Il quinto figlio
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Una creatura da ripudiare
Harriet e David sono una coppia di semidisadattati con una visione della felicità piuttosto "fuori moda": nel pieno fermento libertario degli anni Sessanta, credono nella famiglia e anelano di mettere al mondo otto figli. Ostentano un tradizionalismo audace: comprano una villa a tre piani nella campagna inglese, con tanto di ipoteca, e il papà di David (un armatore miliardario) finisce per accollarsi le spese.
Non c'è approvazione intorno ai giovani sposi, ma i loro slanci irresponsabili attirano la curiosità e la benevolenza un po' interessata del parentado: in breve tempo diventano il centro di una famiglia allargata, e la villa è subito meta di pellegrinaggio.
La prima parte del romanzo mette in scena la realizzazione di un progetto morale e di vita, coi figli che si susseguono in un continuo viavai di gente per casa, e la felicità che dilaga smussando conflitti caratteriali e di classe. Gli stessi Harriet e David ne sono meravigliati: la notte, abbracciati, quasi si vergognano della loro esistenza gioiosa dove ogni sacrificio è premiato e ogni problema si risolve quasi da sé (soprattutto dopo che la madre di Harriet e un'amica vedova si sono trasferite alla villa per dare una mano).
Per alcuni anni si verifica una sorta di appiattimento temporale dominato da un'euforica convivialità e da un'indifferenziata vacanza, mentre i due protagonisti insistono nel loro sogno privo di anticoncezionali. Finché non arriva la quinta gravidanza, cioè una quinta sfida alla sorte. Già l'anomala vitalità del feto è un tetro segnale.
La storia qui sembra rivelare un andamento metaforico, col Male che, infine, presenta il conto. Dopo pochi mesi Harriet è distrutta, e si fa prendere dai nervi. Scaramucce, tensioni, incredulità fra gli invitati permanenti che a ogni buon conto la perdonano: è stanca, si capisce, partorisce a getto continuo, e non ne può più. Qualcuno, infatti, suggerisce una pausa. Lei è inquieta, va dal medico, che però la rassicura. Ma più che una gravidanza sta affrontando un calvario. Il bambino si contorce, scalcia di brutto, e Harriet non riesce più a dormire. All'ottavo mese dà alla luce un mostro giallognolo di cinque chilogrammi, con un viso strano e lo sguardo freddo che non intenerisce nessuno. Tutti, in sua presenza, avvertono ripugnanza, se non proprio terrore. Chi è Ben? O meglio, cos'è?
Cresce duro, scostante, ottuso, senza apprendere nulla, sviluppando una forza erculea che sperimenta qua e là, strangolando prima un cane, poi un gatto. Non ci sono prove, ma i parenti si allontanano poco a poco. La villa si svuota. La famiglia stessa si disunisce: David ammette che quella creatura non può essere "suo figlio", e teme per gli altri bambini - i quali, istintivamente, hanno già scartato il povero Ben. Il quinto figlio è allora spedito in una specie di Cottolengo inglese, costretto in una camicia di forza nell'attesa che tolga il disturbo fra gli escrementi.
Ma Harriet (il fatale amore materno) non resiste, si fa cinque ore di macchina per raggiungere l'istituto e prelevare il suo bambino. Questo fatalismo distruttivo, che manderà all'aria il progetto iniziale, è l'aspetto preminente della parte centrale dell'opera. E il personaggio della madre si erge ridimensionando tutti gli altri, un po' gretti e deludenti al suo cospetto.
Il libro è bello, senza retorica, sebbene vi aleggi un Eterno Ritorno della barbarie, con espliciti riferimenti all'involuzione degli anni Ottanta e al proliferare della criminalità da baby-gang. La prosa è asciutta, con un narratore onnisciente che a tratti fa rimpiangere soluzioni narrative più "moderne".
