Narrativa straniera Romanzi Il miele e l'amarezza
 

Il miele e l'amarezza Il miele e l'amarezza

Il miele e l'amarezza

Letteratura straniera

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Nei primi anni duemila a Tangeri, in Marocco, un insospettabile professore è in realtà un pedofilo che abusa di ragazzine, adescate promettendo loro la pubblicazione di poesie sulla rivista che dirige. Agisce indisturbato, senza destare il minimo sospetto, protetto dalle regole imposte dalla cultura e dalla società. Samia, una ragazza di sedici anni sensibile, amante della cultura e della poesia, finisce nella sua trappola. Di ciò che le accade, per vergogna e pudore, non racconta nulla ai genitori, che scopriranno troppo tardi quello che la figlia ha subito. La tragedia che li colpisce e le sue ripercussioni trascinano la coppia in una crisi duratura, che li porterà a invecchiare tra l’odio e il risentimento reciproci; incapaci di lasciarsi, sono ormai uniti più dal dolore che dall’amore. La loro vita sembra destinata a terminare nell’amarezza ma l’arrivo di Viad, un giovane immigrato africano che con gentilezza e affetto si prende cura dei due anziani, porterà un po’ di sollievo, e aiuterà a lenire le ferite che segnano la loro esistenza. Tahar Ben Jelloun racconta una storia di dolore e di speranza in cui il miele dell’amore può ancora addolcire la sofferenza di chi ha subito i colpi del destino e della malvagità umana.



Recensione della Redazione QLibri

 
Il miele e l'amarezza 2022-06-21 11:17:57 Laura V.
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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    21 Giugno, 2022
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Più amarezza che miele

Sullo sfondo della Tangeri degli ultimi decenni si svolge la vicenda al centro del nuovo romanzo di Tahar Ben Jelloun pubblicato in Italia, lo scorso aprile, da La nave di Teseo all’interno della collana “Oceani” e presentato di recente all’ultima edizione del Salone Internazionale del Libro di Torino. Il famoso scrittore maghrebino ritorna nel nostro paese con una dramma familiare che, in verità, finisce per inserirsi in un altro, ormai incancrenito, di lunga data, raccontando al tempo stesso uno spaccato della società del Marocco, sempre ostaggio delle proprie contraddizioni più laceranti.
È straordinariamente abile Ben Jelloun a scandagliare gli angoli reconditi dell’anima della propria terra che lui, nativo di Fès, lasciò una cinquantina d’anni fa per prendere stabile dimora in Francia da dove, tuttavia, non ha mai rinunciato a gettare il suo sguardo attento sull’altra sponda del Mediterraneo. Ancora una volta Tangeri, città cosmopolita da cui sognano di partire i giovani, affascinati dalle luci d’Europa al di là dello Stretto, accoglie una storia che viene narrata attraverso più voci. In quelle alterne dei coniugi Mourad e Malika, principali protagonisti, domina l’infinita amarezza di una esistenza precipitata giorno dopo giorno nel baratro irreversibile dell’infelicità domestica; a esse si aggiungono le voci dei tre figli, soprattutto quella di Samia, adolescente che ama rifugiarsi nei libri e nella poesia e che sul principio degli anni Duemila subisce un abuso sessuale da parte di un insospettabile e rispettato editore che adesca giovani vittime con la promessa di pubblicazione sulla sua rivista letteraria. La “tragedia”, come viene ripetutamente chiamata, si abbatte imprevista sui genitori che finiscono per seppellirsi, come in una sorta di tomba precoce, nel buio seminterrato della loro casa “costruita quando tutto andava bene”. Il dolore per quanto accaduto, l’astio reciproco e l’amaro rimpianto per i tempi in cui l’amore tra loro era forse esistito (nei limite in cui questo possa nascere nei matrimoni imposti dagli usi locali) li accompagnano fino agli anni della vecchiaia, quando nella loro solitudine e nello spazio angusto del seminterrato fa la sua comparsa un giovane immigrato mauritano la cui voce si aggiunge alle precedenti in un intreccio narrativo ben riuscito dalla prosa intensa e coinvolgente.

