Il posto
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In memoria del padre
Annie Ernaux, con questo volume autobiografico vuole fare un omaggio al padre. Un omaggio che non ha fatto in tempo a fargli mentre era ancora in vita. Più probabilmente non si è neppure resa conto fino a quando è stato troppo tardi dei meriti di quell'uomo tenace, che per tutta la sua vita ha avuto come obiettivo quello di migliorare, di avere un riscatto sociale, che coinvolgesse non solo lui, ma anche tutta la famiglia. La giovane Annie questo non lo ha capito, ha studiato, si è laureata e sposata bene. In questo modo ha raggiunto uno degli obiettivi che si erano ai genitori, elevandosi di ceto. Quello però ha segnato l'allontanamento soprattutto dal padre: un lavoratore, pratico, poco incline a soffermarsi su pensieri astratti e fini a se stessi. La sua tenacia, la dignità con cui si rapporta alle persone che economicamente sono state più fortunate di lui, l'amore per la famiglia e la sua bontà d'animo gli sono riconosciute in questo breve romanzo. Un inno a tutti gli uomini cosiddetti semplici, che in realtà non lo sono affatto, a meno che con questo termine non ci si voglia riferire al fatto che hanno messo da parte inutili complicazioni per concentrarsi solo sulle cose veramente importanti. Un grazie a tutti i padri, le cui spalle sono state talmente larghe da permettere ai figli di salirci sopra e da li spiccare un salto verso condizioni di vita più agiate. Tuto questo la scrittrice lo fa con uno stile asciutto, quasi freddo. Un ottimo modo, secondo me per rendere omaggio a un uomo a cui probabilmente non sarebbero piaciute inutili smancerie.
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Un padre ed una figlia divisi dal ceto sociale.
Questo saggio autobiografico di Annie Ernaux, che, ricordo, ha vinto il Nobel per la letteratura nel 2022, narra la storia delle sue origini, della sua condizione sociale e del “posto” che occupa nella vita, posto che muta nel tempo e che la porta con il passare degli anni ad un tipo di esistenza diverso ed al successo. Le sue origini ci rimandano ad una famiglia contadina di fine Ottocento, tanta fatica e tanto lavoro, pochi ricordi dei nonni e della loro vita semplice e dura. Ma è la figura del padre quella cui è dedicato il libro, un padre di origini modeste, un onesto lavoratore che, a modo suo, tenta una promozione sociale irta di difficoltà, passando dal lavoro dei campi a quello di operaio e, infine, alla gestione di un bar drogheria. Il rapporto tra padre e figlia tende lentamente ad affievolirsi con il proseguire degli studi di Annie, il padre sembra non capire l’attitudine allo studio della figlia, che vorrebbe impegnata in qualche attività di sostegno alla famiglia: di qui nascono incomprensioni, velati rimproveri, una figlia in cerca di un “posto” diverso, un padre legato a concetti arcaici, comportamenti immutati ed immutabili, frasi e detti di un buon senso superato dai tempi e da certe forme di progresso, insomma, come si direbbe oggi, un padre all’antica. Nel 1967, all’età di 68 anni, il padre muore nel suo letto , probabilmente per una forma di tumore invasivo. “E’ finita”, sussurra la madre sconsolata scendendo la scala che porta alla camera, è finita l’agonia di questo pover’uomo proprio due mesi dopo che la figlia Annie ha ottenuto con pieno merito l’abilitazione all’insegnamento in un liceo.
Il libro che Annie Ernaux dedica al padre, pubblicato da Gallimard nel 1983 e, in Italia, da L’Orma un anno dopo, è un atto d’amore verso il genitore, una persona umile e senza colpe: l’autrice confessa di essersi piegata al volere del mondo in cui vive “un mondo che si sforza di far dimenticare i ricordi di quello che sta più in basso come se fosse qualcosa di cattivo gusto”.
Ed è forse inconsapevolmente divisa tra due sentimenti: da una parte il suo sguardo punta lontano, cosciente che la vita cui tende è ben altro, con nuovi interessi e nuove mete, dall’altro sente con infinita tenerezza di avere un legame profondo con il padre, fatto di rimpianti per non averlo capito a fondo e di nostalgia per una vita più semplice e genuina, confusa ormai nei ricordi di un passato lontano.