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La grande famiglia
Questo romanzo di Doris Lessing, premio Nobel della letteratura, l’ho letto d’un fiato con la sensazione strana e inquietante che Doris l’avesse scritto proprio per me. Ci ho trovato tante e tali somiglianze con la mia vita, dall’inizio l’incontro tra i due futuri coniugi Lovatt a una festa in cui nessuno dei due voleva ballare, all’idea della famiglia numerosa e aperta che mi hanno lasciato senza parole. E mi ha colpito anche la inevitabile conclusione che Doris ha dato alla storia riscrivendola una seconda volta. “Hai barato”, si è detta dopo la prima stesura troppo buonista. La coppia che ha sfidato il destino deve essere condannata perché nessuno è felice a questo mondo.
“Questa è una punizione”, disse a David.
“E per cosa?” chiese lui sulla difensiva, perché la voce di Harriet aveva preso un’inflessione che detestava.
“Per aver voluto troppo. Per aver pensato di essere felici. Felici perché l’avevamo deciso.”
“Sciocchezze,” le disse. Era in collera. In collera con Harriet che gli parlava così. “E’ stato un caso. Sarebbe potuto capitare a chiunque. Ben è il prodotto di un gene sbagliato.”
“Non credo,” insistè le testarda. “Siamo stati noi, con le nostre pretese di essere felici! Nessuno è felice, nessuno di quelli che ho conosciuto, almeno, ma noi avevamo deciso di esserlo. E siamo stati colpiti dal fulmine.”
“Piantala Harriet! Non capisci dove portano questi pensieri? Ai pogrom e alla punizione divina, ai roghi delle streghe e all’esistenza di un Dio vendicativo!”. Stava quasi urlando.
“E ai capri espiatori”, proseguì Harriet. “Non dimenticare i capri espiatori.”
La casa di Harriet e David all’inizio piena di gente e di allegria pian piano si svuota. I due vengono guardati sempre con maggiore sospetto. I discorsi su di loro da benevoli si fanno velenosi.
La causa della generale condanna nel caso del romanzo è il quinto figlio “Ben”, un alieno, un mostro, uno che non è parte della famiglia e viene guardato con così tanto sospetto e apprensione da far scappare tutti i “veri” figli. Harriet pur non amandolo e sentendolo estraneo, non può abbandonarlo, quindi viene risucchiata dalla cura di questo “mostro” rispetto al quale la bambina Down della sorella, gioiosa e piena di amore per tutti, si rivela come un dono del cielo. David e Harriet si ritrovano in casa soli con Ben e con i suoi amici delinquenti. Pianificano di vendere la casa e di andare a vivere in un’altra più piccola, solo loro, dalla quale guardare alla TV (che all’inizio della loro vita famigliare non accendevano mai) cercandolo in mezzo ai reportage dei TG su disordini e rapine il viso di Ben, diverso da tutti gli altri, con gli opachi occhi gialli, anafettivi e inespressivi.
Alla fine i due coniugi diventano quello che non avrebbero mai voluto essere.
Era come se la fatica di vivere le avesse strappato uno strato di carne,non vera carne, forse, piuttosto una sostanza metafisica invisibile e insospettabile finchè non se ne era notata la mancanza. E David, a forza di lavorare, aveva perso quella sua caratteristica di uomo di famiglia.
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Cos'è questo romanzo?
“Cos'è questo bambino?”, si chiede Harriet, la protagonista, pochi mesi dopo la nascita di Ben, il suo quinto figlio.
Allo stesso modo viene da chiedersi: “Cos'è questo romanzo?”.
L'intento è forse quello di raccontare una società che rifiuta ciò che oltrepassa il confine dell'umano, ma il messaggio non arriva, sia per certi passaggi inverosimili sia per lo scarso approfondimento psicologico del figlio “alieno”, che rimane un personaggio irrisolto.
“La gente di Ben aveva vissuto sottoterra, ne era certa, in caverne buie illuminate da torce”.
Ben è violento e anaffettivo, più umanoide che umano, con un aspetto di gnomo malefico.
