Furore
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Le gesta di un popolo
L'opera di Steinbeck non è un romanzo che racconta semplicemente le vicende di una famiglia alla ricerca di un posto dove vivere e di un lavoro ma, alla maniera del poema epico, è un romanzo che narra le gesta di un intero popolo cacciato dalla propria terra e alla ricerca di un posto dove ricostruire la propria identità, ma anche, potremmo dire, trovare semplicemente un po' di pace, un minimo di sicurezza per il proprio futuro e una speranza di vita nuova. In questo straordinario affresco storico, che ha la forza prorompente del capolavoro assoluto, si stagliano le figure degli eroi, che sono gli umili protagonisti della famiglia Joad, soprattutto Mà, la figura forte e centrale dell'intero romanzo, e il figlio Tom. Un grande plauso alla traduzione di Sergio Claudio Perroni, che ci permette di gustare l'opera integrale di Steinbeck in tutto il suo splendore. Alcuni capitoli sono così intensi e pieni di vita, e così pieni di vigore, che producono una specie di risonanza interiore, rimanendo scolpiti nella mente. In particolare il lungo capitolo 26, e tutti quelli finali, fino alla struggente conclusione, la cui forza dirompente si chiude con un finale ad un tempo amaro e pieno di speranza, con un'immagine di sorprendente forza simbolica.
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Chiamatela umanità
L'esodo, successivo alla Grande Depressione, che colpì le campagne degli Stati Uniti e che fece emigrare decine di migliaia di disperati verso l'Ovest, nella speranza vana, di trovare lavoro e cibo.
Un libro durissimo, con descrizioni feroci della fame e della disperazione di bambini, donne, anziani, uomini comuni.
C'è un film tratto dal romanzo.
E' un bel mattone, cui bisogna approcciarsi con cautela, poichè tocca temi molto spinosi, di natura etica e religiosa.
L'uomo come strumento di produzione e consumo. Le nascite di esseri, già segnati nel destino, che sarà drammatico.
La follia generata dalla privazione, la fame, la mancanza di speranza: emblematica la scena durissima, di un disperato che preferisce lasciarsi al suo destino, perdendosi tra i Canyon del Colorado, in solitudine, piuttosto che proseguire questo viaggio senza speranza verso una terra ostile, violenta, marchiata dalla brutalità delle autorità e degli uomini.
Il povero che giudica e flagella il suo simile.
Il ricco che perde la cognizione della realtà e accumula quantità spropositate di terre lasciandole marcire piuttosto che cederle a questi miserabili accampati affamati e furenti sulle strade arse dal sole.
Bambini che si lottano un mestolo di zuppa, che sopravvivono nutrendosi di radici e frugando nelle immondizie.
Corpi scavati dalla pellagra.
Denutrizione, denti che marciscono, parti in mezzo alle discariche.
Si muore su un materasso marcio, appoggiato in terra. Non si hanno i soldi neanche per una croce e si seppellisce il corpo sotto a un ponte.
Le macchine che sostituiscono l'uomo al lavoro. Le nascite incontrollate nelle classi sociali più povere. L'ignoranza in cui viene tenuta la maggior parte della popolazione.
La sovrappopolazione per creare una nuova forma di schiavismo, legato alla mancanza di lavoro e di cibo per tutti.
Libro che tocca temi attualissimi, universali e che lascia con l'amaro in bocca, pensando a come questa società si sia edificata senza morale alcuna, sfruttando gli oppressi, arricchendo degli eletti e gettando al macero ogni parvenza di moralità e di umanità.
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QUESTIONE DI VISIONI
È un libro molto interessante, Steinbeck oltre a denunciare lo sfruttamento e i maltrattamenti delle persone rimaste senza lavoro a causa di una depressione economica, tenta di far emergere anche il circolo perverso da cui si originano questi drammi sociali.
L'uomo perdendo di vista ciò che è importante, come la terra e i valori universali, riduce la sua capacità di visione. Nello specializzarsi in lavori come il banchiere, l'industriale, il commerciante, l'operaio, ecc. si dimentica le regole che garantiscono e mantengono la prosperità o quantomeno un dignitoso vivere.
