Il sale della terra
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Un desierto del alma
Fino a che punto siete disposti a spingervi per salvare la vostra vita e quella di vostro figlio?
Acapulco nello stato messicano di Guerrero, vive Lydia amante della letteratura e proprietaria di una libreria, dove si divide tra il lavoro e la famiglia, ha un figlio Luca di 8 anni e suo marito Sebastian è un giornalista, sarà proprio a causa di un articolo scritto sul boss che controlla i cartelli della droga, che la vita di Lydia cambia. Durante la “Quinceanera “di sua nipote, festa dei quindici anni di origine latinoamericana, un commando di uomini armati irrompe nel giardino della sua casa sterminando la famiglia, Lydia e Luca si salvano per caso. Sola con un figlio piccolo da proteggere e con una taglia sulla testa, decide che è il momento di fuggire, e raggiungere gli Stati Uniti. Con la paura di poter essere rintracciata si unisce ai migranti che scappano illegalmente dal paese con un treno merci chiamato la “Bestia” dove si sale e si scende al volo, rischiando di poter finire schiacciati dalle rotaie. Inizia così un viaggio estenuante che li porterà ad affrontare la difficile attraversata del deserto con la probabilità di morire o essere catturati dalla polizia di frontiera e rispediti indietro. Jeanine Cummins, ci regala una eroina dei nostri tempi, una madre disposta a tutto per salvare la vita al proprio figlio, con la costante paura di fallire, di metterlo in pericolo, perché non tutti sono disposti ad aiutarli. Ci fa comprendere anche attraverso gli occhi di Luca quanto può essere difficile per un bambino assistere alla morte dei propri cari, conservarne il ricordo, e dover fuggire, costruirsi una nuova vita sempre se quella vita non finisca prima. Una storia che fa riflettere, offre uno spaccato di vita reale sulle condizioni di tanti emigranti costretti a scappare da una terra sempre più controllata dal narcotrafficante, tenendo in sospeso il lettore, con passaggi salienti tra cui l’attraversata del deserto di Sonora a notte fonda, riesce a farlo immedesimare nella storia, perché Lydia è una donna come tante, con una vita semplice che non avrebbe mai immaginato che potesse diventare a suo malgrado una fuggitiva. Deludente sul finale, mi sarei aspettata un colpo di scena che non è arrivato.
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ANCHE DA QUESTA PARTE ESISTONO I SOGNI
La cronaca spicciola nostrana certe notizie le riporta con frequenza pressoché quotidiana: sono i resoconti crudeli e agghiaccianti dei viaggi di poveri migranti disperati, in fuga dalla loro terra per i motivi più vari, ma sempre tragici, la guerra, le persecuzioni, più spesso la fame e la miseria nera.
Tra sofferenze inaudite, a rischio altissimo di perdere la vita, per di più pagando il “trasporto” alla malavita con prezzi esorbitanti in denaro, riscatti, estorsioni e violenze di ogni genere.
La motivazione che li spinge inesorabilmente ad accettare comunque ogni tipo di rischio, di pericolo e di abiezione umana però, nonostante le scarsissime, quasi nulle probabilità di successo, devono essere ben forte. Assolutamente inimmaginabile per noi privilegiati, che queste cose non le viviamo né le sperimenteremo mai in prima persona, e ci limitiamo a leggerne, magari scuotendo la testa in segno di disapprovazione.
Gli sbarchi d’immigrati clandestini continuano con flusso pressoché inarrestabile, oltretutto nessuno gradisce accoglierli.
Giungono più spesso via mare su barconi fatiscenti, causa di frequenti naufragi con relativa tragica fine delle povere vittime miseramente trasportate, colpevoli solo di essere spinte dalla fame e dalla disperazione. Moltissimi di loro spariscono durante la traversata, nell’indifferenza generale degli stessi sventurati compagni di viaggio, troppi di loro neanche arrivano a vedere perciò il profilo dell’agognata “terra promessa”, qualunque essa sia, sempre meglio del luogo di partenza.
Le organizzazioni criminali su questa disperazione prosperano, si spartiscono in competizione tra loro il nuovo business della tratta dei nuovi schiavi, si impongono con abusi, violenze, assassinii e crudeltà infinite senza riguardo per nessuno, meno che mai donne e bambini, che sono anzi le vittime predilette, quelle più ricercate per ovvi scopi di violenze e sfruttamento sessuale.