Il distacco tra padre e figlia però resta forte, il divario culturale sempre più profondo, la figlia convinta ormai di non avere più nulla da dire, il padre chiuso nella sua vita di tutti i giorni, con le sue solite frasi abitudinarie, le sue conclusioni affrettate, i suoi modi di conversare privi di quell’ironia che è “la marca di un saper conversare che la povera gente non ha, ma che trionfa al piano di sopra, tra la borghesia…”.
Il libro narra tutto questo, il profilo della figura del padre, prima sfocato, si evidenzia sempre più, prima nel tentativo di ricondurre la figlia al posto che la condizione sociale le ha assegnato, poi nella pacata accettazione di una vita tranquilla da pensionato, vita apparentemente serena ma di breve durata.
Lo stile narrativo è quello consueto di Annie Ernaux, teso, raffinato, senza inutili divagazioni. E’ il racconto della sua esperienza individuale, un’autobiografia di un periodo cruciale della sua vita, in cui sono esposti i fatti in modo semplice, così come sono avvenuti. C’è però una tenerezza di fondo, quasi un velato rimpianto per non aver saputo cogliere la richiesta, muta e inconsapevole, di un tentativo di dialogo.
“Il posto” ha vinto in Francia il Premio Renaudot nel 1984, un riconoscimento annunciato per consuetudine simultaneamente al più famoso Premio Goncourt.
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In memoria del padre
Bella scoperta la penna di Annie Ernaux. Cristallina, pochi tratti di penna ed eccoti resi perfettamente atmosfere e sensazioni. Sì, secondo me, se si può usare questa espressione, che ho letto altrove tra l’altro, si avverte tanto l’atmosfera, in questo libro.
Dirò anzi che, in un certo senso, nonostante la storia sia narrata in prima persona e la protagonista spesso coincide con la stessa autrice, trattandosi di un libro -come anche altri da lei scritti -autobiografico, la scrittura della Ernaux è impersonale.
Non vuole descrivere sentimenti o emozioni, ma li suggerisce, va dritto al cuore, alla coscienza. La sua penna è una fredda lama tagliente.
“Il posto” comincia con la morte del padre dell’io femminile narrante e prosegue con un lungo flashback, dalla gioventù di lui, dal suo lavoro come operaio , al suo incontro e matrimonio con la madre della protagonista e la successiva conduzione di un bar-drogheria. Il focus di tutto il libro è la forbice dello scarto generazionale che si allarga sempre più tra il padre e la figlia: fedele ai valori del lavoro manuale, lui non riesce a capire il desiderio di riscatto della figlia, che vuole studiare e diventare insegnante. Il mondo dei libri a quell’uomo, consumato irreversibilmente dalla fatica, sembra vacuo e irto di pericoli per una giovinetta. Come negli altri libri della Ernaux, il bar-drogheria è sempre pieno di gente, ma non ci si sofferma mai su nessun personaggio, sono le loro voci a farsi sentire: chiacchiere, qualche pettegolezzo, ogni tanto riportato anche tra le pagine, la semplicità di un mondo che ormai non c’è più. Tra le tante persone che passano nel loro negozio, c’è ogni giorno qualcuno che non può pagare in quel momento e fa segnare il suo nome del quaderno dei debitori. Qualcuno, addirittura, manda il proprio figlioletto per la vergogna di ammettere che non può pagare quel pacchetto di zucchero. Sullo sfondo campeggia la figura paterna, simbolo di una visione del mondo in cui la protagonista non si ritrova, la consapevolezza di quanto ideali, sogni, speranze per il futuro, valori possano dividere un genitore dalla propria figlia. Attuale e, pur se non dichiaratamente, toccante.
“Presto non avrò più nulla da scrivere. Vorrei ritardare la stesura delle ultime pagine, che siano sempre ancora là da venire. Ma non è più possibile tornare troppo indietro nel tempo, ritoccare o aggiungere fatti, e neanche domandarmi dove fosse la felicità “.