Ecco allora lo sprovveduto uomo moderno, spremere il terreno fino a farlo diventare sterile, usare macchinari per non dover pagare la manodopera, e adottare crudeli ricatti per costringere le persone ad accettare lavori pagati al limite della sopravvivenza, ignari che tutto qello che a prima vista sembrerebbe il profitto tanto agognato, viene invece malamente speso e disperso per mantenere lo stato di disagio e difendersi dal furore dei disperati; i soldi della ricerca per ottenere merce e viveri sempre più abbondanti, sprecati nello smaltimento dei viveri invenduti per mantenere il prezzo alto. Il profitto usato al contrario per "darsi la zappa sui piedi" per usare termini agricoli.
Ed ecco lo spreco della stampa dei volantini per far arrivare le persone a migliaia e poterle ricattare, il conseguente disagio provocato da una moltitudine
gestita malamente attraverso il coinvolgimento di forze armate.
La violenza e il degrado degli ambienti oggetto di immigrazione.
La cecità che coglie l'uomo sprovveduto gli fa perdere il suggerimento che viene offerto dal campeggio governativo virtuoso che genera e moltiplica il benessere con una visione diversa, ma ancora una volta i profitti vengono sprecati da queste menti deviate per cercare di sopprimerlo assoldando soldati e altri disperati costretti dalle circostanze a mettersi contro altri disperati perché ogni minima possibilità di migliorare le proprie condizioni rappresenta una minaccia al presunto guadagno momentaneo destinato a fallire in breve tempo e a loro stesso danno.
Steinbeck con questo libro ha provato, con la sua intelligenza ad analizzare il problema e a suggerirci che è la capacità di una visione sociale, generosa, rispettosa del mondo, degli uni e degli altri , lo sguardo lungimirante a rendere il nostro mondo sempre migliore e ricco.
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L'odissea dei Joad
Steinbeck prese spunto da articoli di giornale del 1936 che parlavano di centinaia di migliaia di migranti che, abbandonato il Midwest, raggiungevano la California: le loro fattorie, non più redditizie dopo che le tempeste di polvere ne avevano gravemente eroso il suolo, erano state espropriate dalle banche. La storia si divide in tre parti, come il biblico Esodo: prima la siccità vista come la schiavitù, poi il viaggio, infine la lotta per stabilirsi nei nuovi luoghi.
Oklahoma, Stati Uniti, 1936 circa. Le piogge primaverili accelerano la crescita del grano ma, con la successiva siccità e il forte vento, la terra diventa così arida da sollevare polvere ad ogni movimento. Finita la polverosa siccità, il grano è totalmente rovinato. Tom Joad, rilasciato dopo aver scontato 4 anni di carcere per omicidio colposo, sta tornando a casa quando incontra l’ex predicatore Casy, col quale attraversa terre desolate dall'aridità, intuendo l’incombente miseria. Dopo anni di scarsi guadagni, i proprietari terrieri, costretti dalle banche, sfrattano i braccianti dalle loro terre, sostituendoli con più efficienti trattori. Dopo aver letto un volantino in cui si cercano braccianti in California prospettando buoni guadagni, la famiglia decide di abbandonare l'Oklahoma per tentare la fortuna all'Ovest.
A bordo di uno scassato autocarro, comprato da commercianti speculatori, inizia un viaggio verso la California attraverso la Route 66. A partire sono tre generazioni di Joad: oltre ai nonni, ci sono Pa’ e Ma’, il bizzarro primogenito Noah, poi Tom, l’esuberante Al, la giovane Rosasharn incinta e il marito Connie, i piccoli Ruthie e Winfield. Con loro, anche lo zio John e il meditativo Casy. I guasti al camion sono marginali, ma i pochi pezzi di ricambio necessari vengono pagati cari ai rivenditori, che speculano sui prezzi. Durante il lungo ed estenuante viaggio, i Joad incontrano altre famiglie di emigranti tra cui i Wilson, con cui scatta reciproca solidarietà. Una notte, Nonno si sente male e muore ma, non avendo soldi per il funerale, i Joad decidono di seppellirlo sul posto. Proseguendo il viaggio, si incontrano migranti che tornano dalla California, descrivendo la miseria e il clima ostile che hanno trovato lì. I Joad e i Wilson arrivano in Arizona e si accampano vicino ad un ruscello, dove conoscono altri emigranti che ritornano ad Est perché non hanno trovato lavoro. Noah decide di non proseguire il viaggio e fermarsi a vivere di espedienti lì vicino al fiume. Inizia la disgregazione familiare, che Ma’ argina con veemenza. Durante la traversata del deserto, muore anche la Nonna.
