Narrativa straniera Romanzi Giuseppe e i suoi fratelli. Il giovane Giuseppe
 

Giuseppe e i suoi fratelli. Il giovane Giuseppe Giuseppe e i suoi fratelli. Il giovane Giuseppe

Giuseppe e i suoi fratelli. Il giovane Giuseppe

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"Faccio iniziare la storia della vita di Giuseppe, il primogenito della graziosa e bella Rachele, intorno al 1400 a.C, quando in Egitto regnavano i due più famosi Amenhotep, III e IV, da cui risulta che Giuseppe non era 'realmente' il pronipote dell'uomo che da Charran in Mesopotamia emigrò per primo nelle terre occidentali, perché Abramo era vissuto seicento anni prima, al tempo di Hammurapi, il legislatore. Ciò non impedisce che il grazioso e bel Giuseppe si ritenesse suo pronipote, perché la difficoltà, fonte di grandissimo diletto, consiste nel fatto che io racconto di uomini i quali non sanno precisamente chi sono, e perciò la coscienza del loro 'Io' si fonda molto meno sulla chiara distinzione del punto in cui, tra passato e futuro, si situa la loro esistenza che sulla identità col proprio 'tipo' mitico..." Thomas Mann



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Giuseppe e i suoi fratelli. Il giovane Giuseppe 2024-05-09 15:52:10 kafka62
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kafka62 Opinione inserita da kafka62    09 Mag, 2024
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GIUSEPPE IL NUTRITORE

“Grande è l’arte dello scrivere! Ma cosa più grande ancora è quando la vita che si vive è essa stessa una storia.”