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ringraziamento postumo
Breve romanzo autobiografico in cui l'autrice, alla morte del padre, ne rievoca le umili origini e la dura vita che lo ha visto passare dalle campagne alla fabbrica fino alla gestione di bar-alimentari in un piccolo centro della Normandia. Un uomo semplice, schivo, brusco, pieno di dignità e orgoglio, attivo, onesto, gran lavoratore. Un uomo che parlava francese, ma in modo talvolta sgrammaticato, che si esprimeva con la saggezza dei proverbi, che temeva di essere fuori posto e si sentiva inferiore di fronte alle persone importanti davanti alle quali preferiva non fare domande per “non mettere l'interlocutore in una posizione di vantaggio” . Un uomo intelligente, che in bicicletta portava la figlia a scuola, anche se la considerava “un universo terribile”, pur di consentirle di studiare fino a conseguire una borsa di studio, un'opportunità per lui incomprensibile, fornita dallo Stato “per girarsi i pollici”, ma finalizzata a “farsi una posizione e non sposare un operaio”. Annie, supportata dai genitori, raggiunge i suoi obiettivi: si laurea, si sposa con un colto borghese, ha un bambino, diventa professoressa di Lettere, proprio due mesi prima della morte di suo padre. Il definitivo distacco dal genitore la induce a riflettere, a scrivere, per darsi una spiegazione di quella distanza che si era creata durante l'adolescenza: “una distanza di classe, ma particolare, che non ha nome”.
“Mi sono piegata al volere del mondo in cui vivo, un mondo che si sforza di far dimenticare i ricordi di quello che sta più in basso come se fosse qualcosa di cattivo gusto” (p. 68).
Annie, in un lungo e doloroso percorso, vuole invece far riemergere proprio ciò che il ceto borghese le ha fatto dimenticare; scava nella memoria nel modo più onesto ed oggettivo possibile, senza nulla aggiungere. Si sforza di ridare dignità a ciò che il mondo intellettuale le ha fatto giudicare “di cattivo gusto” nel vano tentativo di riallacciare un dialogo interrotto troppo presto, un'incomunicabilità generazionale resa ancor più aspra da un incolmabile divario culturale.
“Il posto” è il tributo che la Ernaux rende a suo padre, alla sua famiglia, alle sue origini, per “riportare alla luce l'eredità” che, entrando nel mondo del benessere e della cultura, aveva dovuto “posare sulla soglia”. La scrittura come estremo tentativo di espiare la colpa di aver voltato le spalle a chi ci ha messo al mondo, a chi ci ha dato la possibilità di essere diversi, migliori e magari anche più felici. Molto toccante, a mio avviso, il pensiero dell'autrice alla conclusione del libro, considerazione che rende omaggio ai sacrifici di una vita: “Forse il suo più grande motivo di orgoglio o persino la giustificazione della sua esistenza: che io appartenessi a quel mondo che lo aveva disdegnato”. (p. 106)
La prosa è asciutta, essenziale, scarnificata, volutamente piatta: “nessuna gioia di scrivere, in questa impresa mi attengo più che posso a parole e frasi sentite davvero (…) perché queste parole e frasi dicono i limiti e il colore del mondo in cui visse mio padre, in cui anch'io ho vissuto. E non si usava mai una parola per un'altra” (p.42)
Malinconico, sofferto, sincero; mi ha fatto riflettere su quanto, nel bene o nel male, dobbiamo ai nostri genitori, anche se non abbiamo il coraggio di ammetterlo.
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...quando togliere arricchisce...
Libro autobiografico, incentrato sulla figura del padre dell'autrice: un uomo comune, qualunque, di basso ceto sociale, che passa dall' essere contadino, poi operaio, fino a diventare gestore di un bar-drogheria.
Una vita raccontata senza orpelli, senza slanci e artifici...forse perché in fondo così è stata vissuta: un vita fatta di duro lavoro, di piatti semplici, di difficoltà, di complessi di inferiorità mascherati dalla buona educazione e dalla cortesia.
È anche il racconto di una separazione "sociale", ovvero quella che lentamente mette in atto lei, la figlia, nei confronti di questi genitori imbarazzanti con la loro ignoranza, i loro vestiti semplici e dozzinali, i modi di esprimersi dialettali.
Lei che riesce a fare il "salto", a studiare, diventare insegnante di liceo, sposarsi con un borghese abituato a scambi verbali pregni di un' ironia intellettuale decisamente al di sopra della portata della famiglia di lei.
Una sorta di tradimento verso le proprie origini, verso colui che, in fondo, ha sempre sognato di riscattare il proprio stato sociale attraverso i successi della figlia.
Colui che l'accompagnava ogni mattina a scuola in bicicletta.
La Ernaux utilizza una scrittura apparentemente lineare e semplice, ma non lo è affatto, perché ogni parola è ricercata e messa al punto giusto, perché in questo gioco di "togliere il superfluo", di sottrarre, di pulire...anche le virgole assumono la massima importanza.