Non solo: talora i continui respingimenti delle autorità “istituzionali” vanificano tutti gli immani sacrifici fatti per partire e arrivare, come i porti chiusi, l’ostracismo “legale”, il rimpatrio coatto, e poi ancora gli inganni, le delusioni, i tradimenti, le denunce, le delazioni, le continue paure.
Eppure tutti questi viaggi, malgrado siano noti i rischi e le abiezioni, continuano ad avvenire quotidianamente, peraltro in misura crescente.
Perché il pane amaro conquistato a questo prezzo, sa di sale, è vero, è salato come il mare nemico appena attraversato, è scarso, incerto, aspro, duro, e ha in proporzione un costo esorbitante, brucia le labbra, lo stomaco, l’anima, ma è comunque pane. Meglio del nulla assoluto.
Il pane riempie e ti concede almeno un attimo di pausa, è una vera e propria panacea oppiacea.
Questa pausa ti permette di sognare, credere con tutto te stesso che da questa parte del mare esistono davvero i sogni, e sono realizzabili, è veramente possibile renderli concreti.
È tutto quanto ti resta, quando sei un migrante come questi, ma è già tanto. Tantissimo. Tutto.
Di questo ci parla nel suo libro duro e crudele, spietato quanto reale, Jeanine Cummins, racconta del sale. Il sale che secca l’esistenza di tutti i migranti di questo mondo. Già, i migranti:
“Nella peggiore delle ipotesi li percepiamo come una massa di invasori e di criminali che prosciugano le nostre risorse; nella migliore, come una folla di poveri senza volto con la carnagione scura, che chiedono aiuto a gran voce bussando alle nostre porte. Di rado pensiamo a loro come a esseri umani uguali a noi.”
Jeanine Cummins ne “Il sale della terra” ci parla semplicemente anche di questo sale che manca nella testa degli uomini.
Nello specifico, racconta di un altro tipo di sale, non quello del mare, ma quello della terra.
Non di un suolo qualunque, ma della terra più crudele e disgraziata del pianeta, a pari merito con le dune del Sahara: l’area desertica che separa il Messico dal sud degli “Estados Unidos”.
Sono le tremende, climaticamente infernali, tratte percorse da altrettanto sfortunati migranti, quelli del Sud povero e disastrato dell’America. Messico, Honduras, Guatemala, e altri ancora.
Costoro cercano ugualmente non l’America, non ne hanno bisogno, viaggiano per entrare negli opulenti “Estados Unidos”, certo non la chiamano America, perché giustamente sono già essi stessi nativi Americani, cercano non l’identità, ma il pane, o le analoghe “tortillas” che dir si voglia, ben sapendo con ampio anticipo che avranno sapore di sale, ma è comunque un gusto di qualcosa, non del nulla assoluto. Al pari dei loro analoghi nel Mediterraneo, costoro provano dunque a qualunque costo a passare il confine verso il loro personale giardino dell’Eden, chiuso qui dai muri e sorvegliati non da regolari, e legali, milizie, ma da biechi, violenti e crudeli vigilantes al servizio dei narcotrafficanti locali. Lo fanno nonostante i rischi, le violenze, le morti e le mutilazioni, pagando ingenti somme ai “cartelli” della droga e alle varie organizzazioni fuorilegge che spadroneggiano in quei territori, anche tra la milizia e i presunti appartenenti alle forze dell’ordine, spesso i primi a comportarsi assai peggio dei malavitosi per definizione.
Non esiste alternativa al pane, qualunque cosa voglia significare il termine.