“Giuseppe in Egitto” si era chiuso con Mut-em-enet che aizzava la servitù della casa contro Giuseppe, il “mostro ebreo”, falsamente accusandolo di aver attentato con la violenza ai danni della sua virtù. Per far ciò, la moglie di Potifar fa leva sulla più retriva demagogia sciovinista, titillando l’orgoglio di razza dei suoi sottoposti egizi per incitarli a ribellarsi contro l’abietto usurpatore straniero. Come risuonano tristi e profetiche le parole di Mut-em-enet, alla vigilia di quella che sarebbe nel volgere di brevissimo tempo diventata la più grande e vergognosa tragedia del ventesimo secolo, la Shoah, il genocidio del popolo ebreo per mano dei connazionali di Mann, i nazisti tedeschi! E in quale nuova, sorprendente luce ci appare l’intero ciclo di “Giuseppe e i suoi fratelli”, se si pensa che l’ultimo suo capitolo, pubblicato nel 1943, è praticamente contemporaneo agli orrori di Auschwitz, Birkenau e Dachau! In “Giuseppe il nutritore” non mancano velate allusioni al nazismo, come quando Giuseppe, giustificando davanti al Faraone l’uso della forza in determinati frangenti storici, dice: “Che cosa vorresti tu fare con re predoni che incendiano, saccheggiano e taglieggiano? Tu non puoi insegnare loro la pace di Dio, perché sono troppo stupidi e malvagi per comprendere. Gliela puoi insegnare soltanto battendoli […] Stolida è la spada, eppure non vorrei dire accorta la mansuetudine. Accorto è l’intermediario che a quest’ultima consiglia la fortezza”. Nonostante che il conflitto mondiale, con bellicosi popoli che premono ai confini e terribili carestie, aleggi costantemente sullo sfondo, “Giuseppe il nutritore” è comunque di gran lunga il romanzo più “leggero” dell’intero ciclo. Persino la iniziale prigionia di Giuseppe, la sua seconda “caduta nella fossa” (dopo quella drammatica provocata dai fratelli invidiosi nel secondo capitolo, che lo aveva portato a un passo dalla morte), si rivela tutto sommato un castigo lieve, quasi simbolico, in quanto il protagonista si trova di fronte un carceriere estremamente umano, giusto e sensibile, al punto che, quando Giuseppe entrerà nelle grazie del giovane Faraone per avere interpretato i suoi enigmatici sogni, egli ne farà, in un bizzarro scambio di ruoli, il suo fedele maggiordomo. La tetralogia di “Giuseppe e i suoi fratelli” assomiglia perciò a un fiume che, dopo le rapide vorticose, progressivamente si acquieta per tornare a fluire placidamente e senza fretta in prossimità della sua foce. Giuseppe dopo tanti anni riesce finalmente a incontrare i suoi fratelli, giunti dalla loro lontana terra per acquistare cereali, si palesa, dopo un’ingegnosa messinscena, ai loro occhi, increduli di trovarsi di fronte, nei panni di un potente dignitario egizio, al loro fratello perduto, li perdona magnanimamente per i loro antichi misfatti e giunge perfino a far trasferire in Egitto l’intera tribù di Israele e a riabbracciare il vecchio e amato padre che lo credeva morto, e che quindi può solennemente morire in pace. Sintetizzato così sembra il più classico e scontato degli happy end, anche se va detto che Mann non inventa nulla di nuovo rispetto al testo biblico. Il tutto è però raccontato dallo scrittore tedesco con una leggiadra e incomparabile ironia, conscio com’è che “tutto deve compiersi nel più ilare dei modi, come uno scherzo solenne” e che “l’ilarità, l’arguto scherzo sono quanto di meglio Dio ha concesso agli uomini”. In “Giuseppe il nutritore” ritorna così quell’ironica levità che aveva caratterizzato “Le storie di Giacobbe”, ossia il tomo introduttivo della tetralogia. Si prenda ad esempio la storia dell’ambiziosa e risoluta Thamar, che vuole a tutti i costi entrare con un ruolo di primo piano nella storia di Israele (e che infatti diventerà la progenitrice del re Davide), il cui inganno ai danni di Giuda, da cui si fa mettere incinta a sua insaputa, ricorda non a caso la beffa del furto della primogenitura di Esaù o quella ordita da Giacobbe contro Labano per liberarsi dal suo odioso giogo.
