Il sangue di san Gennaro
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Napoli vista con gli occhi e con il cuore
Non avevo mai letto nulla di Sandor Màrai, scrittore ungherese più noto per il romanzo Le braci ed è quindi con particolare curiosità che mi sono accostato a “Il sangue di San Gennaro”, libro frutto di esperienze e conoscenze maturate nel periodo dal 1948 al 1952 in cui, esule dall’Ungheria ormai oppressa dal comunismo sovietico, visse a Napoli, prima di emigrare negli Stati Uniti.
Dico subito che è un’opera del tutto particolare, che presenta le caratteristiche del romanzo, e quindi dell’invenzione, ma che riflette anche la condizione dell’autore, forzatamente esule. Marài, uomo mitteleuropeo, non poteva non restare colpito dalla città partenopea e soprattutto dai suoi abitanti, così lontani dal suo ambiente geometrico, schematico, quasi perfetto da far insorgere spesso la noia.
Scrive, descrive, presenta tutta una serie di personaggi che potremo anche ritrovare in certe commedie di Eduardo De Filippo; in una miseria atavica, che la guerra ha accentuato, si affacciano via via comparse ben delineate, figure a cui il narratore si rivolge con affetto e talora con ironia, ma non si tratta di stilemi, non sono frutto di luoghi comuni, anche se inevitabilmente questi ci sono, perché costituiscono una caratteristica della maggior parte dei partenopei. In ogni caso, Marài ha un occhio benevolo, così che l’eventuale pietà per un popolo condannato all’indigenza si trasforma in una carica umana ed emotiva palpabile, perché questi protagonisti, che campano alla giornata, mai chiedono e sempre danno, danno il loro desiderio di vivere, danno il piacere di due parole, gratificano di un sorriso e mai, dico mai tendono la mano. Sì, accettano il piccolo obolo, il postino non dice no alla mancia, il bambino delle spazzature non respinge la mano che gli allunga tre caramelle e i mozziconi di sigarette. Quella miseria di antiche origini è diventata un segno distintivo, una peculiarità, di cui i personaggi, se non ne sono contenti, non ne sono nemmeno vergognosi, perché c’è la matrice comune della dignità e l’attesa perenne di qualche cosa che cambi e che poi non avviene, tranne il miracolo della liquefazione del Sangue di San Gennaro, che è lì come un conforto, come per dire di non perdere mai la speranza. In questo contesto ci sono le bellezze di Napoli, di Posillipo, di Nisida, del suo mare, descritte con un tocco di grazia, oserei dire una tenerezza che viene da una gioia del cuore nell’avere l’opportunità di bearsene.
Quanto sopra concerne però solo la prima parte del libro, perché nella seconda e nella terza parte cambia il registro e prende il sopravvento la particolare condizione dell’esule.. Pur se logiche le considerazioni, anche tenendo conto di condivisibili riflessioni, il passaggio in queste nuove pagine è troppo brusco, legate alla prima parte dalla morte, sfracellato sulla scogliera, di uno straniero, giunto lì con una donna, e su cui si intende indagare, o almeno lo fa la polizia per sapere se si tratta di disgrazia, di suicidio o di omicidio. Non che qui la lettura però diventi poco piacevole, perché non è così, anche se ci sono tre lunghi monologhi un po’ grevi, ma particolarmente affascinanti.
E allora mi sono chiesto il perché della prima parte che ha toni diversi, anche talora sublimi, e ho pensato – è un’idea mia, però . che l’autore abbia voluto delineare il destino di genti predestinate (appunto questo popolino che vive nell’illusione che qualcosa cambi) come similitudine del mondo degli esuli, perché per loro vige la stessa situazione. Si spera nel ritorno, ma ammesso e concesso che ciò un giorno avvenga, che troveranno in patria? Una ragazza di cui erano innamorati e che ora invecchiata fa la buona madre, un vuoto d’anni in cui par di non aver vissuto, perché chi è costretto ad essere senza patria è come se il suo tempo si fosse fermato a quando se n’è andato, e quindi nulla più riconosce, perché intanto, per gli altri, per i rimasti, il tempo ha camminato.
Il sangue di San Gennaro è un buon romanzo e forse avrebbe potuto essere eccellente se non vi fosse stato il cambio di registro dalla prima alle altre due parti, queste per niente disprezzabili ma incomparabili con l’altra. Meglio sarebbe stato forse se si fosse fermato a pagina 175, lasciando in sospeso l’indagine per conoscere se si doveva parlare di disgrazia, di suicidio o di omicidio, perché tanto, lì a Napoli, nulla è certo se non la quotidiana incertezza.