Quindi, alla fine, ci ritroviamo di fronte ad una narrazione sì semplice, ma raffinata, precisa e distaccata come un'operazione chirurgica, priva di sentimentalismo, ma non di commozione.
Rimane da capire quale sia "il posto" del titolo: il piccolo posto nel mondo occupato da un uomo modesto e dalla vita apparentemente insignificante? O quel luogo sociale astratto in cui non riescono più ad incontrarsi padre e figlia, se non attraverso i desideri di lui e i sensi di colpa di lei?
La Ernaux dice che "si scrive proprio quando non si ha più nulla da dirsi".
Ecco, forse la risposta è in questa frase.
Eppure lei ci ha detto tante cose...
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Recherche la place
La vita di un padre vista con gli occhi e le emozioni di una figlia. Due realtà che si pongono a confronto, che si scontrano nel perenne bisogno di vincere quel debito determinato dal peccato originale del semplice esistere, quel desiderio di trovare il proprio posto nel mondo, la redenzione per quella colpa, per quella posizione sociale meno abbiente, dove le regole sono dettate dal continuo ed incessante costruire, che tanto si scontra con quella realtà borghese in cui la figlia finisce con il ritrovarsi col suo lavoro di maestra, con i suoi anni di studio. Un riscatto sociale voluto ma anche temuto, un riscatto sociale che è sinonimo di allontanamento, di perdita per la consapevolezza che quelle strade che un tempo erano unite sono destinate a non incontrarsi più. L’istruzione quale linea di demarcazione di un affetto.
Annie Ernaux, francese (Lillebonne, Senna Marittima) classe 1940, con “Il posto” offre al lettore un’opera che oscilla tra “il romanzo breve” e il “lungo racconto”, un testo che è ricco di immagini, ricordi, flash back di piccoli gesti e/o espressioni, un insieme di parole che fanno da leva e da colonna portante per ricostruire il mosaico di quella figura che il padre rappresentava, un uomo che con le sue mille sfaccettature ma anche con la sua pura e semplice realtà di essere umano dedito al lavoro e alla dignità, spesso risultava essere un’entità inconcepibile, intangibile, sfuggente. Perenne quel senso di impotenza per quella condizione di povertà, talché nulla ha a significare la sua scalata sociale, il fatto che egli sia stato prima contadino, poi operaio ed ancora gestore di un bar-drogheria. La miseria iniziale sopravvive e si coltiva nel mancato insegnamento, un qualcosa che tra l’altro ardentemente desiderava amando particolarmente imparare e a cui è stato inevitabilmente strappato perché c’era “bisogno nei campi”.
Uno scritto quindi che, con le sue 107 pagine, arriva al lettore per contenuto, riflessioni ma anche stile narrativo. L’autrice è solida, diretta, schietta, disincantata, nel descrivere quell’esistenza prevedibile ma non per questo scontata ed elementare, tanto che nulla risparmia a quel genitore, nemmeno dopo anni dalla morte. E come non rivedere nelle scelte del patriarca di non aderire ad alcun sindacato o partito, nel voler costantemente risparmiare per rinnovare e mantenere attivo il suo negozio per poi riuscire a porre in essere quelle migliorie “in stile moderno” alla facciata proprio nel momento in cui tutti gli altri esercizi tornavano al vecchio, “al rustico”, (chiaramente beffati dalla sorte), uomini che hanno fatto la storia d’Italia.
Considerato un classico moderno, “La place” (titolo originale) è una storia forse non indimenticabile ma sicuramente capace di far pensare al passato con occhi dell’oggi e dello ieri, una vicenda che con le sue taglienti parole invita a capire qual è il proprio “Il posto” in quella società in cui si è sempre chiamati a combattere per quelle domande e ricerche costanti e proprie di ciascun individuo.
«La realtà dimenticata della sua condizione l’ho ritrovata in personaggi anonimi incontrati qua e là, portatori a loro insaputa dei segni della forza o dell’umiliazione»
«Imparare ad essere felici della propria sorte»
«L’uomo attivo non perde un minuto, e alla fine della giornata risulta che ogni ora gli ha portato qualcosa. Il negligente, al contrario, rimanda sempre la fatica ad un altro momento; si addormenta e si distrae in ogni occasione, tanto a letto che a tavola o durante una conversazione; il giorno volge al termine e non ha fatto niente; i mesi e gli anni passano, arriva la vecchiaia, è ancora al punto di partenza»