La leggerezza di “Giuseppe il nutritore” non deve però far pensare che il coté intellettuale del libro sia affievolito rispetto a quello dei suoi predecessori. In esso infatti si narrano miti (quello, ad esempio, del dio-bambino nella caverna), si discetta dottamente di dèi in conflitto tra loro (Aton e Amun) o al contrario misteriosamente affini (Aton e Jahvè), si discute di questioni filosofiche e di astrusi sofismi (l’essere come punto di incidenza tra il non-essere e l’essere-per-sempre), si interpretano sogni come se fossero messaggi in codice della divinità. Non inferiore è poi la componente meta-letteraria del romanzo, giacché più volte, come nei libri precedenti, Mann cerca di accreditare la sua storia come più realistica, più veritiera di un originale “la cui laconicità poco risponde al modo in cui la storia raccontò originariamente se stessa, cioè a come la realtà storica si svolse a suo tempo”. Mann scrive così “non con la disinvolta imprecisione della leggenda, bensì con la ragionevole riserva che impone il rispetto per il reale svolgimento dei fatti. Qui infatti non si millanta, ma si racconta”. Pertanto lo scrittore di Lubecca non si fa scrupolo di fermare la narrazione per fare una precisazione psicologica, oppure per chiarire un’inesattezza storica, o ancora per stemperare le esagerazioni del mito (come quando mette in dubbio che gli anni della carestia siano stati effettivamente sette, o i componenti della tribù di Giacobbe precisamente settanta, lasciando intendere che chi ha tramandato la storia abbia voluto privilegiare dei numeri considerati sacri rispetto ad altri meno emblematici). Mann si pone quindi come un mediatore tra la storia che in origine si è raccontata da se stessa e la storia come è giunta, con i suoi travisamenti e i suoi malintesi, fino alle nostre generazioni, ed in fin dei conti si fa egli stesso protagonista con le sue riflessioni parallele alle vicende di Giuseppe.
Il leit motiv del romanzo, sotteso alle numerose e avvincenti storie di Giacobbe e di Giuseppe, resta comunque soprattutto uno: la scoperta di Dio da parte dell’uomo. E’ curioso come questo sentimento religioso, che da Abramo in poi si fa sempre più raffinato, presupponga un atteggiamento che a molti potrebbe apparire addirittura presuntuoso ed egocentrico, ossia mettere il proprio io e la propria salvezza al centro di tutte le cose, come essenziale premessa per la creazione di un Dio insieme universale e personale. Parlo di creazione non a caso, perché se l’uomo ha bisogno di Dio per decifrare e portare a compimento il proprio destino, diventandone docile strumento dei suoi disegni, allo stesso modo Dio necessita dell’uomo per rivelarsi e venire alla luce. Nel gustoso e quasi umoristico “Preludio tra le gerarchie celesti” si immagina addirittura un Dio che ambisce a farsi incarnazione di un popolo per poter essere come gli altri dèi, per scendere dal suo algido e solitario iperuranio e sperimentare quella vitalità che l’uomo deve aver provato con il peccato originale, quando ha rinunciato alla perfezione dell’Eden per l’attrazione verso la materia, l’informe, la vita. E’ questo, secondo Mann, il misterioso motivo che porta alla nascita del patto stretto da questo Dio, geloso e collerico non meno che sommamente sapiente e giusto, con i patriarchi dell’Antico Testamento, da Abramo giù giù fino a Giuseppe, e che lo scrittore tedesco descrive con un’ineguagliabile vena, non soltanto mistica e religiosa, ma anche e soprattutto umorosa, viscerale e carnale, facendone il centro di gravità di un’opera che parla, in una maniera solo apparentemente contraddittoria, di cose ultraterrene mentre contemporaneamente narra di passioni e di speranze, di amori e di rancori, di vendette e di riconciliazioni estremamente terreni, come se Giuseppe e i suoi fratelli fossero in tutto e per tutto nostri contemporanei. In questo, io credo, risiede la grandissima forza espressiva, e in ultima istanza il fascino, di un’opera dalle ambizioni smisurate, ma che si legge con grande facilità, trascinante come un romanzo d’amore o d’avventura e leggero, a dispetto della sua mole, come una nuvola o come una piuma.