E' un elemento destabilizzante che riesce a minare dalle fondamenta una famiglia solida e felice ancor prima di nascere: “Il nuovo feto la stava avvelenando, disse”.
La trama si sviluppa in modo abbastanza prevedibile, con uno stile discreto a servizio di un contenuto piatto e a tratti insulso, in cui gli elementi di sapore fantascientifico stridono col resto della narrazione.
Gli scrupoli della madre, che sacrifica il benessere degli altri quattro figli per tenersi in casa Ben, hanno poco a che vedere con l'amore materno e sembrano piuttosto dettati da una generica pietà, oltre che dal “cocente desiderio di saperne di più su di lui, su quell'essere che aveva messo al mondo portandolo in grembo otto mesi a costo di morirne”.
Da un certo punto in poi il libro scivola nella banalità senza approdare a nulla che sia degno di nota: non un guizzo emotivo, né un avvenimento lieto o tragico che smuova un po' le acque.
Né carne né pesce, insomma: chi si aspetta la profondità di un buon romanzo (stiamo parlando di una scrittrice premio Nobel) o quantomeno i brividi di un fanta-horror rischia di restare deluso.
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Un pezzo di preistoria in era moderna
Il libro di Doris Lessing, Il quinto figlio, viaggia attraverso una netta dualità di atmosfera. All’inizio, la vicenda neo-romantica di David ed Harriet, sembra quasi scritta in uno stile faceto, ottimo accompagnamento per tè e pasticcini. Il clima è disteso, idilliaco. Il sogno di una casa enorme piena di bambini prende forma,quattro figli arrivano a breve distanza l’uno dall’altro, la famiglia allargata, sempre unita e numerosa, sembra un’oasi fin troppo spensierata.
Ed ecco Ben, il quinto figlio, che già durante la gravidanza si preannuncia diverso, violento, aggressivo, quasi come un virus malefico che avvelena il grembo che gli sta dando la vita. Ed ecco anche il brusco cambiamento di atmosfera del libro, che piomba in una tetraggine inquietante e sottile.
Il bambino, nascendo, rivelerà fattezze elfiche, anzi, neandertaliane; una forza e un appetito sovrumani, oltre a una preoccupante inclinazione alla violenza. Prende corpo nella mente dei genitori l’idea che possa essere non solo uno scherzo dei loro geni, ma una vera e propria creatura di un remoto passato, sfuggita a secoli di evoluzione e trapiantatasi nell’era moderna.
Il sogno della famiglia numerosa e felice è distrutto, i quattro precedenti bambini si costituiscono in una corporazione impenetrabile che li porterà ad allontanarsi il prima possibile dalla casa dei genitori, lontani dall’intruso, dall’alieno, dal diverso. Harriet, la madre, è lacerata da un senso di colpa inestinguibile, sia per non riuscire ad amare quel figlio inspiegabile e anaffettivo, sia per averlo messo al mondo; colpa questa, che tacitamente tutti sembrano attribuirle, così come quella di essere l’unica che, interessandosi delle sorti del figlio “diverso”, causa lo sfilacciamento progressivo della famiglia e dell’intesa coniugale.
Ben non è cattivo, pur nella sua violenza. È una forma di vita semplice, senza le sovrastrutture dell’evoluzione. Intorno a lui e ad Harriet, che pure non riesce ad amarlo fino in fondo, la terra diventa bruciata. La famiglia, persino il padre, David, tutti prendono le distanze, medici ed insegnanti rifiutano di pronunciarsi, lasciando Harriet sempre più sola e sgomenta; la posizione netta di chi crede di essere nel giusto solo perché è nato “normale” e bene inserito in un contesto sociale, diventa sempre più aspra, sempre meno disposta alla comprensione. Durante la lettura, ci si trova a provare sentimenti contrapposti nei confronti dei protagonisti: essi destano talvolta pena, talvolta biasimo. L’autrice non concede sconti a nessuno, e rappresenta le persone con in tutto il realismo necessari in una simile storia, anche quando si sfiora la crudeltà.