Giunti infine in California, la felicità dura poco. La terra è tanta e fertile, ma i braccianti vivono stipati in baraccopoli e con bassi salari per l’eccesso di uomini disposti a lavorare sottopagati. I Joad finiscono in un accampamento di disperati, da cui Connie fugge. La gente dell’Ovest è in fermento: teme l’invasione dei disperati, ritenuti ladri e sobillatori: una notte, i Joad fanno appena in tempo a scappare mentre il campo viene attaccato e dato alle fiamme. Va meglio nel campo governativo di Weedpatch, autogestito da un comitato di migranti: il clima è solidale, le regole vengono rispettate da tutti, ma la polizia osteggia questo campo, ritenuto esempio di vita comunista: così, provoca i migranti di continuo, per indurli ad andarsene. Tom trova lavoro come spalatore, ma il suo salario non basta. Così, i Joad si spostano alla fattoria Hooper per raccogliere pesche: appena arrivati, vedono dei braccianti in sciopero per l’improvviso ribasso delle paghe. Una sera la polizia interviene per disperdere gli scioperanti: gli eventi precipitano, i Joad sono costretti a separarsi e le loro vite prenderanno una piega imprevista.
Nel libro, l'odissea dei Joad è un affresco memorabile del sogno americano, i personaggi sono ben caratterizzati, i temi trattati sono molteplici e rendono uno spaccato realistico, a volte impietoso, della realtà, in una lettura sempre piacevole. E, dopotutto, s'intravede sempre il sole, in fondo al tunnel. Un capolavoro.
Moltissime le possibili citazioni: “Non si può essere proprietari se non si è indifferenti” – “La banca è più degli uomini. È il mostro. Gli uomini la creano, ma non possono controllarla” – “Come sapremo di essere noi senza il nostro passato?” – “Terribile è il tempo in cui l’uomo non voglia soffrire e morire per un’idea” – “Se gli serve un milione di acri per sentirsi ricco, gli serve perché è molto povero dentro. E se è povero dentro, nessun milione da acri può farlo sentire ricco” – “Quando sei giovane, tutto quello che ti capita se ne sta per conto suo… poi un giorno si cambia, una morte è un pezzo di tutte le morti, una nascita è un pezzo di tutte le nascite… allora le cose non stanno più da sole. E un male non fa più tanto male, perché non è più un male che se ne sta da solo” – “Il confine tra fame e rabbia è un confine sottile” – “Gli uomini la vita la portano dentro la testa … noi donne, la vita ce la portiamo sulle braccia” – “Quando stai male o nei ne guai, va dalla povera gente. Soltanto loro ti danno una mano” – “C’era un tempo che avevamo la terra. Era la cosa che ci teneva insieme” – “Per l’uomo la vita è fatta a salti: se nasce tuo figlio e muore tuo padre, è un salto; per una donna è tutto come un fiume, che ogni tanto c’è un mulinello, una secca, ma l’acqua continua a scorrere.”
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Tutti siamo padroni o mezzadri. Tutti siamo "Okie"
..."Le donne guardavano gli uomini, li guardavano per capire se stavolta sarebbero crollati. Le donne guardavano e non dicevano niente. E quando gli uomini erano in gruppo, la paura spariva dai loro volti e la rabbia prendeva il suo posto. E le donne sospiravano di sollievo, perché capivano che andava tutto bene: il crollo non c'era stato; e non ci sarebbe mai stato nessun crollo finché la paura fosse riuscita a trasformarsi in furore."
Questa frase, apparentemente priva di particolare significato, qui violentemente strappata dal suo contesto naturale che è il romanzo in questione, colpisce e stordisce come un colpo in testa il lettore che vi si imbatte nei capitoli finali rinnovando una forza interiore che fa da guida e sostegno a tutta la lettura.
Steinbeck ci ha regalato uno dei romanzi più belli e profondi di tutti i tempi e non leggerlo sarebbe una grave forma di mancanza di rispetto. E forse l'aggettivo "belli" non risulta del tutto aproppriato.