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Giuseppe e i suoi fratelli. Il giovane Giuseppe 2024-01-23 08:26:16 kafka62
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kafka62 Opinione inserita da kafka62    23 Gennaio, 2024
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Giuseppe in Egitto

“Giacché noi camminiamo su orme, e tutta la vita non è che un riempire di presente le forme del mito”

“Giuseppe in Egitto” è un libro ricco di rimandi e di allusioni, di corsi e di ricorsi. Giuseppe, venduto dai fratelli a una tribù di mercanti ismaeliti in viaggio verso la terra dei Faraoni, rivive infatti l’esperienza dell’esilio dalla terra dei padri che molti anni prima aveva già sperimentato Giacobbe, quando, per sottrarsi all’ira di Esaù dopo il “furto” della primogenitura, egli era fuggito presso suo zio Labano, al cui servizio aveva poi trascorso ben 25 anni. Ma l’esilio di Giuseppe è, a ben vedere, anche quello dello stesso Thomas Mann, il quale, durante la stesura del terzo libro della tetralogia, aveva deciso di trasferirsi in Svizzera, presso Zurigo, in quanto la sua aperta critica nei confronti del nazismo, che proprio in quegli anni si stava affermando in Germania, lo aveva reso un facile bersaglio del regime hitleriano. Il ciclo di “Giuseppe e i suoi fratelli”, nato probabilmente per mere motivazioni intellettuali, inizia pertanto ad assumere un sorprendente carattere autobiografico, con Giuseppe, il profetico interprete dei sogni, l’impareggiabile narratore di storie, il quale possiede una natura pseudo-artistica (in cui si compenetrano dimensione vitale e dimensione spirituale, fede e pensiero), che diventa quasi l’alter ego dello scrittore di Lubecca. L’impatto del giovane protagonista con la raffinatissima cultura egizia, nei confronti della quale egli esprime un misto di ammirazione e di beffardo scetticismo, sembra addirittura prefigurare quelle che devono essere state le impressioni di Mann quando, alla fine degli anni ’30, egli si trovò a vivere negli Stati Uniti d’America, i cui grattacieli probabilmente dovettero apparirgli come a Giuseppe le piramidi di Giza, e la affluente società americana come la ricca corte del Faraone, nonostante che la cultura europea, così come la religione monoteista di Abramo e di Isacco, rimanevano pur sempre largamente superiori a quelle in auge nei nuovi paesi di adozione dello scrittore e del suo personaggio.
Dopo le pagine cruente e drammatiche con cui si era chiuso il tomo precedente, “Giuseppe in Egitto” (conformemente all’alternanza di registri che caratterizza il ciclo biblico manniano, capace di passare dalle riflessioni filosofiche alle pagine avventurose, dalle atmosfere frivole a quelle tragiche) torna ad adottare un tono sereno e rilassato, misurato e scorrevole, con una prima parte, quella in cui la carovana di mercanti risale il Nilo (dando a Mann l’occasione di descrivere con appassionato gusto enciclopedico le città e le genti egizie incontrate lungo il tragitto), che sembra quasi un documentario geografico di duemila anni fa (così come qualche capitolo più avanti le feste religiose e le apparizioni pubbliche del Faraone a Tebe sembrano estrapolate da un trattato etnografico su quell’epoca lontana). Lungi dall’essere spaventato per il fatto di trovarsi catapultato in una terra sconosciuta, di cui non conosce né la lingua né i costumi, Giuseppe si lascia guidare dalla sua innata sete di conoscenza e osserva tutto quello che gli passa davanti agli occhi con estrema attenzione, “per accogliere profondamente dentro sé, nello spirito e nei sensi, il paese e la vita del paese, badando sempre che la sua curiosità non degenerasse in confusione e ottundimento fuori luogo, ma si mantenesse sempre all’erta e desta in onore dei padri”. Il suo obiettivo segreto è quello di diventare un giorno “il primo tra la gente di quei luoghi”, in ossequio con quello che egli ritiene essere il suo destino voluto da Dio e rivelatogli nei sogni dei suoi anni giovanili. Il fatto che il suo percorso sia in qualche modo già segnato, e debba solo palesarsi poco alla volta, a tempo debito, dà a “Giuseppe in Egitto” l’andamento del più classico romanzo di formazione, con l’eroe che da una posizione inizialmente infima si eleva fino al successo e alla gloria, con personaggi emblematici (come quello del fedele sovrintendente Mont-kaw, che accoglie Giuseppe, dopo che gli ismaeliti lo hanno venduto al ricco cortigiano Potifar, come un figlio, designandolo in breve tempo come suo successore, o quelli dei due nani Dudu e Teodoro, il primo che cerca in tutti i modi di mettere in cattiva luce Giuseppe e provocarne la rovina, e il secondo invece di favorirlo e proteggerlo) ed episodi cruciali (come il colloquio tra i due anziani genitori di Potifar, a cui Giuseppe assiste casualmente e che gli permette di venire a conoscenza dei segreti più intimi della vita del suo potente padrone, o ancora il fatidico dialogo tra Giuseppe e Potifar, con cui il giovane schiavo, interrogato mentre è al lavoro nel giardino delle palme, conquista con la sua facondia l’ammirazione e la fiducia del secondo, segnando così l’inizio della sua fortuna nella nuova casa).
