Il colpo di testa
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Se le "impressioni" hanno più forza dei fatti
Il colpo di testa è stato scritto da Ford Madox Ford nel 1933, quando l’autore aveva sessant’anni, e rappresenta il primo capitolo di una progettata trilogia centrata sul personaggio di Henry Martin Smith ed ambientata negli anni della Grande Depressione. Madox Ford non completerà la trilogia, riuscendo solo a scriverne il secondo capitolo, Henry for Hughes, peraltro mai tradotto in italiano come la grande maggioranza delle opere di questo misconosciuto autore.
In questo romanzo l’autore porta alle estreme conseguenze le teorie sulla narrativa che aveva espresso in molti molti saggi e che aveva sperimentato nelle sue opere antecedenti (su tutte The Good Soldier): la necessità che la narrazione non sia oggettiva e cronachistica, ma derivi dalla percezione che di essa hanno i personaggi. Questo è per Madox Ford l’unico modo di conferire realismo alla narrazione, perché nella realtà i fatti non ci si presentano mai in forma ordinata e oggettiva, ma filtrati e selezionati da come noi li abbiamo assorbiti. Ne deriva, tra l’altro, che la narrazione, per raccontare davvero, non può e non deve seguire un preciso ordine cronologico, ma deve svolgersi lungo il tempo interiore ricreato dalle sensazioni, dalle impressioni e dalla memoria dei personaggi; ancora, il dialogo diretto deve lasciar posto al racconto indiretto, filtrato dalla memoria, perché nessuno è in grado di ricordare esattamente cosa ha detto e cosa ha ascoltato durante un dialogo, mentre ne può riferire il senso attraverso una ricomposizione personale e necessariamente indiretta.
Nell’ultimo capitolo di un altro romanzo del nostro, Una telefonata, nel quale l’autore si rivolge direttamente al lettore per spiegare tra l’altro il suo modo di scrivere, Madox Ford ci spiega con un esempio questo suo modo di intendere il narrare, e dice:
Voi, probabilmente, rendereste un dialogo così: “Tendendo una mano, avvolta in un tulle color panna, Mrs Sincue esclamò: ‘Un’altra tazza di te, caro?’ ‘Grazie, due zollette,’ rispose l’ospite. ‘Dunque, si dice in giro che il colonnello Hapgood è scappato con la cameriera francese di sua moglie.’
Io probabilmente la metterei così: “Dopo una breve, svagata conversazione, l’ospite di Mrs Sincue, chinando i bruni occhi a terra, disse con voce che non tradiva né esultanza né rammarico: ‘Il povero vecchio Hapgood ha tagliato la corda con Nanette. Ve la ricordate Nanette, che indossava un grembialino coi merletti tutt’intorno e la crestina sui capelli ricci?’
E’ evidente a mio modo di vedere, da questo se si vuole banale esempio, quello che vuole dirci Madox Ford, ovvero la scarsa importanza che attribuisce agli elementi oggettivi (il te, lo zucchero, il vestito, la nazionalità della cameriera) e il fatto che egli, proprio omettendo questi particolari e concentrandosi sulle impressioni, su elementi soggettivi, su particolari apparentemente secondari ci restituisce non solo le stesse informazioni che ci dà il primo dialogo, ma le arricchisce di un contesto, di un’atmosfera che ci aiutano a capire meglio. Qui si vede appieno, secondo me, l’ascendenza che sulla scrittura di Madox Ford ha avuto uno dei suoi venerati maestri, quell’Henry James maestro dell’omesso.