Solo che, in questo romanzo, Jeanine Cummins fa assai di più: descrive certo la difficile situazione del sud del continente americano, denuncia l’infiltrazione a ogni livello civile degli onnipotenti cartelli della droga, svela come dietro gli orpelli e gli splendori dei paradisi turistici come Acapulco si trovi tutto un mondo di abiezioni, sopraffazioni, sfruttamenti, violenze, crudeltà, e la profonda disperazione dei nativi. Lo fa attraverso gli occhi di comuni ”persone per bene”, piccoli borghesi pertanto non all’ultimo livello del sottoproletariato, non disperati disoccupati e senza dimora e prospettive di vita, ma cittadini comunissimi con casa, lavoro, famiglia, affetti, progetti e gioie quotidiane. Ci fa vivere perciò l’orrore visto con i nostri stessi occhi non adusi a queste scene, le fa “sentire” addosso come se capitassero a noi. La Cummins non ha scritto una cronaca o un reportage, nemmeno un romanzo di denuncia in senso stretto, ma un racconto su misura di chiunque, con una prosa semplice, senza giri di parole, ci fa vivere eventi reali e di pubblico dominio rendendoci diretti protagonisti. Un buon libro, ben scritto, documentato, corposo, di valore.
Un tipo di narrativa che ti induce a riflettere, e quindi ben venga.
Il romanzo dice, in definitiva come sarebbe potuto essere disperata la nostra esistenza, se solo avessimo avuto un diverso destino di nascita. Tutto qui, e non è poco, perciò vale il suo prezzo
Lydia, la protagonista del romanzo, è una normale madre di famiglia, una donna colta, un’intellettuale che gestisce una piccola libreria ad Acapulco, con il marito Sebastian, giornalista tra i più quotati e impegnati in battaglie civili, e un figlio di otto anni, Luca, un bambino vivace e intelligente assai più della media dei suoi coetanei.
Una vita tranquilla, uno scorrere lieto dell’esistenza; sennonché Sebastian, che è un esperto conoscitore del fenomeno dei “cartelli” della droga, e come tale soggetto a minacce cui però mai è seguita reale volontà di vendetta, pubblica uno scomodo articolo su Javier, il nuovo “jefe”, il capo emergente del potente e crudele “cartello”, detto dei “Jardineros”, per la simpatica usanza di fare a fette le loro vittime con attrezzi da giardino, falci, machete e simili.
La vendetta dello jefe non tarda a giungere, e Sebastian e l’intera famiglia di sedici persone, riunite per un evento familiare, sono massacrati dai sicari.
Si salvano solo Lydia e il piccolo Luca: la loro unica speranza di salvezza è quindi quella di raggiungere gli Stati Uniti. Poiché tutte le linee di comunicazioni stradali, aeree e ferroviarie sono sotto il controllo dei malavitosi, l’unica è seguire le vie dell’emigrazione clandestina, confondendosi nella folla dei disperati, e disgraziati, che nulla hanno da perdere nell’inseguire il loro sogno, nemmeno la loro miserabile esistenza, a volte nulla più che un inutile e doloroso orpello.
La donna non è una stupida o una sprovveduta, è una persona colta e istruita, è una libraia, lo sa che “Viaggiare con i libri costa meno dell’aereo”. Come sa che il viaggio che si accinge a fare richiede saltare sui treni in corsa a rischio di finire sotto le ruote, viaggiare sui tetti dei vagoni, guardarsi dagli altri migranti, dai malavitosi, dalle milizie che solo di nome rappresentano l’ordine, ma sono al servizio dei narcos:
“Gli uomini sono vestiti con le tute mimetiche e hanno così tante armi addosso che una persona ignara di tutto darebbe per scontato che fanno parte di un esercito regolare.”
È un continuo e stressante, per una comune madre di famiglia con un bambino al seguito, sfuggire alle violenze di ogni genere da parte di chiunque, pagare con tutti i loro averi un’indispensabile e ambigua guida per attraversare il deserto, soffrire la fame, la sete, la paura, il freddo, il caldo, arrivare sporchi e distrutti alla meta, e rischiare di essere rispediti indietro…anche dopo anni di soggiorno negli Stati Uniti.
Questo è il racconto del viaggio in un crescendo ripido, faticoso, infernale di Lydia e di Luca, delle giovanissime e stupende Soledad e Rebecca.
Di Lorenzo, di Slim, di David, e di Beto che soffre di asma, di Marisol, e di Nicolas che studia all’università.
Del coyote, la guida del deserto, che manco a farlo apposta si chiama Chacal, e di chiunque di noi che, per ventura o per caso o perché così hanno deciso gli dei, si fosse trovato al loro posto.
Un racconto di sofferenza, che ci coinvolge tutti, che ci deve coinvolgere tutti, per il solo fatto di essere umani, se vogliamo continuare a dirci umani.
