Il party
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Misteri e amicizia
«La stanza dell’interrogatorio è piccola e quadrata. Un tavolo, tre sedie di plastica, una grande finestra alta con il vetro smerigliato sudicio di polvere, l’illuminazione al neon; le nostre facce immerse in un’ombra giallo sporco. Due tazze di tè: una per l’agente di polizia, una donna, e l’altra per me. Al latte, con due cucchiaini di zucchero. Troppo latte, ma non sono nella condizione di potermi lamentare. Il bordo della mia tazza è segnato dalle impronte dei denti là dove, qualche minuto fa, ho morso il polistirene. Le pareti sono biancastre. Mi ricordano i campi da squash sulla Pall Mall dove, solo pochi giorni fa, ho demolito un avversario che occupava una posizione molto più avanzata della mia nella classifica del club.»
Sin dalle prime battute con “Il Party” di Elizabeth day si ha l’impressione di trovarsi non tanto davanti ad un romanzo quanto innanzi ad una sceneggiatura cinematografica in piena regola. Ciò è percepibile già dall’incipit che precede queste mie parole e che a sua volta, nell’opera, è seguito da una vera e propria postilla inserita da Neri Pozza, all’interno della quale viene introdotta una letterale definizione del termine.
«Party: sostantivo.
1. Festa, serata, ricevimento: una riunione sociale con invitati, nel corso della quale si mangia, si beve e ci si diverte.
2. Partito: un raggruppamento politico formalmente costituito che partecipa a elezioni e tenta di formare o di prendere parte a un governo, per esempio “programma elettorale del partito”.
3. Parte: una o più persone che costituiscono uno dei firmatari in un accordo o uno dei campi opposti in un processo, per esempio “la parte avversa”, “la parte civile”»
Ci troviamo in una stanza della polizia per gli interrogatori. Le domande hanno inizio. Il colloquio è registrato presso il commissariato di Tipworth, in Eden Street il giorno 26 maggio 2015. Sono le ore quattordici e venti e l’ispettore Nicky Bridge, insieme al collega Kevin McPherson, pone le sue domande a Mr Gilmur. Martin Gilmour, 3 giugno 1975, è chiamato a rendere una deposizione sul party occorso in data 2 maggio in Premier Inn Tipworth.
Da qui ha inizio una trama molto particolare che oscilla tra molteplici piani e che si sostanzia focalizzando la propria attenzione tanto sul tema dell’ansia sociale caratterizzata dal vivere in una Inghilterra caratterizzata da una rimarcata separazione di classi sociali e sul tema della memoria, una memoria che riguarda l’amicizia tra Martin Gilmour e Ben Fitzmaurice, amici di vecchia data, e che vede il mutare dei sentimenti in un profondo senso di rancore, ossessione, mancata espressione. Mentre Martin ha origini modeste e riesce a studiare in una scuola prestigiosa grazie a una borsa di studio, Ben è il classico rampollo dell’alta borghesia a cui tutto è dovuto per diritto di nascita. I due sono legati da un segreto che proprio durante la festa dei quarant’anni di Ben tornerà a palesarsi a causa di un evento sconosciuto al lettore all’inizio dello scritto e di cui si sa solo non essere accaduto.
In un certo senso, quindi, da questa breve descrizione emerge la tematica dell’outsider che, un po’ come il Martin Eden di London, osserva quella gabbia dorata dall’esterno con il disperato desiderio di farne parte. Ma ciò è davvero possibile? Oppure, in realtà, per quanto ci si possa provare, quella discrepanza è tale che quella scalata sociale non è altro che fittizia rimanendo comunque presente nel tempo come una costante alla base, come un minimo livello da cui partire e persistere inesorabilmente ad essere radicati senza possibilità di appello?
«So che la ricchezza e la classe possono manipolare, ma non avevo mai pienamente afferrato fino a che punto potessero arrivare. Il potere che ti danno è immenso. Nulla ne è immune, nemmeno la verità.»
Attraverso un linguaggio preciso, meticoloso, privo di sbavature e prolissità anche se forse talvolta un po’ troppo scenico e molto meno narrato, Elizabeth Day affronta con grande intelligenza una tematica molto attuale e da sempre oggetto di riflessioni. Mediante una trama semplice, dal buon ritmo narrativo e ben articolata, l’autrice offre al grande pubblico un elaborato che sa far soffermare ad interrogarsi su principi e circostanze che sembrano riproporsi nel tempo come un ciclo clinico. Tuttavia, a tratti ho trovato nell’opera un po’ troppi riferimenti a testi della letteratura classica che hanno fatto perdere di pathos allo scorrimento suscitando una naturale sensazione di déjà-vu che ha portato a un rallentamento della lettura. Ancora, a tratti, la penna dell’autrice tende a rallentare, a risultare piatta, ostica.
In conclusione, una buona prova ma non di quelle indimenticabili.