Il pittore che divora le donne
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Recensione della Redazione QLibri
Notte al museo
Il lettore che si accosti a questo libro nella convinzione di immergersi nella lettura di un romanzo – come la sinossi potrebbe, in parte, indurre a credere – rischierà di restare deluso. Infatti, nonostante le pagine iniziali abbiano il tono convincente di un’ “entrée” da narrativa, già il secondo capitolo insinua il dubbio, più che fondato, sulla natura di questa pubblicazione dell’algerino Kamel Daoud uscita lo scorso mese di gennaio con La nave di Teseo.
Vincitore nel 2019 del premio annuale della prestigiosa Revue des Deux Mondes, “Il pittore che divora le donne” si rivela in definitiva un saggio piuttosto complesso, anche se attraversato da qualche lieve venatura da romanzo, per così dire, in divenire. L’io “narrante” è quello dell’autore stesso che trascorre un’intera notte all’interno del Museo Picasso di Parigi al cospetto delle opere (di alcune in modo particolare) del grande Maestro spagnolo, mentre tutt’intorno la metropoli, cuore di un Occidente spesso sfuggente per chi proviene da altri mondi, dorme il suo sonno inquieto fatto di luci al neon, taxi e gente per le strade.
“Questa notte di ottobre al museo […] ho, in qualche modo, percepito come un uomo può, realmente, divorare una donna, dipingere il suo crimine, confessarlo ed essere ammirato per questo cannibalismo destabilizzante. […]”
La donna “divorata” era una diciottenne, Marie-Thérèse, che Picasso, classe 1881, incontrò proprio nella capitale francese all’inizio degli anni Trenta. “Picasso 1932, anno erotico” è il titolo esplicito di una delle esposizioni presenti in quelle immense sale museali rese ancor più suggestive dall’atmosfera notturna, anche per via dell’assenza di visitatori. Le tele esposte, come una sorta di diario, raccontano una pagina intensa della vita dell’artista, affondando in un erotismo e in una antropofagia, di tipo erotico appunto, che Daoud procede a poco a poco a scandagliare meticolosamente nel corso di quella che per lui diviene la “notte del destino”, espressione – come ben sa qualunque studioso del mondo islamico – carica di richiami alla vicenda del Profeta. Prende così avvio un discorso molto articolato sull’erotismo in quanto rito di caccia, nel quale il cacciatore finisce per farsi divorare dalla preda giungendo a una sorta di “cannibalismo suicida”. La collezione in questione espone una carnalità che turba e affascina nel contempo, rappresentata fin nelle ossa del corpo bramato e fino alla prova che “ogni amore è cannibalismo”.
È a questo punto che lo scrittore e giornalista maghrebino, spettatore solitario e privilegiato per un’intera notte, inizia a immaginare un racconto sconcertante nella sua semplicità: “un jihadista venuto dalla Siria o da Timbuctù o da Algeri o dalla periferia parigina, incaricato di ferire l’Occidente nel cuore del suo cuore: le sue collezioni d’arte. […] Estendere la catastrofe di Palmira ovunque, la distruzione di tele, arte e sculture, segni e curve, ‘fino a purificare la terra di Dio da ciò che non è Dio’, secondo le grida dei fanatici.[…] Il mio personaggio si chiamerà, quindi, Abdellah, lo Schiavo di Dio, mostro nato da carne morta di cadaveri della nostra epoca, il figlio di una sventura che lui perpetua. Un mostro solitario […] che resterà, come me, in piedi, qui, affascinato dai dipinti di questo museo […]. Tentando di cominciare il saccheggio per curiosità prima di intraprendere la sua missione: sfigurare l’Occidente.”
Che cos’è, dunque, l’Occidente, seguendo questi ragionamenti, se non un corpo femminile, una nudità mostrata ed esibita ovunque a più livelli? “Una decomposizione morale, una ricomposizione artistica”. Ecco quindi che i dipinti di Picasso, osceni secondo l’ottica e i parametri di valutazione del suo personaggio, diventano per Daoud, che giunge da un villaggio a trecento chilometri da Algeri, occasione per affrontare e approfondire tutta una serie di interessanti tematiche legate all’Islam: il corpo della donna e i rapporti tra i due sessi, i tabù, l’arte e la rappresentazione della figura umana, il paradiso con le sue perenni vergini (le huri), l’estremismo religioso che sfregia la bellezza artistica e uccide senza pietà alcuna immolando i suoi medesimi strumenti di martirio, le profonde contraddizioni esistenti all’interno delle società arabe e, più in generale, islamiche. Il proprio bagaglio culturale viene analizzato, passato al setaccio e non sempre l’argomentazione che lui porta avanti è facile da seguire. Emergerà, alla fine, il ritratto di un mondo arabo in collera (insanabile?) con quello occidentale, scandalizzato ma anche attratto dalla libertà di costumi, a disagio dinanzi alla nudità dei corpi che viene da esso interpretata come insulto alla sfera divina. L’intensa rappresentazione della carne della giovane Marie-Thérèse, rappresentata da Picasso, così gravida di clandestinità, desiderio, orgasmi incessanti, arriva a coincidere con l’Occidente che è, in breve, un corpo femminile nudo; per questo l’immaginario jihadista Abdellah intende in un certo qual modo convertirlo e, quindi, salvarlo attraverso una furia iconoclasta che esplode rabbiosa contro cose e persone.
“[…] Mi sono spesso posto questa domanda: a cosa è dovuta questa collera che ci impedisce di vivere e ci fa accusare il resto del mondo della nostra sofferenza? […]”
La risposta a cui giunge l’autore, al termine della sua notte insonne trascorsa in questo “tempio della carne” che si è rivelato tale museo parigino, non potrà essere univoca. Tirando le somme del lungo discorso precedente, le pagine conclusive del libro sono rivelatrici di considerazioni particolarmente sorprendenti. Un testo notevole, questo di Kamel Daoud, preciso e ricco di approfondimenti, che cerca di scavare nel cuore di una cultura intera (perché l’Islam non è solo una religione, s’insegna nei corsi universitari di islamistica) con la quale occorre più che mai confrontarsi. La sua è una voce interna molto interessante, figlia di quella stessa cultura, che si interroga in modo costruttivo ed esige persino di trovare risposte.
Tuttavia, a mio parere, non si tratta di una lettura consigliabile a tutti; obiettivamente, occorrono anzitutto nozioni precise che consentano di comprendere appieno certi riferimenti (storici e dottrinali), nonché di addentrarsi meglio in diversi passaggi che, altrimenti, rischiano di risultare piuttosto pesanti. Un romanzo sarebbe stato, forse, più accessibile ai più, e la veste in questo caso adottata allontana “Il pittore che divora le donne” dal coinvolgimento della prosa narrativa. Una pubblicazione, però, pur nella propria complessità, che colpisce e getta semi importanti, parlando di erotismo, “la legge più antica del mondo” (e per niente sconosciuta agli arabi, aggiungerei), e di arte come via possibile per superare la violenza senza tempo che, purtroppo, continua a scandire la storia del genere umano.
Indicazioni utili
- sì
- no