malgrado imprigionato nella Prigione 33. Un campo di lavori forzati dove incontrerà il Comandante Ga.
Nella seconda parte del romanzo il punto di vista cambia. I capitoli si alternano tra loro in sequenza narrati da tre punti di vista diversi. Non posso parlare di altro, non posso farlo per rispetto a chiunque sia intenzionato a leggere questo romanzo e spero siano tanti.
Sappiate solo che si ritrovano pagine anche di amore. Ma non solo l’amore tra un uomo ed una donna, ma anche l’amore genitoriale e figliare. Vi sono analisi anche sul significato profondo dell’amore. Su cosa e possa rappresentare questo sentimento per ognuno di noi. In quali e quanti modi possa manifestarsi lo stesso sentimento.
Lo scrittore ha utilizzato uno stile narrativo proprio, semplice ma incisivo nello stesso tempo. Nonostante le 550 pagine la lettura non stanca mai, non si trovano pagine “cuscinetto”. Ogni singola pagina custodisce dei particolari che arricchiscono questo romanzo. La maestria di questo autore sta nell’essere riuscito a creare un romanzo che racchiude al suo interno innumerevoli temi e nell’averlo fatto con naturalezza. Ogni pensiero è perfettamente adagiato accanto ad una altro. Nonostante spesso via siano salti temporali e spaziali, mai una volta si ha la sensazione di perdita del filo logico.
Come ho già accennato ho adorato questo romanzo per la sua “naturale” complessità. Lo scrittore ci prende per mano e ci guida attraverso questa vicenda e lo fa senza lasciare nulla al caso.
Sicuramente questo romanzo è frutto di un’enorme lavoro intellettuale. Nonostante sicuramente l’autore abbia indiscusse doti narrative, si percepisce il perfetto lavorio fatto per creare omogeneità in questa vicenda assai complessa. Si ritrovano situazioni veramente dure e tristi, ma purtroppo drammaticamente plausibili. Non è un romanzo dai contenuti semplici, non è una lettura di svago certo, ma è una lettura profonda e che sicuramente arricchisce. A tratti con spunti filosofici sul tema della morte e dell’amore.
Un ultima riflessione sulla copertina: perfino essa nasconde un significato particolare. Ho trovato meravigliosa questa immagine.
Vi consiglio assolutamente questo romanzo con un appunto: se siete alla ricerca di una lettura leggera rimandate. Credo questo romanzo vada affrontato in momenti in cui la nostra mente brama riflessione, non ha paura del dolore e della tristezza.
Ma se amate leggere non privatevi di questa romanzo.