I portatori d'acqua
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Recensione della Redazione QLibri
Macerie della Storia tra sentimenti e radici
Siamo tutti portatori d’acqua, sia essa quella con cui si riempie il secchio a una sorgente o la stessa linfa vitale che costituisce per la maggior parte il nostro organismo. Da tale considerazione, in apparenza scontata e banale, è forse possibile prendere le mosse per recensire questo romanzo di Atiq Rahimi che catapulta il lettore in una storia drammatica e affascinante tra Europa e Asia.
In verità, sono due, e ben distinte, le vicende narrate che procedono in parallelo all’indomani dell’11 marzo del 2001, data funesta che resterà marcata a fuoco negli annali della barbarie e dell’oscurantismo più incredibili. Chi non ricorda, infatti, l’abbattimento a suon di dinamite dei due Buddha, giganteschi e millenari, scolpiti nella roccia della valle di Bamiyan, in Afghanistan, a opera del regime talebano all’epoca al potere?
A Kabul, ancor prima dell’aurora, Yussef inizia quella giornata come una delle tante della propria grama esistenza di fatiche. Curvo e ingrigito anzitempo, il pover’uomo fa il portatore d’acqua, mestiere che ha ereditato dal padre, al pari di un bastone di giunco e un otre di pelle di capro. Da quando è esplosa la siccità, e non nevica più nemmeno sulle montagne dell’Hindu Kush, il suo lavoro è stato rivalutato poiché solo lui, assurto a una sorta di ruolo di “salvatore degli assetati”, conosce la via sotterranea di un’antica sorgente avvolta nella leggenda e può così portare l’acqua alla moschea e alle famiglie del quartiere; persino il mullah, che impartisce ordini e sguinzaglia i soldati alla ricerca di fedeli da trascinare a forza alla preghiera dell’alba, dipende da lui per gli approvvigionamenti idrici. Della famiglia non gli resta più nessuno, se non la giovane e silenziosa cognata, Shirin, che suo fratello maggiore ha lasciato a casa partendo tempo addietro alla volta dell’Iran e sulla quale ora il portatore d’acqua ha in teoria diritto di vita e di morte. A una infinità di chilometri di distanza, a Parigi, un altro afghano, Tamim, si appresta ad alzarsi con il proposito di abbandonare moglie e figlia per trasferirsi ad Amsterdam, città dove si reca abitualmente per lavoro e ha una relazione extraconiugale con una misteriosa ragazza, Nuria, accanto alla quale desidera ora vivere. Da lunghi anni è soltanto “un afghano impagliato” che nell’esilio ha sepolto ricordi e nostalgia, pure il suo stesso nome, sostituito dal più occidentale Tom, per travestirsi da cittadino francese che, tuttavia, continua sempre a smarrirsi fra le due culture; la lingua persiana si ostina a dominarne pensieri ed emozioni, sebbene questi vengano poi espressi in quella francese. Una strana sensazione di déjà-vu, inoltre, scandisce la sua vita senza gettarlo però nell’inquietudine, facendolo anzi sentire padrone del tempo e conscio come di una vaga profezia dal sapore del sogno, mentre la propria perenne condizione di esiliato affiora non meno consapevole.
“[…] Scrivendo in persiano si rende però conto che le sue parole francesi, prese in prestito fresche fresche dai dizionari, non hanno mai vissuto dentro di lui. Sono estranee ai suoi pensieri, ai suoi sentimenti… in esilio nella sua anima afghana, che lui vorrebbe tanto travestire da intelletto francese. Invano. […]”
Attraverso una prosa molto bella e di grande profondità, Rahimi, in asilo politico in Francia ben dal 1984, ci parla di sentimenti e radici, porgendo al lettore pagine intense in cui il suo Afghanistan emerge in tutta la miseria (non solo materiale) della propria storia recente, ma anche come luogo di memorie, e in un certo qual modo pure di rimpianti, smarrito in una lontananza ormai satura di macerie dell’anima insanabili e ridotte alla stregua di quelle lasciate dai maestosi Buddha di Bamiyan. L’intreccio delle vicende dei due protagonisti, nell’alternanza ben studiata dei capitoli, offre una lettura interessante da cui non si fa fatica a lasciarsi conquistare; in particolare, della storia di Tamim/Tom colpisce questa continua fuga dalle origini per trovare rifugio in menzogne, le proprie e altrui, alle quali è preferibile credere pur di non affrontare la fragilità del dubbio e d’improvviso viene naturale domandarsi se in questo personaggio tormentato non si debba vedere, magari limitatamente ad alcuni aspetti, un alter ego dello stesso autore, considerato il suo status di naturalizzato francese. Di certo, come portatore d’acqua, l’esiliato in Francia non può essere d’aiuto né a se stesso né agli altri poiché la sorgente della propria linfa vitale si è prosciugata, come infine qualcuno gli sentenzia, mentre in patria Yussef, abbandonatosi alla stanchezza e all’ossessione amorosa, rifiuta con un moto di ribellione di riempire ancora il vecchio otre. Sebbene sfuggenti e quasi invisibili fin dall’inizio del romanzo, entrambi i personaggi femminili di Shirin e Nuria risultano molto ben riusciti, così come anche quello del venditore indù Lala Bahari, suggellando una dimensione doppia, irreale, onirica che nella parte conclusiva disorienterà il lettore fino alle tre scarne notizie di cronaca riportate in chiusura.
Una bella novità editoriale, già pubblicata Oltralpe lo scorso anno, forse priva negli ultimi capitoli dello stesso incanto che caratterizza i primi, ma un’opera comunque più che meritevole di lettura che, oltretutto, ha il merito di riportare l’attenzione occidentale sul dramma, quello afghano, spesso dimenticato e, vista la forte instabilità dell’area, in verità mai concluso.