Mann riempie con dovizia e intelligenza i tanti vuoti lasciati da una storia originariamente narrata in modo fin troppo conciso e succinto. Non bisogna però cadere nell’equivoco: lo scrittore tedesco mostra un grande rispetto, se non addirittura una sorta di venerazione, per la Bibbia, un libro che è stato da lui definito come un “monumento, il più singolare e grandioso della letteratura universale”, “ il libro par excellence, … proprietà del cuore, inalienabile”. Consapevole che intelletto e cuore, razionalità e sentimento possono seguire strade diverse, e addirittura contraddittorie, Mann non si vergogna di rivestire una storia che si è dimostrata nei secoli “intangibile da parte di qualsiasi critica intellettuale” di una nuova veste, più seducente nella forma e soprattutto più credibile nelle dinamiche psicologiche che la sottendono. “Ci sgomenta – afferma lo scrittore in “Giuseppe in Egitto” – la concisione sommaria di una narrazione che rende tanto poco giustizia alla amara minuziosità della vita”. E’ per questo che, nel già accennato dialogo di Giuseppe con Potifar, Mann si prodiga per rendere psicologicamente realistico, e in tal modo tanto più verosimile, il laconico verso “Giuseppe trovò grazia agli occhi di lui”. Ciò si comprende ancora meglio nella seconda parte del romanzo, quella in cui viene raccontata l’infatuazione di Mut-em-enet per Giuseppe. Se il libro sacro accenna semplicemente che “la moglie del padrone di Giuseppe gli mise gli occhi addosso e gli disse: «unisciti a me»”, Mann impiega centinaia di pagine di raffinato erotismo per descrivere l’infatuazione della sposa di Potifar per il giovane servo del marito. E’ proprio questa seconda parte che rappresenta, a mio avviso, il principale motivo di interesse del libro: nell’esporre il lento ma inesorabile precipitare della ricca e venerata signora nei gorghi della passione, che le fa mettere da parte ogni remora dettata dalla vergogna e dall’onore per ricorrere ad ogni mezzo, finanche il sortilegio di una negromante, pur di accaparrarsi le grazie dell’essere concupito, Mann realizza una straordinaria, profondissima indagine fenomenologica del desiderio amoroso, facendo di Mut-em-enet una tragica eroina dell’amour fou, che non sfigura affatto al cospetto di più celebri ed emblematici personaggi come Madame Bovary o Anna Karenina.
Con la sua consueta, apollinea perfezione (solo in parte appesantita da dialoghi a tratti un po’ troppo ampollosi e pedanteschi), Mann trasforma quello che potrebbe a prima vista sembrare un semplice racconto di appendice, una storia d’amore dagli insoliti (conoscendo l’autore) risvolti pruriginosi, in un’opera di grande valore filosofico e meta-letterario. Ad esempio, Mann ci offre una profonda riflessione sull’opportunità dell’autore di essere dentro la storia narrata, di diventare un tutt’uno con essa, oppure di porsi anche al di fuori della storia, come una voce critica, che la analizza e ci ragiona sopra. Mann cioè affronta di petto quella che è la fondamentale differenza tra il narratore classico, ottocentesco (quello che lui stesso era al tempo dei Buddenbrook) e lo scrittore moderno, il quale non è più disposto a calarsi anonimamente nella storia, ad accontentarsi di essere un semplice registratore di ciò che in qualche modo è accaduto o accadrebbe anche senza di lui. Con il suo continuo sillogizzare ed elucubrare sui molteplici aspetti diegetici ed extra-diegetici della vicenda raccontata, Mann, ovviamente, tende a essere ben presente nella sua costruzione, attraverso un duplice percorso di demitizzazione ed umanizzazione da una parte, e di riflessione critica dall’altra, come quando ragiona sugli anni trascorsi da Giuseppe nella casa di Potifar cercando di conciliare verità storica e verosimiglianza con un metodo che, sottoponendo ogni fatto narrato a una solida controprova logica, si può quasi definire scientifico. Mann sancisce in tal modo l’importanza in letteratura del metodo a supporto dell’ispirazione poetica, affermando: “Può forse il sentimento, se vuole attuarsi, se vuole suscitare per esempio un senso di benessere pieno di fiducia, far questo senza calcolo e sapiente tecnica?”. Lo stesso Giuseppe, che già abbiamo detto in apertura essere quasi un alter ego dello scrittore, utilizza scientemente la letteratura, sia come valente lettore, sia come fine esegeta, per conquistare Potifar e rendersi a lui indispensabile, diventando in breve tempo il più influente tra i lavoratori della casa. Quello della relazione tra arte e vita e dell’importanza del metodo nell’arte non è che uno dei motivi di interesse del libro, il quale nelle sue oltre settecento pagine (che lo rendono il più lungo dell’intera tetralogia) riflette su una miriade di argomenti, come il rapporto tra presente e passato, tra tradizione e progresso o tra identità nazionale e cosmopolitismo, tematiche che trascendono l’epoca della storia narrata per entrare prepotentemente nell’attualità. Uno dei tanti motivi di pregio del libro è anche la simmetria che assume il racconto di Giuseppe giunto al suo terzo atto. “Giuseppe in Egitto” infatti ripercorre con nuove sfumature l’intera parabola narrata nel libro precedente: la benedizione in punto di morte di Mont-kaw riecheggia quella impartita da Giacobbe, e simili sono le tentazioni di Giuseppe (là la veste istoriata di Rachele, qui la profferta amorosa di Mut-em-enet) e l’invidia che muove i suoi antagonisti (con il subdolo nano Dudu che prende il posto dei fratelli di Giuseppe). Identico infine è il destino di Giuseppe: la fossa, ossia la caduta in disgrazia, la (apparente) sconfitta. Letto così, “Giuseppe in Egitto” ci appare come una sorta di splendida sonata musicale, in cui il mirabile tema principale, dopo la sua esposizione e il suo sviluppo, viene ripreso e arricchito con piccole ma decisive modifiche, prima che la coda finale (cioè il quarto e ultimo libro) possa finalmente condurci a una definitiva e liberatoria conclusione.