Si perché leggere questo romanzo non è piacevole in senso assoluto e man mano che lo si legge non si prova di certo una soddisfazione interiore, tutt'altro.
Si prova angoscia. Si prova tristezza. Si prova smarrimento. Si prova impotenza. Si prova disagio. Si prova furore.
E allora ci si potrebbe chiedere il perché leggerlo viste le premesse. Il motivo è presto detto:
si nutre anche speranza, si continua la lettura, più volte si vorrebbe entrare "nella vicenda" per portare il nostro aiuto concreto ai personaggi invece che rimanere dei semplici spettatori passivi.
Diventa sottile il confine tra il nostro tempo e quello narrato, tra la nostra vita e quella della famiglia Joad che ha avuto l'onore e l'onere di esserne la protagonista.
Le vicende si svolgono in America, quel paese spesso oggetto dei sogni di tante generazioni, quel paese dove tutto è grande, dove tutto è possibile.
Forse.
Quel paese dove come detto tutte è grande e allora per coerenza è grande anche la miseria, la sofferenza, il soppruso, l'abuso, il depredare, il lottare, il conquistare. Il vivere, ma anche il sopravvivere e il morire.
La famiglia Joad, famiglia di mezzadri (lavoratori della terra per conto dei padroni), vive del frutto del proprio lavoro svolto con grande attaccamento alla terra. Ma le cose sono destinate a cambiare e le tradizioni e la regolarità delle stagioni e dei raccolti e la sicurezza del regolare sostentamento vacillano per l'implacabile ed inevitabile piegarsi all'avanzata della tecnologia, in questo romanzo legata all'avvento dei trattori.
Così dove prima 100 uomini lavoravano a mano un appezzamento sfamando le proprie famiglie adesso un solo uomo con un trattore compie lo stesso lavoro. Wow, un grando beneficio portato dalle macchine ma ad alto prezzo.
E la conseguenza diretta è che non c'è più posto per gli altri.
E così iniziano i viaggi lungo la Route 66 per migliaia di famiglie alla ricerca di un lavoro che possa permetterne il sostentamento in un luogo "dove scorre latte e miele", e la stessa sorte spetta alla famiglia Joad.
Il legame famigliare è l'unico collante che permette alle famiglie di superare le difficoltà ma a volte bisogna resistere all'impulso di voler sopraffare gli altri. La necessità di mangiare mette a dura prova i rapporti con gli estranei, estranei che sono ora amici perché non ci hanno fatto nulla ora nemici perché possono involontariamente privarci di parte del lavoro che potrebbe sfamare la famiglia....perché anche gli estranei devono mangiare.
E in questo gioco del mettere gli uni contro gli altri c'è sempre chi approfitta in modo da trarne un vantaggio economico, potremmo dire anche che qualcuno orchestra e dirige come fosse il copione di un film. Perché è facile comandare dove la miseria la fa da padrona.
Ma questo film è la vita con la sua lotta per essa, la conquista dei propri diritti esistiti fino a ieri e oggi spazzati via quasi in sordina.
Questo film ha un finale ma non ha vincitori e nemmeno vinti.
Le famiglie sono ancora quelle di tipo "patriarcale" con gli uomini che lavorano elevati ad un tacito rango superiore ma in questo gioco del mischiare gli attori anche l'uomo inteso come essere maschile può perdere la propria autorità agli occhi della famiglia ed è qui che le donne raccolgono il testimone rafforzando la propria figura senza mai mettere in ombra quella del proprio uomo.
La famiglia Joad scoprirà l'instancabile forza di Ma', la donna del focolare, il vero riferimento famigliare che saprà assumere di volta in volta la figura necessaria al particolare momento di impietosa difficoltà.
Ma è proprio la difficoltà estrema che insegna a dare sempre di più agli altri anche quando in realtà ne avremmo bisogno ancor prima noi stessi, e Steinbeck ci ha insegnato questo con la scena finale del libro che spiazza il lettore lasciandolo totalmente interdetto e costringendolo ad uno sforzo sovrumano per spazzar via dalla mente una scena così potente da non lasciare scampo.