“È così grande la sofferenza. È esponenziale. Ogni morte violenta si amplifica di cento volte, di mille volte. Tutti…conoscono una porzione grande o piccola di quel dolore…Ogni giorno un orrore nuovo, e quando finisce, subentra quel senso di distacco surreale. Una specie di incredulità verso quanto hanno appena sopportato. La mente ha i poteri magici. Gli esseri umani hanno i poteri magici”. Sì, gli esseri umani hanno i poteri magici.
Se solo lo vogliono, possono dire: “Tambien de este lado hay suenos”.
Anche da questa parte esistono i sogni.
Quando e se gli esseri umani si ricordino di essere tali.
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American Dirt
“E’ un ciclo, pensa Lydia. Ogni giorno un orrore nuovo, e quando finisce, subentra quel senso di distacco surreale. Una specie di incredulità verso quanto hanno appena sopportato. La mente ha i poteri magici. Gli esseri umani hanno i poteri magici.”
Sulla fascetta di accompagnamento a questo romanzo possiamo leggere queste parole di Stephen King: “Sfido chiunque a leggere le prime sette pagine di questo libro e a non finirlo”. Di solito non do molta importanza a questo tipo di frasi, che hanno senza dubbio lo scopo di fare pubblicità al libro e invogliare il lettore di turno a comprarlo. Ma in questo caso la frase è autentica.
Il romanzo si apre con un incipit folgorante: un bambino è in bagno a fare la pipì e per puro caso non viene colpito in testa da un proiettile che entra dalla finestra. Prima che riesca a capire cosa sta accadendo sua madre lo spinge nella doccia e i due si nascondono lì, mentre i sicari assoldati dal capo di un cartello di narcotrafficanti stanno sterminando tutta la loro famiglia.
Siamo ad Acapulco, in Messico. La vita di Lydia e Luca viene stravolta così, in un giorno di festa. Ma non c’è tempo per il lutto, non c’è tempo per la disperazione: Lydia sa chi è il mandante che ha fatto sterminare tutti i suoi cari, lei e suo figlio si sono salvati per caso. Adesso la sfida è sopravvivere, non farsi uccidere, fuggire.
Inizia così un viaggio che tiene il lettore con il fiato sospeso dalla prima all’ultima pagina, il viaggio per raggiungere gli Stati Uniti, dove Lydia spera di poter essere finalmente al sicuro dalla violenza dei narcotrafficanti. Madre e figlio si ritrovano a compiere il percorso che molti migranti irregolari compiono quotidianamente: ciascuno spinto dalla propria personale motivazione dettata dalla disperazione, dall’impossibilità di trovare un’altra alternativa alla violenza e alla sopraffazione. Perché ogni essere umano vuole sopravvivere in fondo, malgrado la storia di dolore che si porta alle spalle, malgrado le infinite insidie che si nascondono nel viaggio stesso, che può facilmente diventare esso stesso origine di tribolazione e male senza fine. Ogni essere umano ha diritto a vivere in pace ed anche, possibilmente, ad un po’ di felicità.
"Il sale della terra" mi ha colpita molto perché l’autrice è riuscita benissimo a coniugare una scrittura coinvolgente, che non risulta mai pesante o noiosa ma che fa desiderare il prezioso momento della lettura, ad una notevole profondità dei temi trattati. Riesce a scavare senza risultare banale o stucchevole fra sentimenti ed emozioni, riesce a far commuovere e a far riflettere il lettore.
Ho letto che questo romanzo negli Stati Uniti è al centro di una polemica perché l’autrice è bianca (ha solo una nonna portoricana) e secondo alcuni intellettuali non doveva permettersi di scrivere riguardo agli immigrati messicani, che nel testo sono presenti degli stereotipi e che, invece di questo romanzo, si sarebbero dovuti pubblicizzare degli scritti di autori messicani. Mi sembra una discussione molto lontana dalla nostra realtà italiana. Il romanzo secondo me ha ottime caratteristiche per essere apprezzato: molto coinvolgente dal punto di vista della trama, riesce a far entrare il lettore in profonda empatia con i personaggi, racconta una storia realistica e ci fa riflettere di più su alcune questioni di attualità. E’ stato scritto senza dubbio per toccare alcuni tasti sensibili, per affrontare il tema dell’emigrazione e della violenza legata ai cartelli dei narcotrafficanti prevalentemente dal punto di vista emotivo. E’ stato scritto per avere successo, per essere letto con soddisfazione da molte persone. Sinceramente a me tutto questo non sembra un difetto: il romanzo mi è piaciuto tantissimo e lo consiglio a tutti.
