Génie la matta
Editore
Recensione Utenti
Opinioni inserite: 2
Amore di mamma
Questo è un romanzo atroce e crudele, una storia amara e infelice, uno scritto terribile, oscuro e contorto. Per molti versi ricorda quel libro altrettanto disumano, sofferto, ferino che narra una triplice orripilante realtà, appunto “La trilogia della città di K.”, di Agota Kristoff.
Ambedue sono romanzi feroci, quanto di malevolo e iniquo risalta dalle loro storie è accentuato dal fatto che in ambedue i casi le vittime protagoniste sono anime innocenti, donne struggenti, pratiche oltre che accorate, e bambini dolcissimi, teneri ed affettuosi oltre ogni dire.
Più precisamente, mamme nobili, sollecite, attente senza parere, dedite ad ogni rinuncia, patema e sacrificio per le loro creature; e figlioli delicati, sensibili, intelligenti, perciò più fragili perché già in grado di recepire appieno, ad onta dei pochi anni di vita, la crudeltà disumana che li scalfisce già all’alba della loro esistenza. “Genie la matta” non ha nulla a che fare con disturbi della mente e case di reclusione per pazienti problematici, è solo una etichetta di comodo, una delle tante affibbiate da sempre alla stridente contraddizione tra il bene ed il male, applicato con protervia al dualismo uomo donna, dominatore e dominata, che si avvera in scala diversa e differente intensità in ogni tempo ed in ogni luogo.
La protagonista, la giovane Eugenia detta Genie, è perfettamente sana di mente, ma è da tutto il suo paese definita pazza, esclusivamente perché è una ragazza madre, che tale intende rimanere.
Vittima di una violenza, non vuole sancire un matrimonio riparatore impostole, viene lasciata da sola a gestire l’ingiustizia patita, e pur additata al pubblico disprezzo, senza indugio si rimbocca le maniche, lavora come e più di un animale da soma per provvedere ai bisogni di Marie, la sua creatura.
Genie è ruvida, rigida, lapidaria, ma la sua è solo una difesa, Eugenie lo ripete spesso, dalla vita non ha avuto niente, e semmai, quello che ha ricevuto è solo cattiveria putrida e riprovevole.
Genie è fredda, distante, distaccata anche fisicamente dalla sua bambina che inutilmente la segue stentando la sua corsetta di gambetta svelta sui passi frettolosi della mamma indaffarata, ma il suo agire è solo una preghiera, in verità uno scongiuro, perché la figlia non abbia a ripetere la sua grama esistenza. Genie è scostante, indifferente, lontana, soprattutto perché è una donna che vive in tempi in cui le donne non hanno difesa, le sue sono epoche e luoghi in cui il suo essere donna è vox populi di per sé una evidenza di colpevolezza, una scheda di inferiorità, un cartellino di doveroso assoggettamento alla prepotenza maschile, se non un vero e proprio marchio di proprietà privata.
Genie è pazza, per i suoi simili, in particolare, per amaro paradosso, per le altre donne, perché è una ragazza che non ha saputo salvaguardarsi e difendere la propria integrità morale intrinseca a quella fisica. I più maligni, che coincidono con le più cattive, dicono seraficamente che non ha voluto sottrarsi ad una attenzione non desiderata, così in sintesi è detto lo stupro, neanche ha voluto in qualche modo “ripararla” o “giustificarla agli occhi degli immancabili ipocriti pseudo benpensanti come la logica corrente imporrebbe; allora è una sciagurata ed una svergognata, vale meno di niente.
Tutta la storia si snoda, precisa ed esauriente, in un romanzo breve, a capitoli struggenti, affilati ed efficaci. Non è una scrittura sanguinosa, nessuna prosa luttuosa o raccapricciante, tutt’altro, Ines Cagnati ha uno stile incisivo, scolpisce in poche parole la pietra di un animo inaridito, che è sola una corazza con molte crepe, ha un corsivo conciso, asciutto ma non tetro, il racconto è potente, descrittivo in pochi tratti, esaustivo ed esauriente. Quello che il lettore in particolare recepisce forte e chiaro è l’atmosfera arcigna, l’aura predace di ingiustizia perenne sospesa sulle due protagoniste principali, madre e figlia, Genie e la sua piccola Marie, dapprima bambina, poi ragazza, poi giovanissima e già provata, infine adulta, che è la sola voce narrante del testo, una voce che anela amore e attenzione ad ogni rigo. Genie possiede uno straordinario cuore di mamma, ma il suo vissuto non è né dolce nè amorevole, la sua è storia spacca cuore, come in mille frammenti aguzzi è stato frantumato il suo: in sintesi è un racconto commovente, c’è tutto il mondo d’amore di una mamma per la sua creatura, ma non ti fa venire gli occhi lucidi, semmai suscita rabbia, perché è tutta una corsa a rincorrere il bene, la giustizia, il voler rimettere a posto tutti i cocci, la trama è ingiusta, l’epilogo straziante, i veri colpevoli restano impuniti, è un testo crudele come sa esserlo la vita per alcuni, i puri di cuore in particolare. Non molte pagine in questo libro, che però raccoglie tutto: cuore e batticuore, confusione e disorientamento, dolori e inquietudini. E poi ansia, angoscia, scandalo, ma su tutto ingiustizia, con tutto un corollario di abusi, arbitri, prepotenze, storture, il male fatto di persone, finanche quelle a te più vicine. Quante parole servono per scrivere di simili dolori? Nessuna, basta il silenzio. Questo non è romanzo di sole parole, in questo Ines Cagnati è immensa, magistrale.