Uno spaccato di America pungente che ci fa riflettere ancora ai nostri giorni e che ben descrive il modo di pensare della società attuale cui siamo abituati.
Perché se oggi stiamo bene e godiamo del nostro lavoro ci sarà sempre qualcun altro che ai nostri occhi inconsciamente verrà chiamato "Okie" e allora, ogniqualvolta ciò dovesse accadere, facciamoci del bene e rileggiamo questo libro che ci ricorda che tutti siamo padroni, tutti siamo mezzadri, tutti siamo "Okie" e non ci sono ne vincitori ne vinti.
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The Grapes of Wrath
Un'opera monumentale: affresco di un'America che gli americani stessi tendono a celare.
Fu proprio per le verità scomode che descrive che “Furore", quando fu pubblicato, divenne oggetto di aspre polemiche; in Italia fu addirittura sottoposto a una rigida censura del regime fascista, perché considerato un libro “sovversivo”. Tutto questo non gli impedì di diventare un best-seller.
I fatti descritti in questo romanzo non sono certo piacevoli: ambientato nel Midwest americano intorno agli anni '30, narra l'esodo della famiglia Joad che, come tanti altri contadini, si vede strappare la terra dalle banche e da quella chimera chiamata “trattore”. I mezzadri saranno dunque costretti a emigrare, attratti da quella che viene descritta come una "terra in cui scorre latte e miele": la California. Incentivata da possibilità lavorative che sembrano abbondanti e promettenti, l’emigrazione dei Joad si rivela invece una tragedia senza fine; un mezzo con cui Steinbeck denuncia il lato più spietato di un’America talmente concentrata sul proprio profitto da perdere ogni umanità, da risultare crudele nei confronti di quella parte del popolo che con la terra aveva un legame ancestrale. Questa povera gente, oltre a vedersi strappato tutto ciò che aveva, è poi costretta a sopportare la fame, il vagabondaggio coatto, gli insulti e i soprusi. Uomini che non vogliono altro che sfamare sé stessi e i propri figli vengono trattati come ladri; costretti a spaccarsi la schiena per pochi centesimi, a sopportare le intemperie e privazioni di ogni tipo.
Questa assurda realtà, seppur confinata in un'epoca e un contesto preciso, contiene in sé riflessioni che sono più attuali che mai. Perché forse non ci troviamo e non ci troveremo nelle condizioni della famiglia Joad (o almeno speriamo che sia così), ma i lati scabrosi dell'animo umano che li costringeranno a tale miseria sono qualcosa che non abbiamo debellato e non debelleremo mai, e quando diciamo a noi stessi che il peggio della storia non dovrà ripetersi, lo facciamo per la spaventosa consapevolezza che questo non solo è possibile, ma altamente probabile. È per questo che “Furore" dovrà continuare a essere letto: per riportarci alla mente quelli che sono state e possono essere le conseguenze del nostro egoismo e della nostra avidità; per perpetuare il ricordo delle pagine più vergognose della nostra Storia. Perché la vergogna non va dimenticata, e non per fare penitenza sui peccati di chi è venuto prima di noi, ma per lasciar germinare la consapevolezza che deve guidarci in ogni nostra azione; per non diventare oppressori e non macchiarci del sangue di innocenti, ché si uccide anche senza "spada" e delle volte lo si fa anche per semplice leggerezza. E se fossimo noi gli oppressi, questa lettura potrà ricordarci che al mondo ci sarà sempre qualcuno come noi e che insieme siamo forti; che i grappoli del nostro furore possono abbattere qualsiasi nemico.
“Furore" è una lettura emozionante, poetica, maledettamente avvolgente nella sua tristezza, una tristezza che lascia comunque intravedere quel barlume di speranza che viene fuori solo quando tocchiamo il fondo, perché è nel fondo che le nostre qualità migliori tendono a nascondersi.
P.S. Guardate anche il film di John Ford con Henry Fonda. Un po’ diverso, ma comunque molto bello.
“Gli affamati arrivano con le reticelle per ripescare le patate buttate nel fiume, ma le guardie li ricacciano indietro; arrivano con i catorci sferraglianti per raccattare le arance al macero, ma le trovano zuppe di cherosene. Allora restano immobili a guardare le patate trascinate dalla corrente, ad ascoltare gli strilli di maiali sgozzati nei fossi e ricoperti di calce viva, a guardare le montagne di arance che si sciolgono in una poltiglia putrida; e nei loro occhi cresce il furore. Nell’anima degli affamati i semi del furore sono diventati acini, e gli acini grappoli ormai pronti per la vendemmia.”