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Giuseppe e i suoi fratelli. Il giovane Giuseppe 2023-07-04 12:46:07 kafka62
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kafka62 Opinione inserita da kafka62    04 Luglio, 2023
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TRA LEGGENDA E PROFEZIA

“Il cielo e la terra pullulano di allusioni e presagi che si producono senza sosta.”

Confesso di essere sempre rimasto affascinato dall’idea che, in un periodo di crescente antisemitismo, culminato in Germania nell’avvento del nazismo e nelle ben note persecuzioni contro gli ebrei, uno scrittore come Thomas Mann, appena insignito del premio Nobel per la letteratura e apparentemente molto lontano, per origini e per cultura, dal mondo ebraico, abbia voluto cimentarsi con un’opera clamorosamente anacronistica, che indaga, attraverso il suo personaggio principale, le origini, affondate in un passato lontanissimo e leggendario, del popolo di Israele. Questa tetralogia, che occupò lo scrittore tedesco per una dozzina d’anni e che, iniziata in Germania e proseguita nel suo esilio svizzero, terminò solamente durante la sua permanenza negli Stati Uniti, è un’opera immensa, “settantamila righe che – secondo le parole del suo autore – scorrono placidamente rievocando eventi remotissimi della vita umana, amore e odio, benedizione e maledizione, dissidi tra fratelli e sofferenze paterne, superbia e penitenza, caduta ed elevazione, un canto venato d’umorismo che celebra l’umanità”. La Bibbia, o meglio la seconda sezione della Genesi, quella dedicata ai Patriarchi, è il riferimento ovvio e naturale di “Giuseppe e i suoi fratelli”, ma, come si può vedere soprattutto nel suo secondo tomo, quello di cui qui si parla, ossia “Il giovane Giuseppe”, essa costituisce un semplice punto di partenza, un mero canovaccio, un soggetto sulle cui esili fondamenta Mann costruisce un edificio letterario sorprendentemente originale. Un solo capitolo della Genesi, il 37 (che lo stesso Goethe definiva troppo breve), diventa così un testo complesso e articolato, in cui lo scrittore tedesco dimostra una ineguagliabile capacità di infondere eleganza poetica, ricchezza psicologica e vividezza di colori ai pochi versi, francamente anodini e oltremodo logorati da una millenaria tradizione, dell’Antico Testamento. Si narra che la correttrice di bozze che lesse per prima “Giuseppe e i suoi fratelli” si complimentò con lo scrittore perché “ora finalmente sappiamo come andarono veramente le cose”: affermazione paradossale per una vicenda che, ovviamente, non è mai accaduta, ma che viene da Mann scrostata da tutta la polvere depositatavi sopra dal tempo e rivestita di una sensibilità affatto moderna. I personaggi biblici vengono ad esempio descritti in maniera assai poco convenzionale: Giacobbe, come già visto nel libro precedente, è un uomo che si preoccupa solo delle proprie meditazioni spirituali e del proprio esclusivo rapporto con Dio, al punto da trascurare, giudicandole come una fastidiosa seccatura, tutte le questioni più quotidiane e prosaiche (dalla sorveglianza dei lavori agricoli sulle sue terre fino all’appianamento dei dissidi che avvelenano i rapporti dei suoi numerosi discendenti), al punto di non essere in grado, non solo di prevenire, ma anche solo di immaginare quali nefaste conseguenze sia destinata a provocare la sua manifesta predilezione per Giuseppe; e questi, a sua volta, è un giovinetto presuntuoso e viziato, talmente convinto della propria innata amabilità da risultare odioso persino per il lettore, il quale è portato, se non a parteggiare per i suoi invidiosi fratelli, sicuramente a concedere loro parecchie attenuanti e giustificazioni. Laddove nelle Sacre Scritture molti personaggi, come nel caso dei fratelli di Giuseppe, sono soltanto dei nomi, Mann conferisce loro una spiccata individualità, differenziandoli gli uni dagli altri per mezzo di attributi psicologici e caratteriali unici e distintivi. Quando si arriva così all’episodio clou del romanzo, quello in cui i fratelli aggrediscono Giuseppe, lo spogliano della preziosa tunica che il padre, in segno di benedizione, gli aveva regalato, e lo gettano in una cisterna vuota, la scena acquisisce da una parte una fisicità, una matericità inusitate (con i dieci fratelli che si gettano sopra allo sventurato Giuseppe come un branco di lupi affamati sulla preda, e Giuseppe che, quando finisce il pestaggio, ha il corpo coperto della loro bava, la polvere mescolata con il sangue, l’unico occhio ancora aperto che si chiude come per un istintivo riflesso di difesa contro nuove violenze), dall’altra dà modo di osservare le differenti reazioni dei fratelli, da Ruben che non ha il coraggio di opporsi alla violenza degli altri ma cerca senza darlo troppo a vedere di evitare l’irreparabile, di guadagnare tempo, di procrastinare il fratricidio, a Simeone e Levi, i gemelli sanguinari, che invece vorrebbero finire Giuseppe a colpi di bastone, “secondo il buon metodo di Caino”, fino a Giuda che si domanda quale vantaggio comporti ammazzare il fratello piuttosto che lasciarlo morire di fame e di sete dopo averlo calato ancora vivo in una fossa.