Non è un testo di dialoghi, ma uno scritto di silenzio, ma un silenzio che dice, che racconta, che esplica, che sottolinea, più di mille parole. Il lettore ne esce, ne usciamo, annichiliti. Sconcertati e impietriti. Perché vedete, un cuore di mamma riscalda, ma quello di una matrigna raggela.
Un’esistenza di angherie è una matrigna, una megera fuori di testa, una pazza, una arpia, lei sì, matta.
Da legare.
Indicazioni utili
Eugénie e Marie
«[…] Andavo a letto. Veniva anche lei. Qualche volta mi abbracciava. Altre volte si addormentava subito, lontana al fondo della sua stanchezza.»
Uno dei primi aspetti che colpisce leggendo “Génie la matta” di Inès Cagnati è senza dubbio lo stile. La prosa è narrata con pennellate incisive, rapide, prive di fronzoli ma al contempo poetiche e taglienti. Per il lettore si dipinge un quadro fatto di istantanee vivide. È in tutto e per tutto un romanzo potente e figurativo.
Tema centrale dell’opera è il rapporto tra madre e figlia ma è anche una storia di dolore, miseria, solitudine, incomprensione, coraggio, pregiudizi, amore. È la storia di due donne, ciascuna vittima, ciascuna reietta per quella società che non accetta il diverso, che non accetta ciò che non è precostituito. A narrare la vicenda di Eugénie, la madre, è Marie, la figlia. La madre è la figura verso la quale ella rivolge tutto il suo amore più puro e incondizionato. Quest’ultima è una donna piegata dagli eventi, dal dolore, dalla vita. Seppur proveniente da una ricca famiglia del luogo è diseredata ed emarginata a causa di quella violenza che subisce da un compaesano e che la lascia incinta.
«[…] Perché mai niente ti avverte che stai vivendo un giorno particolare, un inizio e una fine, nemmeno se è l’inizio di qualcosa di bello, perché certe cose sembrano normali o belle e poi dopo ti accorgi che diventano tremende.»
L’evento che porta disgrazia, così come lo definiva la nonna di Marie, porta Génie ad essere sola. Dopo il parto va così a vivere in una fatiscente casa ai margini del villaggio con la sua bambina. Si rifugia in un luogo che si trasforma nella sua alcova e si cela in un silenzio che viene rotto solo da alcune frasi ripetute ossessivamente. Il tutto per aver scelto di tenere quella bambina frutto della violenza subita. La vita di Génie si articola nella fatica del lavoro, dalla mattina alla sera, girando tra campi e fattori, tra persone che non si pongono alcun tipo di problema nello sfruttarla. Marie, di contro, crescerà studiando, amando la madre in modo viscerale, e a sua volta incontrerà un uomo, Pierre, giovane aviatore, di cui si innamorerà. La freddezza di Génie nei suoi confronti, l’incapacità di comprendere alcuni suoi comportamenti, non scalfirà il legame con la madre.
Una madre e una figlia che sono tuttavia legate dallo stesso destino: come la madre anche la figlia subirà la forza brutale dell’uomo. Uno stesso dolore che sfugge al controllo, un eterno replay della vita di Eugénie su quella di Marie. Non esiste gioia, non esiste speranza, non esiste riscatto. Dolore, ancora dolore, in una vita non vissuta ma sopravvissuta.
«[…] E poi succedono le cose, sempre le stesse, e da quelle non ti potevi difendere, in tutte quelle sere perdute potevi solo sperare di avere la forza di sopportarle.»
Una solitudine latente anche in quella che è una ricerca costante di affetto di voglia di legami. In una costante tra avvicinarsi e allontanarsi, tra una madre e una figlia. Una figlia che rincorre la madre, una madre che fugge dalla figlia, che la tiene a distanza. È un rapporto fatto di silenzi, lacrime sul cuscino a notte fonda e una campagna che fa da sfondo con il suo lavoro e il suo ritmo rapido tra campi di granturco e l’uccisione degli animali da allevamento.
“Génie la matta” è un romanzo che morde la pancia e scuote l’anima e il cuore. Suscita tanta empatia ma anche tante emozioni contrastanti per questa condizione umana a cui sembra non esserci scampo. È uno di quei libri, ancora, che leggi a piccoli sorsi e che si incunea dentro con poche e semplici parole perché il dolore non ha bisogno di troppi lustri per essere narrato.
Al tutto si sommano capitoli brevi che sembrano istantanee, quasi foto ricordo di un momento ormai trascorso in un tempo indefinito. “Génie la matta” è uno di quei libri che ho letto lo scorso anno, nel 2023, ma che come spesso accade ha richiesto tempo per essere narrato perché è esso stesso un tumulto di sensazioni dalle sfumature variegate.