Non è un caso se Ben diventa ben accetto e addirittura leader presso le fasce più abiette della società, quelle più simili a forme di branco, di clan; lì, la natura primitiva del bambino fattosi ragazzo trova il suo habitat naturale, la sua spontanea inclinazione alla violenza è la caratteristica che lo porterà a primeggiare tra gli ultimi.
Eppure la società, fatta di nonni, fratelli, zii e cugini che circonda Ben e sua madre Harriet, non è molto diversa, per logica, da un clan primitivo; la consapevole volontà di emarginare, di escludere, di abbandonare il diverso al suo destino, di allontanare la mela marcia dal cesto, non è forse dettata da un atavico istinto alla sopravvivenza? Non è un’allontanarsi dall’ideale manifesto di famiglia unita e felice, in favore di un individualismo autoconservativo?
L’autrice ha portato avanti un’idea di fondo relativamente semplice, quella di considerare la diversità delle persone a seconda dei contesti, e ci è riuscita, alimentando nell’animo del lettore ulteriori interrogativi, tutti molto pesanti e impossibili da ignorare.
Sconsiglio la lettura a donne in attesa o che stanno pianificando arrivo di altri bambini, perché la vicenda potrebbe turbare gli animi sensibili.
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Una storia dura
Rimane un senso di disagio, quasi di colpa.
Attraverso le emozioni di Heriet sono stata trascinata in una vicenda che pone una serie di interrogativi e obbliga a decisioni che fortunatamente la vita mi ha risparmiato.
Il sogno di Herriet e David di creare una famiglia numerosa, controcorrente rispetto alle abitudini moderne, pare concretizzarsi nella prima parte del libro con l'acquisto di una vecchia grande casa e con la nascita ravvicinata di quattro splendidi figli.
La famiglia felice, in cui regna l'allegria, l'amore, in breve la felicità, diviene il polo di attrazione di parenti e amici che corrono a occupare le numerosissime stanze non appena possono.
Il baricentro felice riesce in pochi anni a riunire persone che da tempo si evitavano e a ricreare fra tutti l'armonia.
Poi arriva Ben, il quinto figlio. Diverso dagli altri. Diverso e basta.
Di una diversità tale che la nascita quasi contemporanea della cuginetta affetta dalla sindrome di Down sembrerà quasi una benedizione.
La diversità di Ben cambierà la vita di tutto l'estero nucleo famigliare e cambia anche la forma del romanzo, che fino a qui sembrava un racconto leggero e disimpegnato, trasformandolo in un testo teso, duro, angosciante per le decisioni sofferte e contrastate che l'esistenza di Ben imporrà. Un testo che pone il lettore nudo di fronte alla propria coscienza perchè è impossibile non porsi la domanda: cosa avrei fatto io?
Bravissima l'autrice (Nobel nel 2007) capace di una prosa fluida e scorrevole, in grado di catturare ogni particolare di una scena o di un'emozione per restituirla con poche indovinatissime parole e di legare a sé l’ignaro lettore che ancora non sa che in labirinto di buio e di dolore sta andando a infilarsi.
Consigliatissimo per tutti, tranne che per chi attende un bambino... meglio rimandare a dopo!
[…]
Si infilò nel lettone, come sempre allungò il braccio, perché lei potesse appoggiarvi la testa e rannicchiarsi contro di lui.
Ma lei disse: “Senti.” Poi gli prese la mano e se la appoggiò sul ventre.
Era incinta di quasi tre mesi.
Il feto non aveva ancora dato segni di vita indipendente, ma in quel momento David sentì un colpo sotto la mano, quasi un movimento brusco.
“Non sarai per caso più avanti?” Sentì un altro colpo e rimase incredulo.
Harriet aveva ripreso a piangere e David ebbe la sensazione – ingiusta, lo sapeva – che stesse infrangendo le regole di un loro tacito patto: le lacrime e l’infelicità non rientravano nei loro programmi.
[…]