Buona lettura.
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"También de este lado hay suenos"
«Luca ha la sensazione che, se girasse la testa, se dovesse punzecchiare la bolla di quell’incubo con il dito, scatenerebbe un torrente così impetuoso che verrebbe trascinato via per sempre. Così sta attento a rimanere quasi immobile. […] L’unica cosa buona del terrore, ormai Lydia l’ha capito, è che è più immediato del dolore. Sa che presto dovrà fare i conti con quello che è successo, ma per ora il pensiero del rischio che corrono serve ad anestetizzarla dalla peggiore delle angosce. Si sporge dal balcone e controlla la strada. Si dice che non c’è nessuno. Si dice che sono al sicuro.»
Il suo nome è Lydia e vive ad Acapulco dove gestisce la sua libreria, cresce il piccolo Luca di otto anni e vive felice con il marito Sebastiàn, giornalista specializzato nel narcotraffico. Perché da qualche anno la perla del Pacifico con la sua spiaggia finissima, il mare cristallino e le palme accarezzate dalla brezza ha mutato il suo volto essendosi insinuata nella quotidianità una radicata e inarrestabile criminalità. Quest’ultima è pronta a tutto pur di affermare il proprio comando, pur di imporre la propria egemonia. Quello dei Los Jardineros è un cartello giovane, ma molto forte. Non teme rimostranze, non ha scrupoli. Che si tratti di bambini, donne, uomini, anziani, non vi è differenza. Che siano necessarie teste amputate, dita mozzate, incendi dolosi, non fa differenza. Tutto ruota attorno ad un unico fine che verrà realizzato a qualsiasi costo; il potere. A capitanare questa novizia attività criminale vi è un uomo dal grande acume e dal fascino irresistibile, Javier. Con i suoi pensieri, con la sua passione per la letteratura, con i suoi modi eleganti, non fatica a subentrare nella vita degli abitanti della città, non fatica a farsi amica Lydia. Lydia che non sospetta, Lydia che si fida, Lydia che vede il suo lato buono e umano per poi scoprire quello demoniaco e mostruoso che va a distruggere quel delicato vaso di cristallo. La necessità della verità, la voglia di farla emergere del marito, di smascherare il mostro, il passo falso. La carneficina. Una famiglia spezzata durante una Quinceañera; madre e figlio, gli unici sopravvissuti, per puro caso, alla ferocia. Perché per quanto la reazione del boss fosse stata preventivata e anticipata, un terzo evento non connesso e imprevedibile ne ha scatenato la follia, ha portato alla necessità di una vendetta inarrestabile e improcrastinabile. Ma questo Lydia non lo sa ancora. Lydia, non può nemmeno immaginarlo. Lei e Luca adesso devono scappare, via, verso il Norte, via verso quell’unica possibilità di salvezza che hanno. Perché tutti ad Acapulco sono corrotti, tutti. Poliziotti, giornalisti, uomini e donne comuni, tutti. Il nemico è ovunque, il pericolo li circonda. Avrà inizio da qui la fuga di una madre e di un figlio di appena otto anni dall’intelligenza fuori dal comune, avrà inizio da qui il viaggio della speranza che li vedrà accompagnati da tanti altri migrantes che come loro cercano la possibilità di una vita, non tanto migliore, quanto di una vita. Perché tra criminali, membri di bande, pentiti, stupratori, assassini, vi sono persone che cercano di fuggire dall’orrore, che cercano di scappare dalla delinquenza che li circonda, dal male che sembra essere ovunque e che sembra essere sempre in agguato per sopraffarli, per divorarne le carni e le anime. In questo viaggio che li vedrà abbracciare scelte impensabili, rischiare quell’esistenza che già di per sé è condannata in atti apparentemente scellerati ma di fatto l’unica possibilità di salvezza, i due protagonisti principali conosceranno le sorelle Soledad e Rebeca, conosceranno Beto, conosceranno El coyote, tanti volti di storie di vita tra loro distanti, eppure, tutte accomunate dalla sofferenza. Perché ciascuna di queste voci ha un passato da lasciarsi alle spalle, ha subito una o più violenze, ha subito una o più perdite, ha subito uno o più soprusi, ha subito. Subito, voce del verbo subire. Subito. E quando non hai più niente da perdere e non ti resta altro che quella vita a cui sei disperatamente aggrappato da proteggere, allora sì che puoi davvero provarci. Ed è questo che fanno queste voci, ci provano. Andando incontro al pericolo, rischiando di essere prese, rischiando di essere deportati nel caso di non messicani, rischiando di finire in mano alla migra, rischiando di finire in mano ai cartelli, rischiando di non arrivare vivi a quel norte per quella rotta del Pacifico che tutti hanno indicato quale essere la più sicura.