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Quando il sacrificio non porta a nulla...
Economia, società, politica, e umanità. Questi sono gli ingredienti, le tematiche, i macrotemi a cui puoi ricondurre lo straordinario lavoro di Steinbeck, premio Nobel del 1962.
Fin dalla prima pagina di “Furore” si ha da subito la sensazione di non essere di fronte a un libro qualsiasi. È un drammatico dipinto della crisi sociale che coinvolse l’America a seguito della Grande Depressione del 1873 in cui il settore agricolo, quello più colpito perché ancora fondamentale, perse ogni punto di riferimento. La medesima cosa accadde drammaticamente alle persone che ne facevano parte. Tom Joad e la sua famiglia appartengono a questo ceto, duramente colpito. Soppiantati dai trattori, sfrattati dalla loro casa, si ritrovano depravati di ciò che loro hanno costruito con le loro stesse mani e costretti a fuggire in balìa degli eventi in una società, quella americana, ancora incapace di far fronte alla disuguaglianza e all’ingiustizia sociale che diventerà la cifra distintiva di quella realtà. E di questo libro. Perché “Furore” è uno squarcio di verità e realtà. Apre gli occhi, apre la mente, apre le coscienze.
Ed ecco che allora inizia un lungo e tragico viaggio in un climax di sofferenza che il lettore non può non avvertire. Si rimane attoniti e sopraffati dai vertici di emozioni suscitati dalle penna di Steinbeck. Oltre seicento pagine di pura avventura. Oltre 600 pagine di pura adrenalina. Dove si viene a conoscenza della rabbia, del furore (appunto...) di una parte di popolo. Si apprende infatti la fosca visione del ceto lavoratore e operaio verso le banche, la finanza, le grandi aziende il cui scopo, come si sa, è la massimizzazione del profitto. Il che significa incrementare la produttività e, in conclusione, la sostituzione dell’uomo con la macchina incuranti delle conseguenze sociali che ciò comporta; la competizione verso il lavoro che genera una grande domanda a fronte di un’offerta manuale e bisognosa di manodopera sempre più bassa. Questo determina un salario bassissimo per i lavoratori. È la corsa alla sopravvivenza. La famiglia Joad si ritroverà costretta a vivere ‘alla giornata’, a lottare per raccogliere l’uva, le pesche e infine il cotone per pochi centesimi all’ora. Necessari per quella poca carne, per quel tozzo di pane che permette loro di arrancare e andare avanti.
E quando si ci ritrova a lottare per sopravvivere ognuno si sente un peso per l’altro: la coesione famigliare verrà messa a dura prova e verrà alla fine salvaguardata, per quanto possibile, dalla donna. “Ma’”. Viene chiamata così nel racconto, la figura femminile più rappresentativa - per sua natura - che si porterà sulle spalle l’intera famiglia, incitando al sacrificio, alla sopportazione e alla fatica.
È con questa famiglia, con questo ritratto economico e sociale che Steinbeck lancia il suo grande j’accuse alla politica rea di non aver saputo governare il cambiamento e di aver abbandonato il ceto più povero a se stesso, ampliando le disuguaglianze. Pertanto è difficile immaginarsi un finale positivo per la famiglia Joad. Dopo 600 pagine si comprende la grande tensione sociale che si viveva in quel tempo, inevitabile quanto drammatica. Dopo 600 pagine si rimane attoniti nell’osservare l’incontrovertibile scorrere degli eventi che più si diradano nel racconto, più lasciano dietro di sè una frattura sempre più profonda nel tessuto sociale del paese e in quello intimo delle famiglie.