“Il miele e l’amarezza” è indiscutibilmente un romanzo di denuncia attraverso il quale Ben Jelloun punta il dito non soltanto sul crimine dello stupro, in particolare ai danni di minorenni, ma anche sul quel misto terribile di rassegnata passività, ipocrisia e intima vergogna con cui esso viene vissuto dalla società marocchina in generale che preferisce far finta di non vedere, non parlarne e aggrapparsi ostinatamente a un senso dell’onore che, a tali condizioni, risulta già disonorato in partenza; in tutto questo schifo, inoltre, attecchiscono bene gli abusi da parte di chi, come i sauditi, arriva con borse piene di soldi e pensa di sfruttare l’altrui miseria, comprando a poco prezzo donne, uomini e, purtroppo, pure bambini.

“[…] La gente parla, ma nessuno fa nulla contro questo sistema di prostituzione che non si dichiara come tale […]”.

La denuncia dell’autore, come già in tanti suoi lavori, tocca senza mezzi termini anche altri aspetti del paese nordafricano: la corruzione, ben radicata e diffusa a livello capillare, in primis nell’ambito della pubblica amministrazione, e ormai considerata normale pratica poiché il cosiddetto “bakhshish” consente di rimpolpare modesti stipendi e garantirsi così una maggiore disponibilità economica (nella trama, Mourad, funzionario presso un ministero, viene costretto dalla moglie e dall’ambiente di lavoro a venir meno ai suoi principi e a piegarsi alla logica perversa delle bustarelle); l’immigrazione degli africani subsahariani, in transito verso la penisola iberica, e il razzismo da parte dei marocchini, i quali in molti casi, a quanto pare, si sentono meno africani degli altri; una sorta di irrigidimento dell’Islam, culminante da tempo nella costruzione di moschee e in un sempre maggior numero di donne velate negli spazi pubblici, mentre la scuola musulmana di diritto vigente in Marocco e nel Maghreb più in generale – quella malikita – è sempre stata tra le meno rigide in assoluto per quanto riguarda l’interpretazione dottrinale.

“[…] Un paese dove si costruiscono più moschee che scuole o ospedali è un paese finito. Non ne uscirà niente di buono. Possiamo pregare a casa, possiamo anche pregare dentro di noi, non abbiamo bisogno di una moschea. Mia madre, che era malata, ha pregato seduta per gli ultimi dieci anni della sua vita. Era molto religiosa. Diceva le sue preghiere in silenzio e non disturbava nessuno. Al giorno d’oggi, quelli che credono vogliono farlo sapere a tutti. Che orrore! Che arroganza […]”

Attraverso le parole di uno dei suoi protagonisti (che a tratti dà quasi l’impressione di essere il suo alter ego), Ben Jelloun esprime considerazioni del tutto condivisibili. Il suo è un linguaggio schietto su più fronti, sesso incluso, scevro di inutili edulcorazioni di sorta, probabilmente esecrabile in patria secondo certe ottiche ipocrite e bigotte anche se i suoi testi non vengono banditi dalle librerie del regno, ed è proprio per questo chiamare le cose con il loro nome che amo in modo particolare la sua scrittura; inoltre, ogni volta in cui leggo un suo libro, ho come la sensazione di ritornare nel Marocco che ho conosciuto e vissuto per diverso tempo in passato, ritrovando tra le pagine non soltanto luoghi, ma persino mentalità e modi di vivere della sua gente. Al di là della vicenda di fantasia, dunque, anche il romanzo in questione si rivela perfettamente aderente alla realtà locale.
Una lettura scorrevole, molto istruttiva e interessante. Non sarà forse il migliore Tahar Ben Jelloun, se paragonato a quello di diverse pubblicazioni precedenti, ma si tratta comunque di una prova più che buona dello scrittore marocchino che, come di consueto, non manca di suscitare nei lettori emozioni e riflessioni non di poco conto, anzitutto sul senso dell’umano vivere al di là di ogni possibile contesto culturale. E anche stavolta, infine, il miele è poco e l’amarezza tanta.

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