«Quando si rialza dal marciapiede, è già il fantasma di se stessa. Forse, nel profondo di lei, c’è ancora uno stoppino che brucia piano, lasciato dalla fiamma che era un tempo, ma Soledad non può sentirlo. Apre la porta dell’appartamento, e scende.»
Jeanine Cummins ci dona un libro che con la sua storia ci mostra un mondo che non conosciamo se non per nome o per fama. Ci rende partecipi del dolore, ci rende partecipi del viaggio della speranza. Ci invita a soffermare la nostra attenzione su una tematica attualissima, fortemente discussa e ancora oggi contestata, ci invita a far della nostra empatia l’abito con il quale imprimere sulla pelle, per mezzo delle parole, una realtà. E con questo, ella riesce nel suo intento. Ci propone un libro dalla penna fluida, dalle voci vivide e dal mordente costante, un elaborato che è un continuo di colpi di scena, di colpi al cuore, di riflessione costante. Un libro che scuote, un libro che quando giunge al termine, resta.
«E adesso la paralisi dell’empatia tocca a Lydia. Quell’emozione profonda la sorprende: come può esserle rimasto del dolore da riservare agli altri, al nipote assassinato di Paola? Eppure eccola lì, l’angoscia che le svuota le ossa, la disperazione per un bellissimo ragazzo che lei non ha mai conosciuto. Per gli innumerevoli lutti di tutti quei ragazzi rubati, che si estendono da una famiglia all’altra come uno dei giochi di Luca, quello in cui bisogna unire i puntini. È così grande, la sofferenza. È esponenziale. Ogni morte violenta si amplifica di cento volte, di mille volte. Tutti in questa banca conoscono una porzione piccola o grande di quel dolore. Tutti a Nogales. Tutti coloro che vivono in un posto suddiviso in plazas e governato da uomini come Javier. A che scopo?»
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ATTUALE E VICINO A NOI
Libro che ha suscitato molte discussioni negli Stati Uniti, ha avuto grande successo ma anche criticato dalla comunità messicana perchè una 'bianca statunitense non può scrivere una storia di migranti messicani'.
J.Cummins dichiara di essersi documentata per anni ed avendo una nonna portoricana ed un marito che è stato immigrato irregolare, la sua famiglia ha un vissuto. Al di là di questioni extra letterarie, il libro è interessante, avvincente, si legge in un fiato ed ha diversi punti rilevanti. Racconta la storia di una donna che è costretta a scappare da Acapulco agli Stati Uniti dopo che un cartello della droga ha massacrato la sua famiglia per via degli articoli 'scomodi' del marito. Diventa quindi una migrante clandestina a tutti gli effetti, immergendosi in una realtà che le era lontanissima. Con tutti i distinguo è quasi come se uno di noi si trovasse immerso in un viaggio sui barconi che attraversano il mediterraneo, un incubo a cui mai si penserebbe di essere sottoposti. Succedono ovviamente cose terribili in questo viaggio, ma tutto sommato la storia sembra realistica e credo indicativa di cosa succede in questo continuo flusso di persone in fuga dalla povertà, dalle prevaricazioni dei cartelli e da varie situazioni 'sconosciute' nel nostro mondo.
Un libro che merita, anche per farci riflettere su quanto accade da noi e sulle vicende che vivono tutti quelli costretti a scappare dal proprio paese.