Ed ecco che allora si arriva all’umanità, l’unico ingrediente rimasto. Di valore. Merce rara e unica. Merce non commerciale appunto. E il gesto più alto di umanità non verrà fatto nei confronti della nostra sventurata ed emblematica famiglia che pure lo meritava dopo un viaggio di pura sofferenza, immensa frustrazione, vana dedizione, false speranze e sacrifico non ripagato. Eppure sarà la famiglia stessa a offrire, con il loro bene più grande che è rimasto in un tempo così difficile, il più grande gesto di umanità nei confronti di uno sconosciuto che sta per lasciare questo mondo dimenticato da tutti. Ma non dai Joad. Loro no. Poveri, sfiniti, malnutriti e maltrattati regalano umanità e dolcezza. Ed è nella potenza di quell’atto che nasce il sorriso, la condivisione e la speranza. Steinbeck ci insegna che l’uomo è di più, vale di più e può dare di più di ciò che sembra avere. Nonostante tutto. Ma è proprio per questo che nasce la rabbia anche - e sopratutto - in noi lettori, impotenti a ciò che stiamo leggendo e in balìa del racconto, che era la realtà di quel tempo, della famiglia Joad. Nasce il furore in noi e in loro.
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Senza speranza
Grande romanzo! La tragedia di migliaia di uomini che, negli anni '30, emigrano in massa verso la California, pieni di speranza, abbagliati da volantini che promettono il tanto agognato lavoro. Cacciati dalle loro terre dalle banche, imbrogliati dai venditori d'auto, caricano le cose essenziali su mezzi di fortuna e partono. La visione generale di questo esodo di massa si alterna alle vicende dei Joad: sono contadini ignoranti ma con una filosofia di vita grezza e onesta. Vogliono lavorare per mantenere la famiglia, li offende la carità; hanno una forte dignità e, soprattutto, una grande solidarietà, quella che gli fa dividere il poco cibo con chi ne ha ancora meno, che gli fa prestare soccorso spontaneamente, senza chiedere nulla. Arrivati in California, dopo un viaggio massacrante, sono male accolti senza comprenderne il motivo. I 'brutti e cattivi' si contrappongono alla grettezza umana dei capitalisti: le banche e i proprietari terrieri che li sfruttano. Con una scrittura rude e coinvolgente che permette di vivere la stessa vita della famiglia, di essere con loro su un camion scassato, nella tenda, nelle piantagioni a lavorare, sotto il sole rovente e sotto il diluvio. Un'epopea senza speranza dove i 'buoni' perdono.
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ANCH'IO PROVO FURORE
Lo annovero tra i più bei libri che io abbia mai letto.
Furore porta il peso della sofferenza umana, dell'ingiustizia, della sopraffazione, dello sfruttamento, ma anche della speranza di un riscatto, purtroppo concesso non a tutti.
E' un libro che ho letteralmente divorato in due giorni e lo stile con cui è scritto è davvero magnifico, è stato assolutamente naturale immedesimarsi nei personaggi e nella loro lotta per la sopravvivenza.
Il contenuto è talmente forte che non può non far riflettere.
Siamo sicuri che Tom Joad sia solo un americano dell'Oklaoma disposto a raccogliere pesche per pochi centesimi pur di sfamarsi? Tom Joad per poter sopravvivere, ha voluto, ha dovuto credere in una terra promessa ed ha affrontato l'attraversamento di un continente, fra cui un deserto, su una carretta, mettendo in pericolo la sua vita e quella della sua famiglia, per arrivare dove non era voluto, dove non c'era lavoro, dove veniva sfruttato e se possibile picchiato e umiliato per raccogliere pomodori per pochi centesimi.. ops scusate stavolta erano pesche giusto?
E' forte il grido di dolore di esseri umani, a cui è stata tolta la dignità e soprattutto l'umanità, esseri umani per i quali non si riesce nemmeno più a provare pietà, solo fastidio. Perchè vederli ci mette davanti alla nostra responsabilità, al nostro errore. Il fastidio almeno è quel briciolo di coscienza che non siamo ancora riusciti a zittire, tranne quando decidiamo di voltare la testa dall'altra parte.
Possiamo dire davvero di non aver nulla in comune con le famiglie californiane che si vedevano arrivare nella loro terra migliaia di disperati in cerca di lavoro e cibo?
Talvolta non sarebbe sufficiente piangere tutte le lacrime del mondo per le ingiustizie che ci circondano, ma Steinback ci vuole lasciare con un forte messaggio di speranza, creando un finale davvero coraggioso, che è anche alla base di tutto il messaggio di speranza del libro, ovvero la vera comprensione e l'aiuto arrivano da chi ha provato la sofferenza sulla propria pelle. Tutto il resto è profitto.
