Narrativa straniera Romanzi Il Grande Romanzo Americano
 

Il Grande Romanzo Americano Il Grande Romanzo Americano

Il Grande Romanzo Americano

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Gil Gamesh, l'unico lanciatore che abbia mai provato a uccidere l'arbitro. Letteralmente. O l'ex carcerato John Ball, «il Babe Ruth della galera», il prima base che non ha mai battuto un fuoricampo da sobrio. Se non vi ricordate di loro, né dei Ruppert Mundy, la prima e unica squadra senzatetto di un campionato maggiore di baseball, non preoccupatevi: è colpa di un complotto comunista (e di uno scandalo capitalista) se la memoria della Patriot League è stata interamente cancellata dalla storia americana. Philip Roth trasforma il baseball da sport nazionale e mito intoccabile in un fuoco di fila di invenzioni comiche e personaggi che sarà difficile dimenticare. Uno dei romanzi più divertenti di Philip Roth - pubblicato nel 1973 e da tempo introvabile - torna in libreria in una nuova traduzione.



Recensione della Redazione QLibri

 
Il Grande Romanzo Americano 2014-11-24 20:40:44 Rollo Tommasi
Voto medio 
 
3.3
Stile 
 
4.0
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3.0
Rollo Tommasi Opinione inserita da Rollo Tommasi    24 Novembre, 2014
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La versione di Smitty

“Smitty”, alias Word Smith, ottantasettenne giornalista sportivo in pensione, fanatico dell'allitterazione – strana ma proficua dote, che l'ha fatto entrare in familiarità con quattro Presidenti degli Stati Uniti –, amico di scrittori (un irascibile Ernest Hemingway su tutti), è la voce narrante della storia del baseball americano... o, meglio, della dimenticata Patriot League.
Già, perché tutti conservano memoria delle altre due leghe, la American League e la National League, e delle loro leggende, ma nessuno sembra aver memoria degli eroi della Patriot League. Perciò, come al solo Ismaele è consentito tramandare la storia di Moby Dick, in quanto unico marinaio sopravvissuto al naufragio del Pequod, così soltanto Smitty è in grado di riportare alla luce le gesta dei Ruppert Mundy: dai successi degli anni '30 alla perenne trasferta dell'anno 1943, dovuta all'affitto – in verità un “esproprio” – dello stadio di casa, utilizzato dai militari destinati a partire per la Normandia (compresi i giocatori di baseball chiamati alle armi).
Nel leggendario racconto dell'irriducibile Smitty rivivono tra gli altri:
Gilbert Gamesh (detto “Gilgamesh”), il magico lanciatore capace di non far vedere una palla agli avversari per tutti i nove inning che compongono una partita, così come di attentare alla vita dell'incorruttibile arbitro che gli infliggerà (per squalifica: violazione del regolamento) la prima sconfitta della sua carriera;
Roland Agni, primo battitore nelle statistiche della Patriot League, eppure impossibilitato a lasciare la squadra dei Mundy, a causa – questa è la voce che gira! – di un incombente complotto comunista contro il baseball americano;
Big John Baal, meraviglioso battitore a condizione di essere completamente ubriaco in campo, degno figlio di “Spit” Ball, il lanciatore noto per la schifosa abitudine di... beh, leggetelo da voi.

Ne “Il grande romanzo americano” – pubblicato per la prima volta nel 1973 – Philip Roth ruba i panni di un ultraottantenne rinchiuso in un polo geriatrico assieme alle sue inesauribili memorie agonistiche. Basterebbe il nome di quest'ultimo – Word Smith, ovvero “cesellatore della parola” – ad intuire l'incedere istrionico e irriverente (ben oltre il limite del politicamente scorretto) inventato dall'autore per stare al passo con il suo caustico personaggio, una sorta di raccoglitore enciclopedico di aneddoti sportivi determinato a porre rimedio al più squallido caso di censura che gli Stati Uniti ricordino... a suo dire, naturalmente.
Un godibile esercizio di stile, ben lontano dai libri più conosciuti e osannati di Roth (“Pastorale americana”, “La macchia umana”, “Lamento di Portnoy”); un libro non così penalizzato dall'uso di termini tecnici come qualcuno ha sostenuto (in fondo, per cogliere l'ironia del racconto non è necessario essere patiti del baseball).
La questione è piuttosto se l'argomento puramente sportivo possa piacere o meno (in questo secondo caso è meglio forse provare con altro). E comunque, v'è da dire, dalle 400 pagine del libro si sarebbe potuto tirar via qualche episodio di troppo, senza portare il racconto a risentirne.
L'obiettivo di Roth è comunque raggiunto: attraverso le comiche vicissitudini dei Ruppert Mundy disegnare (e disdegnare) l'America nelle sue fondamenta costitutive – “Il grande romanzo americano” non è che questo –, oltre che il “tipo” sportivo nel suo nocciolo, ovvero l'essere eternamente ragazzo anche nel pieno del successo (o dell'insuccesso): “ciò non toglie che la loro più grande aspirazione sia andare a stabilirsi in una casetta nel folto di un bosco alla prima occasione, cucinarsi selvaggina a pranzo e a cena, o semplicemente lasciarsi trasportare dalla corrente dentro una comoda canoa, con Madre Natura come unica compagna femminile. Come tutti sanno, i ragazzi vorrebbero essere dei grandi giocatori di baseball, mentre i grandi campioni vorrebbero essere ancora dei ragazzi”.

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Consigliato a chi ha letto...
i libri di Paolo Villaggio, apprezzando quel tipo di umorismo.
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