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Il romanzo che nel 1963 ha rivelato Bernhard come uno dei grandi scrittori del Novecento. I lunghi monologhi di Strauch, il pittore pazzo isolatosi dal mondo in un paesino di montagna, sono l'invenzione di un nuovo stile, di una nuova labirintica sintassi delle ossessioni che avrebbe poi caratterizzato tutte le altre opere di Bernhard, nonché folte schiere di epigoni. Tra memorie autobiografiche, deliri persecutori, congetture filosofiche, invettive e allucinazioni, Strauch riesce a trasformare il suo totale orrore del mondo in una vitalissima, istrionica performance all'insegna dell'ironia e della complicità con il suo imbarazzato-affascinato interlocutore, che ben rappresenta la naturale reazione dei lettori di questo libro.



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Gelo 2024-03-06 12:58:45 68
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68 Opinione inserita da 68    06 Marzo, 2024
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Rassegnazione….

Un gelo onnipresente e onnicomprensivo, ambientazioni buie, cupe, pesanti, anime perseguitate da tristi presagi, due protagonisti lontanamente vicini fino a toccarsi, un nichilismo che profuma di dissolvenza. In una prosa ripetitiva, ossessivamente lucida, anche delirante, cara a Bernhard, pensieri difformi, monologhi torrenziali che creano, trasformano, trasfondono immagini, suoni, voci, oggetti, parole, una cupezza afinalistica che ritorna all’ essenza primaria, scartando l’ ovvio per cedere a solitudine, incomunicabilità, sofferenza.
Un giovane assistente medico inviato a Weng, sperduta località montana, dal chirurgo Strauch per studiare il comportamento del fratello, un ex pittore che ha bruciato tutti i suoi quadri. Situato in una fossa è il posto più malinconico che esiste, disossato, lugubre, funesto, presagio di malattia e morte. Alloggerà, come il pittore, in una locanda frequentata da individui loschi, ripugnanti, controversi, contornato da ombre di uomini, voci di ubriachi, infantili e stridule, frammenti di vite sconosciute, una gelida rappresentazione umana.
L’incontro e la frequentazione con il pittore innescano un monologo su tematiche perlopiù artistiche, filosofiche, esistenziali, sovente inconcludente, fatalista, mai banale, un meccanismo interno di disintegrazione difficile da comprendere per chi abita un mondo scientificamente costruito su un fine, la conservazione della vita.
Chi è Strauch, artista folle, fine pensatore, misantropo, egocentrico, anima indirizzata a suicidio certo, semplice oggetto di studio e diagnosi, un uomo che soffre di una malattia mortale, caduto in depressione, quanto presente a se stesso, agli altri, al reale? Come frequentarlo preservandosi dalla sua grandezza fagocitante, come relazionarsi con chi sa leggerti dentro conservando il proprio anonimato, fluidifica ogni cosa e ti sovrasta?
Malattia, dolore, ricordi, una vita da subito indirizzata alla solitudine affettiva dal desiderio di altro, un’ eccentricità straordinaria, unica, irraggiungibile nel proprio flusso autoanalitco, Strauch ha bruciato tutti i suoi quadri quando ha capito che non valevano niente, perso nei propri pensieri, condannato, a pochi passi dalla rovina.
Due vite estranee e complementari percorse da un fluire lento, agitate e corrose dai propri pensieri, che condividono un senso di solitudine, il non essere mai stati amati, costrette a badare a se stesse precocemente.
Una voce narrante non inquieta e irritata come il pittore, per il quale malattia e dalla morte sono cessazione del dolore, liberazione, in primis da se stesso e dal proprio vuoto interiore.
Un cambiamento in atto, corresponsione e dimenticanza, lo scopo del proprio soggiorno, immersi in una quotidianità monca, in

….” un’ umanità incomprensibile perché umana e comprensibilissima perché inumana”…

sovrastati da una tristezza sovrapposta alla sofferenza.
Il pittore e’ un individuo enigmatico in conflitto con se stesso, per il quale tutto e’ passato, lontano, finito, votato a un esito infausto, una soggettività sovrastante, il narratore ha un incarico a termine che lo costringe a prendere appunti ma non sa da dove cominciare. Strauch è inclassificabile, incompreso, incomprensibile, inabissato, si è impossessato dell’ interlocutore, preda impotente di opinioni, morbosità, assurdità.
Un percorso in parte condiviso, lunghe peregrinazioni, dialoghi interminabili, due individui, un esperimento, inizio e fine di tutto…