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I morti hanno diritto a soggiornare ovunque, in Eu
"Gli stranieri oramai privi di una patria avvertono l'antica tensione della loro esistenza solo quando attendono la posta del mattino. In quei momenti riprendono a sperare.[...] Sanno che la patria non è solo un'entità reperibile su una carta geografica, ma un intreccio di esperienze, come l'amore. Chi è uscito per una volta da questo intreccio di esperienze cercherà invano di tornare a chi o a che cosa amava: non trova più una patria, né un'amante, ma uno Stato, o una donna che nel frattempo si è ingrassato"
Sándor Márai ha scritto questo romanzo nel 1957 durante i pochi anni di permanenza a Posillipo, dove approdò dopo che nel 1948, decise come molti altri di abbandonare la sua patria, l’Ungheria, oramai sotto pieno controllo della dittatura bolscevica.
Questo libro quindi si trasforma in una sorta di “testamento spirituale”, che racchiude in sé le riflessioni e le motivazioni che spinsero lo scrittore a vivere il resto della sua vita, nella condizione di esule, fino al gesto stremo (qui già annunciato in modo inquietante), del suo suicidio vissuto come l’unico modo per trovare pace in una terra in grado di accoglierlo in maniera definitiva:
"I morti hanno diritto a soggiornare ovunque, in Europa. Un permesso di soggiorno illimitato[…] a tempo indeterminato."
Ritroviamo così un uomo in viaggio fuori e dentro di sé, un profugo che come tanti, nella sosta tra un paese e un altro è costretto di volta in volta a spogliarsi della patria, della cittadinanza, del proprio nome, fino a cancellare il proprio passato. A ogni sosta in una nuova città si vede costretto a strapparsi uno strato di pelle che lo porteranno alla perdita della propria stessa identità.
Senza più una patria, senza più la propria vita scandita dal tempo dei progetti, l’esistenza si riduce ad un viaggio continuo in cui il corpo privato del suo stesso essere si lascia trasportare dove capita , ma dentro nella valigia c’è sempre posto per la speranza; la speranza di trovare conforto in una seconda patria.
E Márai la ritrova a Napoli una città ancora a misura d’uomo. Qui tra la gente comune lo scrittore vive con la sensazione che ogni persona conosciuta sia ancora un uomo con la propria individualità. Per questo la prima parte del libro ruota intorno a questa umanità, fatta di gente che si arrabatta per vivere, ma non elemosina, piuttosto mercanteggia su tutto pure con i santi ai quali di volta in volta, si chiede una grazia.
Gente che vive nella miseria eppure continua a fare figli, perché la povertà si affronta meglio in compagnia.
Gente che a sua volta ha perso qualsiasi speranza e non gli rimane che aggrapparsi ad un miracolo. Eppure queste persone non vivranno mai l’amara esperienza di essere spodestate anche degli accenti che caratterizzano il proprio nome e cognome, tutti loro infatti, non solo hanno un nome proprio, ma spesso, anche un soprannome che li caratterizza, e li distingue dagli altri in maniera indissolubile. Ecco allora: Peppino il domatore, il barone, il dottor Moscati ….!!!
Ecco allora che anche lo scrittore attraverso i suoi libri,testimonianza tangibile del proprio vissuto, ha riconquistato i suoi accenti sul nome e sul cognome:
Sándor Márai.
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Napoli in tutta la sua umanità
"...verso sera, quando Napoli sa essere di una tristezza angosciosa, perchè tutto è così chiassoso e disperato", questa è una delle tante, illuminanti, definizioni che Sandor Màrai da di Napoli. Lo scrittore ungherese ha vissuto nel capoluogo campano dal 1948 al 1952 ed in questo splendido romanzo ci restituisce l'immagine caotica e ricca di suggestioni di questa città. In un caleidoscopio di personaggi assolutamente singolari, si svolge la vicenda centrale che vede l'arrivo in città di due stranieri, circostanza che suscita gli immediati commenti di chi osserva da lontano i nuovi abitanti di una casa di Posillipo. Il popolo napoletano emerge da queste righe in tutte le sue irrisolvibili contraddizioni, eternamente diviso tra la necessità di risolvere i problemi della vita quotidiana e la fiducia smisurata nei santi e nei miracoli. Le discussioni urlate, la generosità spontanea, la praticità nell'affrontare la morte dei propri cari, il valore dato al silenzio, tutto questo viene tratteggiato attraverso personaggi estremamente realistici ma, al contempo, dai caratteri assolutamente straordinari. Davvero efficace ed affascinante la parte conclusiva, la discussione arguta e profonda sulla necessità di redenzione per il mondo, idea dalla quale lo straniero sembrava essere ossessionato, prima di morire misteriosamente in una notte di tempesta. Era un santo? Un guaritore? Un folle? Non c'è una risposta univoca e definitiva, ma i ragionamenti che, a mano a mano, si sviluppano alle domande del vicequestore, inducono inevitabilmente a profonde riflessioni.