Un romanzo che inizia con squisite riflessioni sulla natura della bellezza finisce così per toccare vette di atroce bestialità (al punto che a un certo punto “caddero parole che non ripeteremo testualmente perché farebbero inorridire la sensibilità degli uomini d’oggi”), ma lo stile di Mann, nonostante ciò, rimane sempre apollineo e imperturbabilmente sublime. Non solo, si delinea qui una riflessione religiosa molto raffinata e moderna: i fratelli di Giuseppe si rivelano infatti meri strumenti del destino, un po’ come il Giuda dei Vangeli, eppure si illudono ingenuamente di poter vincere gli interdetti e le punizioni di Giacobbe e addirittura i disegni di Dio (le profezie insite nei sogni di Giuseppe, i quali preconizzano la sua supremazia familiare), mettendoli entrambi di fronte al fatto compiuto della morte del figlio di Rachele. E’ una religiosità ancora primitiva, in divenire, legata più alla forma esteriore del culto (i fratelli sono convinti, pur avendo fatto quello che hanno fatto, di essere uomini pii) che all’esercizio fattivo della virtù. Lo stesso Giacobbe, convinto che il figlio sia stato ucciso da una belva feroce, si lascia andare a una sorta di ribellione nei confronti di Dio, incapace com’è di accettare la realtà ineludibile del dolore. Egli, uomo profondamente religioso, non accetta la morte del figlio prediletto e si sente defraudato, ingannato, ritenendo che Dio abbia violato il patto con l’uomo. Regredendo a una concezione della religione arcaica, imbevuta di miti, Giacobbe vorrebbe scendere agli inferi per riportare Giuseppe nel mondo dei vivi, come nelle antiche leggende facevano le madri-spose, o addirittura sostituirsi alla divinità e ricreare il figlio con l’argilla, insufflandogli la vita nelle narici, proprio come nella favola del golem. Con ciò egli dimostra di essere ancora un uomo vecchio, al contrario di Giuseppe, il quale, con quella naturale “intelligenza di Dio” che lo contraddistingue, intuisce nei recessi più profondi del suo io che le sue vicissitudini devono far parte di un disegno divino che non comprende ma che è disposto, nonostante le sofferenze, ad assecondare. Se l’uomo evolve nel suo essere religioso (i contemporanei di Giuseppe vedono il sacrificio umano come un abominio, e la sua sostituzione rituale con il sangue di un agnello ne è la logica conseguenza, ma ricordiamo che ancora due generazioni prima, con Labano, l’uccisione del figlio primogenito per ingraziarsi la divinità era la norma), anche Dio fa lo stesso. C’è in Mann una curiosa concezione evoluzionistica di Dio: l’uomo ha bisogno di Dio, ma anche Dio ha bisogno dell’uomo, ha bisogno di venire da lui intuito, pensato e plasmato nei suoi concetti essenziali. E’ un Dio che procede con l’uomo, che cresce con lui e che solo nel Nuovo Testamento perderà del tutto i suoi connotati barbari e selvaggi. Di più, il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe e di Giuseppe è un dio che si è dovuto far largo tra una moltitudine di divinità concorrenti e che risente inevitabilmente delle loro influenze. “Giuseppe e i suoi fratelli” è un romanzo sospeso tra passato e futuro, tra leggenda e profezia. Si pensi a Giuseppe che giace per settantadue ore sul fondo della cisterna e viene poi riportato alla luce del sole, per così dire “resuscitato”, dalla carovana di mercanti ismaeliti che transitano casualmente in quei paraggi: l’episodio ricorda l’antico mito di Tammuz-Adonai, dilaniato da Ninib, sepolto e poi riemerso dal mondo degli inferi, a sua volta probabile elaborazione di altri miti che si perdono nella notte dei tempi; ma è anche la prefigurazione della morte di Cristo e della sua resurrezione dopo tre giorni. Mann da una parte attualizza, arricchendola di verità psicologica, la storia di Giuseppe, facendolo quasi diventare un nostro contemporaneo, dall’altra la fa rientrare nella dimensione a-temporale del mito. Non c’è qui una rappresentazione denigratoria o iconoclasta della religione, ma al contrario la constatazione del suo ruolo, fondamentalmente a-storico (in quanto presente in tutte le ere della storia), come spiegazione giocoforza leggendaria (perché non risolvibile razionalmente o scientificamente) di domande da sempre presenti nella mente e nel cuore degli uomini: chi siamo? da dove veniamo? cosa c’è dopo la morte? Mann sa bene che le storie dell’Antico Testamento non sono mai avvenute, che sono solo un mito che è servito a una comunità per fondare le proprie radici e proiettarsi nel futuro con la pretesa di essere un popolo eletto. Mann tutto questo lo sa, eppure racconta le vicissitudini di Giuseppe con la massima scrupolosità e verosimiglianza, attento ad ogni minimo dettaglio e richiamando anche il lettore a uno sforzo di immedesimazione (“A chi narra deve premere che l’ascoltatore si rappresenti al vivo la scena… Dobbiamo cercare in ogni modo che ciascuno si rappresenti nella viva realtà una condizione così dolorosa”). Così facendo Mann non solo rende verosimile una storia succinta e lacunosa, ma fa addirittura diventare vera una storia completamente inventata!