… “ la vita è disperazione pura, è la disperazione più chiara, la più oscura e la più cristallina delle disperazioni. Lì dentro ci conduce soltanto un sentiero che attraversa la neve e il ghiaccio, lì dentro nell’ umana disperazione in cui si è costretti a entrare: al di là dell’ adulterio commesso dalla ragione”…

….” sono così esausto, sono incredibilmente esausto”….

La lenta e ripetitiva prosa di Thomas Bernhard evidenzia un’ ossessione da subito manifesta, quel gelo onnipresente e onnicomprensivo, in primis nella mente di chi osserva e non si accontenta. Quanto il proprio paesaggio interiore, nella lugubre e spoglia esteriorità, in una infinita ragnatela di cause ed effetti, si alimenta e basta a se stesso, quanto la propria spiritualità riflette sul senso insensato di una vita vivisezionata e fluidificata?

Qualsiasi contatto esterno smarrito da tempo, una parte di se’ scomparsa prematuramente, condannati alla tristezza e alla sofferenza, dispersi, nel mentre c’è chi fa ritorno al proprio cammino pregresso.

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Gelo 2016-04-09 04:27:08 Portoro
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Portoro Opinione inserita da Portoro    09 Aprile, 2016
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Il declino ovunque

Si arranca un po’ a leggerlo, ma si va avanti - con passo rassegnato da corteo funebre. Ogni tanto c’è una grande pagina che si eleva dalla cenere – il nero stilistico, ali di un corvo, è così lucido da sfavillare: proprio sulla scorta di questi bianchi intensissimi val la pena di affrontare Bernhard. I suoi romanzi, d’altronde, mirano dritti all’obitorio della civiltà, andrebbero sfogliati sulla panchina di un cimitero, col sottofondo di un’upupa. Per apprezzarli bisogna trovarsi in sintonia con i requiem, avere un debole per tetri paesaggi al crepuscolo, subire il fascino della deteriorabilità, patire un macabro interesse per l’organico e per il destino di putrefazione che accomuna qualsiasi forma di vita. “Gelo”, quindi, è un romanzo rivolto anzitutto ai materialisti indefessi, agli atei risentiti che vorrebbero distruggere il mondo per vendetta, agli oncologi mancati che ripiegarono, chissà perché, sulla letteratura. Se la parola “speranza” rievoca subito il concetto di menzogna, e se si intende il suicidio come un atto di suprema lucidità, uno scrittore come Bernhard è davvero il massimo. Una sorta di evangelista del nichilismo secondo cui ogni Verità, di per sé, è un abisso di miserie, furti e sciacallaggio; un baratro di voracità cannibalesche, di slanci effimeri che subito ricadono in uno stato di abbrutimento ancora più violento. Non si salva nessuno da questo colossale mattatoio in cui ci si macella a vicenda. Il teatro è un borgo sperduto fra i monti, in una conca opprimente, semiassiderata e piena di carogne. Sepolti nella neve, residui bellici, ordigni che esplodendo mutilano i bambini; c’è anche un fiume in cui galleggiano carcasse di mucca, un bosco in cui si aggirano scuoiatori becchini e operai di una centrale elettrica in costruzione, una cupa umanità ingobbita, elucubrante, spinta dalla “lussuria” imbecille. Gli episodi sono una concatenazione di disgrazie d’alta montagna: l’incendio in cui muore una contadina, o un giovanotto nel fiore degli anni schiacciato dalla propria slitta; poi la contemplazione delle salme, e il funerale. In tutto questo, gli interminabili monologhi di Strauch, portavoce di una filosofia che nega il Senso e qualunque possibilità di evoluzione. Non gli si può dare torto; però, forse, la tira un po’ per le lunghe.

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Nietzsche, Céline, Cioran, Houellebecq
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