Il padiglione d'oro
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Morte di un ideale
‘Il padiglione d’oro’ (1956) è una delle opere più rappresentative degli scritti del giapponese Yukio Mishima. Si tratta di un’opera di straordinaria levatura, scritta in maniera magistrale e in cui appaiono, come ombre che sgusciano, nascoste da un meraviglioso turbinare di ninfee sul fiume profondo della letteratura, echi della biografia dell’autore, carica di scelte ed eventi significativi.
Il romanzo, la cui trama finisce per essere soltanto pretesto per mettere in risalto un fremere di audaci pensieri, che prende forma immergendosi in metafore e confronti con la filosofia buddista, s’ispira ad un evento realmente accaduto: la distruzione di un celebre santuario di Kyoto, il Kinkakuji, avvenuta per mano di un giovane accolito buddista. Mishima non fa altro che trasformare il piccolo criminale esaltato in un inquieto filosofo (figure che nella storia spesso hanno finito per sovrapporsi e confondersi fra loro).
Mizoguchi è un ragazzino destinato a diventare monaco, brutto, introverso, incapace di penetrare quella membrana costituita dal mondo esterno a causa della balbuzie che lo affligge, ma sempre dedito a coltivare un ideale: ammirare un giorno il padiglione d’oro di Kyoto, di cui sovente gli parla il padre.
E quando ciò avviene, il padiglione non termina di essere la sua ossessione, continuando a slanciarsi con le sue forme imponenti e immortali, simili alle spire dorate di una creatura celeste, nei suoi sogni e nei suoi pensieri. Un’ossessione che in un primo momento pare stemperare gli aspetti più marcescenti e sadici del suo carattere. Esso tuttavia finisce inevitabilmente per schiacciare la sua esistenza, l’esistenza dell’intero mondo transeunte e come un parassita finisce per suggere tutto ciò che di bello punteggia la sua misera vita o, almeno, è in questa prospettiva che ho letto la morte dell’amico Tsurukawa, il quale “emetteva luce per il solo fatto di esistere” o la tragedia cui va incontro la misteriosa e sensuale donna del tokonoma.
L’incontro con il deforme e cinico Kashiwagi acuisce ancora di più nella coscienza del balbuziente la differenza costitutiva che esiste fra il grigio mondo della vita e il mondo delle idee, quasi fosse questo un parassita importato dall’Occidente figlio di Platone, e che nella pragmatica mente d’orientale di Mizoguchi assume le sembianze del padiglione.
È a questo punto che Mizoguchi si trova di fronte a due strade: imboccare il cammino scelto da Kashiwagi, ovvero quello di sprofondare nelle lusinghe della vita mondana, fra le braccia vaporose di ragazze e prostitute, oppiacei che fanno dimenticare l’ideale, o scegliere una via più impervia, ovvero decretare la morte dell’ideale attraverso l’agire fine a se stesso, il privarsi buddista dello sguardo analitico e generatore di differenze, siano esse anche le sublimi differenze (diremo noi platoniche) di idee e mondo, di Essere e Divenire, in virtù di una luce interiore più baluginante e di cui noi occidentali abbiamo perso il ricordo? È forse quest’ultima via quella che simboleggia il rutilante fuoco che inghiotte il tempio?
“Se incontri il budda, uccidilo;
se incontri i genitori, uccidili;
se incontri i parenti, uccidili;
Soltanto così potrai ottenere la salvezza dell’anima tua,
Soltanto così sfuggirai all’intrico della materia e t’affrancherai”.
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Kinkakuji
Il romanzo si ispira ad una storia realmente accaduta a Kyoto, il Padiglione d'oro fu infatti edificato nel 1937 e raso al suolo dal disastroso incendio appiccato da un monaco nel 1950.
Ricostruito, esso oggi si erge solenne e splendido, ricoperto di foglie d'oro a planare su di uno specchio d'acqua, attorniato di verde.
Protagonisti indiscussi del racconto l'uomo e le sue debolezze, l'architettura religiosa ed il suo potere immortale. Mizogushi di umili origini, giovane monaco buddista instaura fin da bambino un legame estremamente profondo ed insano con il Padiglione d'oro, quel meraviglioso tempio la cui bellezza sembra indistruttibile. Nemmeno i bombardamenti della guerra scalfiscono le sue scaglie dorate. Nemmeno i tifoni divelgono il legno profumato delle sue colonne.
Il germe della follia cresce nel monaco fino all'atto estremo che conduce alla distruzione della bellezza, le fiamme ingoiano il tempio di Kyoto e zittiscono il volo perenne della fenice d'oro.
A tratti disseminato di pagine dedite al filosofeggiare del giovane, esse mi sono state ostili non essendo la filosofia tra i miei argomenti prediletti, eppure le riflessioni scandite da Mishima servono a inquadrare il personaggio di Mizogushi, ad accostarci al deviare della sua mente.
La qualita' descrittiva della penna di Mishima e' da santificare come le feste, per immortalarsi in una scrittura sopraffina dove le parole si congiungono in un amplesso di bellezza, dall'accostarsi di vocaboli e metafore che irradiano le righe d'ombra come raggi di sole all'alba, riflessi su uno specchio d'acqua e ninfee.
Il tempio di Kinkaku-ji e' stato riscostruito, potreste recarvi a Kyoto e vederlo coi vostri occhi.
Oppure potreste attingere all'ampolla degli dei e berne il suo potere, oltre che il suo aspetto, attraverso le pagine di Mishima.
Oppure, ovviamente, potreste fare entrambe le cose.
Buona lettura.
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Spirito e corpo
Nel 1956 Yukio Mishima scrisse il romanzo “Il padiglione d'oro” traendo spunto da un fatto di cronaca di qualche anno precedente.
Il Kinkaku-Ji era uno splendido tempio di Kyoto emblema di bellezza e spiritualità, finché la mano di un monaco novizio decise di appiccare il fuoco, mandando in rovina il luogo sacro, testimone muto dello scorrere dei secoli.
Mishima incentra la sua narrazione sulla figura dell'imberbe monaco, tratteggiandolo nel profondo dell'animo, ripercorrendo la formazione spirituale, addentrandosi in una mente scossa da dubbi, tumulti e talora deliri.
E' un romanzo denso di elementi filosofici, che affiorano di continuo tra le pagine e necessitano di essere colti per comprendere il percorso del protagonista principale e degli altri splendidi personaggi secondari.
La penna lirica e poetica di Mishima incontra e abbraccia la spiritualità più profonda, dando vita ad un flusso narrativo delicato e incisivo, criptico e illuminante.
E' profusa in questo romanzo tutta la filosofia del concetto di bellezza e di spiritualità concepita dall'autore, senza tralasciare figure che divengono sinonimo di solitudine, di passione, di tensione eroica e disperata al sublime e al benessere.
Ritorna il Mishima che sa incantare con i colori di un'alba, con i colori ed i profumi di un bosco bagnato dalla rugiada, con le musiche notturne dei soffi di vento, con l'abbaglio provocato dal luccichio dell'oro e dei fregi di una pagoda.
Eppoi il Mishima che scruta l'animo e lo spirito umano, disegnando uomini emblematici, divisi tra spirito e corpo, colti in un contrasto dilaniante, protesi alla ricerca di se stessi, della luce, della vita.
Un romanzo figlio di una cultura e di una tradizione millenaria, quella orientale, di cui l'autore si fa portavoce, trasmettendo al pubblico tutto il suo amore e la sua dedizione.
Una lettura da approcciare con un pizzico di impegno, per entrare in punta di piedi in un mondo dai colori e profumi inebrianti, dai pensieri e dalle riflessioni profonde.