Il mare
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Fra passato e presente, fra amore e morte
Un viaggio a ritroso nel tempo, fra presente e passato, dove i ricordi della giovinezza si intersecano con la triste condizione esistenziale di un uomo (il protagonista Max Morden, storico dell’arte) ormai anziano che deve fare i conti con un lutto recente (quello della moglie). I pensieri vanno continuamente alle estati passate nella stessa località di villeggiatura dove si ritrova molti anni dopo, ed in particolare ai Grace, la famiglia vicina di casa di quelle afose estati. E’ l’amore il sentimento che Morden principalmente rievoca, sottoforma di attrazione sessuale per lo statutario corpo della signora Grace o di attrazione emotiva adolescenziale nei confronti della coetanea Chloe. Ma assieme all’amore c’è anche la morte a far capolino nei suoi ricordi, ed un segreto, che verrà svelato solo alla fine della narrazione. L’anello di congiunzione fra passato e presente è il mare, da cui il titolo di quest’interessante romanzo che sicuramente consiglio.
Indicazioni utili
I FANTASMI DELLA MEMORIA
“Il passato mi batte dentro come un secondo cuore.”
“Il mare” è un ambizioso romanzo sul tempo e sulla memoria, sul rapporto che il presente instaura con il passato (e con il futuro), e sul ruolo dei ricordi all’interno di questa reciproca relazione. Il pensiero corre ovviamente a Proust e alla sua “Recherche” – è quasi un riflesso condizionato - ma ad essere sinceri il paragone con lo scrittore francese sarebbe del tutto fuorviante. Anzitutto, ciò che in Proust permette di “ritrovare” il passato è la memoria involontaria, innescata da impressioni e accadimenti casuali e imprevedibili, mentre Max Morden, l’io narrante de “Il mare”, cerca invece metodicamente di rievocare il passato, in lui (apparentemente) così ben impresso nella memoria, traendone dal confronto con il presente non tanto una resurrezione miracolosa quanto un impietoso ridimensionamento. Cambia quindi il senso, il rapporto di forze tra le diverse fasi temporali della vita: in Proust è il passato che irrompe nel presente, in Banville è il secondo che forza le porte del primo. Il fatto è che Max Morden non è interessato tanto a recuperare il passato, quanto a cercare in esso delle ragioni per continuare a vivere nel presente. Il passato non è quindi un patrimonio mitico cui attingere per dare un senso “ultimo” alla propria esistenza, ma (mi si perdoni la metafora suggeritami dal titolo) un salvagente per non soccombere al dolore e alla mediocrità del presente, e ancor di più alla mancanza di prospettive del futuro. Anzi, per meglio precisare, il protagonista al passato chiede qualcosa in più: il segreto stesso della propria identità, ossia quel filo rosso che collega l’undicenne ragazzino in vacanza a Ballyless al sessantenne vedovo tornato sui luoghi della propria infanzia. Ma questo tentativo è fatalmente votato all’insuccesso: Max Morden non riuscirà a far collimare i due “io”, così come non riuscirà a sovrapporre i luoghi, le cose e le persone di un tempo (irrimediabilmente deformate da una memoria selettiva e tendente a sublimare i ricordi) ai luoghi, le cose e le persone di oggi. Paradossalmente è proprio la moglie moribonda sul letto d’ospedale a pronunciare quelle parole («Io ho fermato il tempo») che il protagonista cerca invano di mettere in pratica. La sua sconfitta in fondo assomiglia curiosamente a quella del generale de “Le braci” di Sandor Marai (il libro da me letto prima de “Il mare”: quante misteriose coincidenze nel mondo della letteratura!), e similmente a quest’ultimo è destinato a non trovare risposta agli interrogativi portati dentro per tutta la vita.
In questa virtuosistica alternanza di piani temporali Banville non sfugge al rischio di essere in qualche modo artificioso: la sua opera sa in effetti un po’ di fredda e calcolata operazione intellettuale. Egli sa cesellare i ricordi con finezza e preziosismo rari (ad esempio, le lentiggini di una giovane donna ricordano al protagonista le macchioline marroni del guscio rotto di un uovo d’uccello scoperto mezzo secolo prima ai piedi di un nido), ma è come se il protagonista fosse sempre più intento a osservare se stesso che a vivere o a immedesimarsi nel suo io passato. Ciò che Max Morden guadagna in credibilità psicologica (con quella tensione dialettica irrisolta che decreta l’insuccesso della sua ricerca) il lettore perde in tensione narrativa. Infatti non c’è mai una vera fusione tra i due Max, cosa che Banville esplicita più volte, parlando del suo personaggio come di un osservatore esterno, di un fantasma (ad esempio nella rievocazione di una serata in riva al mare con Myles e Chloe si legge: “Ma chi è che indugia sulla riva nel crepuscolo, accanto al mare che si oscura… Quale versione fantasma di me osserva noi, loro – quei tre bambini – mentre si fanno sempre più indistinti nell’aria cinerina…”). Il protagonista appare sempre sdoppiato, è qui e là, è nel presente e nel passato, e questo sdoppiamento crea – ad essere sinceri – un senso di straniamento che rende a tratti disagevole la lettura. Ciò che manca, al di là delle belle descrizioni delle estasi erotiche di quando Max era un ragazzino in vacanza o del calvario vissuto con la morte della moglie, è proprio la voluttà, il desiderio da una parte, e il dolore, la sofferenza dall’altro: tutto è freddo, algido, quasi distaccato e impersonale, come la visione di un astro lontanissimo scrutato col telescopio.
Espresse doverosamente – e forse un po’ troppo severamente - queste perplessità, vorrei comunque rendere giustizia alla impareggiabile maestria stilistica di Banville. Se le figure del romanzo non riescono mai ad entrare nella galleria dei personaggi indimenticabili (fatta forse eccezione per Myles – un omaggio al “Giro di vite” di James? -, l’inquietante gemello autistico di Chloe, a lei legato da un sinistro e morboso rapporto), la prosa di Banville è invece di prim’ordine. Lo scrittore irlandese usa un vocabolario d’altri tempi, erudito ed elegante, facendo soprattutto sfoggio di una aggettivazione sofisticata e a tratti onomatopeica (i passi “sofistici” delle galline, lo sguardo “gnomico” di una bambina, la quiete “fioccosa” di un hotel ne sono solo alcuni esempi). L’assenza di un vero e proprio climax è compensato da un modo molto efficace di organizzare il testo, per mezzo dei salti temporali che si incastonano l’uno nell’altro, e soprattutto della chiusura “ad effetto” dei singoli paragrafi. Ma è soprattutto nell’uso dei riferimenti a una cultura “alta” che eccelle Banville, in ciò identificandosi alla perfezione con l’io narrante il quale, essendo un critico d’arte, infarcisce le sue rievocazioni con riferimenti alquanto calzanti a dipinti e pittori. Se a ciò si aggiunge l’accurata e “analitica” finezza con cui Max Morden esplora la sua vita, si riesce ad avere un quadro abbastanza esauriente della magistrale arte “rétro” di John Banville, raffinato epigono – in questo senso lo si può affermare senza tentennamenti – di Marcel Proust e di quant’altri (da James alla Woolf) hanno saputo anteporre lo stile ai contenuti, la forma alla sostanza, l’arte alla vita.