Il Grande Romanzo Americano
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Recensione della Redazione QLibri
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La versione di Smitty
“Smitty”, alias Word Smith, ottantasettenne giornalista sportivo in pensione, fanatico dell'allitterazione – strana ma proficua dote, che l'ha fatto entrare in familiarità con quattro Presidenti degli Stati Uniti –, amico di scrittori (un irascibile Ernest Hemingway su tutti), è la voce narrante della storia del baseball americano... o, meglio, della dimenticata Patriot League.
Già, perché tutti conservano memoria delle altre due leghe, la American League e la National League, e delle loro leggende, ma nessuno sembra aver memoria degli eroi della Patriot League. Perciò, come al solo Ismaele è consentito tramandare la storia di Moby Dick, in quanto unico marinaio sopravvissuto al naufragio del Pequod, così soltanto Smitty è in grado di riportare alla luce le gesta dei Ruppert Mundy: dai successi degli anni '30 alla perenne trasferta dell'anno 1943, dovuta all'affitto – in verità un “esproprio” – dello stadio di casa, utilizzato dai militari destinati a partire per la Normandia (compresi i giocatori di baseball chiamati alle armi).
Nel leggendario racconto dell'irriducibile Smitty rivivono tra gli altri:
Gilbert Gamesh (detto “Gilgamesh”), il magico lanciatore capace di non far vedere una palla agli avversari per tutti i nove inning che compongono una partita, così come di attentare alla vita dell'incorruttibile arbitro che gli infliggerà (per squalifica: violazione del regolamento) la prima sconfitta della sua carriera;
Roland Agni, primo battitore nelle statistiche della Patriot League, eppure impossibilitato a lasciare la squadra dei Mundy, a causa – questa è la voce che gira! – di un incombente complotto comunista contro il baseball americano;
Big John Baal, meraviglioso battitore a condizione di essere completamente ubriaco in campo, degno figlio di “Spit” Ball, il lanciatore noto per la schifosa abitudine di... beh, leggetelo da voi.
Ne “Il grande romanzo americano” – pubblicato per la prima volta nel 1973 – Philip Roth ruba i panni di un ultraottantenne rinchiuso in un polo geriatrico assieme alle sue inesauribili memorie agonistiche. Basterebbe il nome di quest'ultimo – Word Smith, ovvero “cesellatore della parola” – ad intuire l'incedere istrionico e irriverente (ben oltre il limite del politicamente scorretto) inventato dall'autore per stare al passo con il suo caustico personaggio, una sorta di raccoglitore enciclopedico di aneddoti sportivi determinato a porre rimedio al più squallido caso di censura che gli Stati Uniti ricordino... a suo dire, naturalmente.
Un godibile esercizio di stile, ben lontano dai libri più conosciuti e osannati di Roth (“Pastorale americana”, “La macchia umana”, “Lamento di Portnoy”); un libro non così penalizzato dall'uso di termini tecnici come qualcuno ha sostenuto (in fondo, per cogliere l'ironia del racconto non è necessario essere patiti del baseball).
La questione è piuttosto se l'argomento puramente sportivo possa piacere o meno (in questo secondo caso è meglio forse provare con altro). E comunque, v'è da dire, dalle 400 pagine del libro si sarebbe potuto tirar via qualche episodio di troppo, senza portare il racconto a risentirne.
L'obiettivo di Roth è comunque raggiunto: attraverso le comiche vicissitudini dei Ruppert Mundy disegnare (e disdegnare) l'America nelle sue fondamenta costitutive – “Il grande romanzo americano” non è che questo –, oltre che il “tipo” sportivo nel suo nocciolo, ovvero l'essere eternamente ragazzo anche nel pieno del successo (o dell'insuccesso): “ciò non toglie che la loro più grande aspirazione sia andare a stabilirsi in una casetta nel folto di un bosco alla prima occasione, cucinarsi selvaggina a pranzo e a cena, o semplicemente lasciarsi trasportare dalla corrente dentro una comoda canoa, con Madre Natura come unica compagna femminile. Come tutti sanno, i ragazzi vorrebbero essere dei grandi giocatori di baseball, mentre i grandi campioni vorrebbero essere ancora dei ragazzi”.