Tornando a Il colpo di testa, in questo romanzo l’elemento che colpisce maggiormente è proprio la narrazione non temporalmente lineare portata a cifra stessa del romanzo. Questa modalità di scrittura era già stata – come detto – usata da Madox Ford quasi vent’anni prima ne Il buon soldato (e probabilmente anche nella tetralogia Parade’s End, che purtroppo l’editoria nostrana non ci ha ancora dato il piacere di conoscere per intero) ma qui si aggiunge un elemento apparentemente secondario ma a mio modo di vedere decisivo: mentre Il buon soldato è scritto in prima persona da uno dei protagonisti, che al termine delle vicende le racconta come se fosse accanto a un caminetto, Il colpo di testa è scritto in terza persona. Questo espediente narrativo rappresenta secondo me un ulteriore salto nella poetica di Madox Ford, perché è chiaro che se è in qualche modo normale che i ricordi di un narratore in prima persona si affastellino, che chi racconta fatti che ha vissuto in prima persona li ridisegni, li reinterpreti secondo ordini e priorità personali, ciò non è affatto scontato, e a prima vista neppure giustificato quando il narratore è un io terzo, che tutto dovrebbe sapere e tutto dovrebbe ordinare secondo un preciso filo logico. Madox Ford ci avverte, con quell’uso della terza persona, che ormai, in un’epoca in cui tutte le certezze sono crollate, che annaspa nella crisi dopo essere appena uscita da una guerra devastante, (e che si avvia ad un’altra guerra ancora più spaventosa, ma questo l’autore non poteva saperlo) non esiste più nulla di oggettivo, e che neppure la possibilità di osservare dall’esterno una vita ed i suoi casi ci permette di essere distaccati da ciò che quella vita ci comunica. Ancora una volta, quindi, Madox Ford ci si presenta come un grande autore moderno, che ha saputo esprimere letterariamente il disfacimento dei valori su cui si fondava la società borghese.
E che l’oggetto principale della narrazione sia la società borghese e il suo disfacimento è chiaramente percepibile dalla storia e dal contesto in cui si svolge.
Henry Martin Aluin Smith, il protagonista, è il rampollo trentacinquenne di un industriale che negli Stati Uniti produce croccante al pistacchio (il libro, nella sua tragicità, è colmo di una sottile ironia). Lo incontriamo in Provenza la mattina del 15 agosto 1931 mentre sta uscendo in barca dal porto per suicidarsi annegandosi. E’ ormai senza soldi a causa di speculazioni errate, ha fallito come scrittore e vuole farla finita.
Attraverso una serie di flash-back anche contorti ed innestati uno dentro l’altro veniamo a conoscere la sua vita, il suo difficile rapporto con il padre gretto e tirannico, l’esperienza poco gloriosa come soldato durante la guerra, i suoi tristi amori con donne che non ha amato e che non lo amavano, ed il suo incontro, la sera prima, con un ricco industriale inglese di nome Hughes Monckton Smith, sorta di suo doppio, a partire dal nome, che però ha apparentemente dalla sua il successo economico e sociale. Henry Martin sarà incapace di suicidarsi, troverà il corpo dell’amico, lui sì suicida, e deciderà di divenire Hughes, con la complicità di una buona somiglianza e dell’irriconoscibilità del cadavere di quest’ultimo. Il suo tentativo di sostituire una vita fallimentare con una di successo, tentativo che scoprirà essere stato favorito dallo stesso Hughes, si risolverà però, se non in un fallimento drammatico, in una sorta di indeterminatezza esistenziale, che lo lascerà nelle stesse condizioni psicologiche di prima, circondato da strani personaggi che ovviamente si interessano a lui perché lo credono un altro. Il romanzo non ha un vero e proprio finale perché, come detto, era pensato come parte di una trilogia.
La parabola di Henry Martin diviene quindi sia una parabola esistenziale – le modalità con cui cerca di mutare la propria identità sono singolarmente simili a quelle adoperate da Jack Nicholson, descritte da Michelangelo Antonioni in Professione reporter – sia una parabola sociale, come testimonia la contemporaneità della storia narrata rispetto all’epoca in cui fu scritta. Madox Ford aveva di sicuro capito il carattere dirompente della crisi nella quale l’epoca in cui viveva era stata fatta precipitare dall’ingordigia e dall’inettitudine del sistema economico e finanziario, e aveva deciso di fornircene una rappresentazione plastica “in diretta”, sia pure attraverso la forma mediata del suo impressionismo letterario. Nonostante lo stile di scrittura molto americano che caratterizza questo romanzo siamo lontani dalla denuncia diretta delle conseguenze della Depressione di uno Steinbeck, ma a volte le “impressioni” acquistano una forza che i fatti non hanno. Non sappiamo come Madox Ford avesse deciso di terminare la storia di Henry Martin ma, sia pur parzialmente, possiamo gustare anche attraverso questo suo romanzo la capacità che aveva di parlarci con estrema originalità ed acume di mali che oggi ci si ripresentano quasi identici. Purtroppo necessita dire che oggi chi si suicida non sono gli Hughes Mockton o gli Henry Martin, ma i tanti che subiscono le conseguenze delle loro azioni.