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Giuseppe e i suoi fratelli. Il giovane Giuseppe 2022-02-01 08:42:45 Molly Bloom
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Molly Bloom Opinione inserita da Molly Bloom    01 Febbraio, 2022
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Secondo volume della quadrilogia "Giuseppe e i suo

Secondo volume della quadrilogia "Giuseppe e i suoi fratelli" di Thomas Mann.

Thomas Mann, imponente scrittore tedesco della letteratura classica mondiale, ha dichiarato nella prefazione di questa opera che se da giovane con "I Buddenbrook" ha tentato di descrivere una nazione e da adulto con "La montagna incantata" un continente, non poteva esimersi di raccontare nella vecchiaia sul mondo intero e questo suo proposito lo attua attraverso la quadrilogia "Giuseppe e i suoi fratelli", la sua opera più lunga e anche la più amata. Quasi duemila pagine per raccontare nei minimi particolari una breve storia del Vecchio Testamento, ovvero quella di Giuseppe, figlio amato di Giacobbe e di come egli fu venduto dai fratelli e di come si sono riuniti anni dopo in Egitto. Impresa titanica. In questo secondo volume, che è anche il più breve, si narra del giovane Giuseppe, della sua furbizia e narcisismo, di come attira i rancori dei fratelli nella sua convinzione di superiorità e di diritto di essere amato e venerato da tutti e infine di come egli fu venduto agli ismaeliti. Non è uno spoiler perché è appunto risaputa la trama, lo spunto dell'opera sin dal suo titolo. Potrebbe sembrare un argomento pesante e noioso ma non lo è affatto perché la bravura di Mann sta nel creare un mondo antico, da favola, in cui tutto è curato nel minimo dettaglio, verosimile, pieno di peripezie, di inganni, bugie, egoismi e superbia. Come anche nel primo volume, anche qui c'è tantissima ironia sia nei confronti di Giacobbe che di Giuseppe il che spesso suscita l'umorismo, la prosa davvero arguta. Non mancano gli affondi riflessivi e introspettivi. Un lungo percorso, ma fretta non c'è, prossimo anno proseguirò con la lettura del terzo volume. Nel frattempo non posso non consigliare questa importante e credo poco conosciuta creazione letteraria, un'esperienza che a mio avviso non può mancare nella carriera di un lettore forte. Almeno il primo volume.

"Poiché tutto avviene altrimenti da quello che si pensa, i pensieri degli uomini, quando percorrono ansiosamente il futuro, assomigliano un po' agli esorcismi e sono un ostacolo all'attuarsi del destino. Ma questo, per difendersi, paralizza la nostra immaginazione, così che essa tutto configura fuorché la fatalità che incombe, e quest'ultima, non scongiurata dai nostri pensieri, conserva in tal modo tutta la sua originaria natura e la sua annichilente potenza."

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Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
Solo per lettori forti e amanti dei classici.
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