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Straordinariamente attuale!
Un pugno nello stomaco: ecco che cosa sentivo a ogni pagina di questo lungo e intenso romanzo. Perché “Furore” è un libro che fa male, molto male. Induce a pensare, riflettere, interrogarsi. Per poi lasciare un misto di amarezza, disgusto e – manco a dirlo – rabbia.
Con un impressionante realismo, fin da quel “in principio fu la polvere” (con cui mi piace riassumere il primo capitolo), Steinbeck ci scaraventa in un pezzo d’America della Grande Depressione, dove le parole della Dichiarazione d’Indipendenza dell’ormai lontano 1776 riecheggiano come mera utopia e autentica beffa:
“[…] che tutti gli uomini sono creati eguali; che essi sono dal Creatore dotati di certi inalienabili diritti, che tra questi diritti sono la Vita, la Libertà, e il perseguimento della Felicità […]”
Al seguito della famiglia Joad, tra le centinaia di migliaia di diseredati che all’epoca, con i loro vecchi catorci, inondavano la Route 66 alla volta della novella terra promessa della California, ci si rende conto che il cosiddetto “American dream” non è mica roba per tutti; di certo, non per i contadini cacciati dalla dura legge del profitto economico delle banche e dall’avanzare dei trattori, sospinti dalla fame e dai capricci del tempo, accampati ai margini dell’opulenza altrui, calpestati e sfruttati dal disprezzo. La vicenda narrata è nota, fortuna e vicissitudini dell’opera e del suo autore pure. Che cosa si può dire o scrivere di questo che, a ragione, è stato inserito tra i dieci migliori libri del XX secolo che ancora non sia già stato detto o scritto? Mi sento soltanto di sottolineare la straordinaria attualità che ho trovato nella lettura di queste pagine, a dispetto del tempo e dello spazio di ambientazione:
“Nell'Ovest si diffuse il panico di fronte al moltiplicarsi degli emigranti sulle strade. Uomini che avevano proprietà temettero per le loro proprietà. Uomini che non avevano mai conosciuto la fame videro gli occhi degli affamati. Uomini che non avevano mai desiderato niente videro la vampa del desiderio negli occhi degli emigranti. E gli uomini delle città e quelli dei ricchi sobborghi agrari si allearono per difendersi a vicenda; e si convinsero a vicenda che loro erano buoni e che gli invasori erano cattivi, come fa ogni uomo prima di andare a combatterne un altro. Dicevano: Quei maledetti Okie sono sporchi e ignoranti. Sono maniaci sessuali, sono degenerati. Quei maledetti Okie sono ladri. Rubano qualsiasi cosa. Non hanno il senso della proprietà. E su quest'ultima cosa avevano ragione, perché come può un uomo senza proprietà conoscere l'ansia della proprietà? E i difensori dissero: Sono sporchi, portano malattie. Non possiamo lasciarli entrare nelle scuole. Sono stranieri. Ti piacerebbe veder uscire tua sorella con uno di quelli?”
Sostituiamo “Okie”, termine con il quale i californiani chiamavano sprezzantemente i nuovi arrivati dall’Oklahoma, con africani, asiatici, siriani etc. o, più in generale, immigrati (a suo tempo, avrebbe reso bene anche la parola meridionali); la Route 66 con la rotta mediterranea o con le polverose strade lungo i Balcani: ecco che dagli Stati Uniti degli anni Trenta del secolo scorso ci ritroviamo di colpo nell’Europa dei giorni nostri, dinnanzi al dramma dell’emigrazione che abbiamo sotto gli occhi e a tutte le nostre paure. Paura perché loro hanno fame, paura perché sono tanti, troppi, “un’invasione”, giusto per riprendere un’espressione usata abitualmente; paura perché “quando una moltitudine di uomini ha fame e freddo, il necessario se lo prende con la forza”. Può accadere, se tale moltitudine vede e subisce torti e ingiustizie che calpestano la dignità degli esseri umani.
Una storia di profondo dolore, dove dire che la vita è dura è semplice eufemismo. È però, nel contempo, anche una storia di speranza in un futuro e una umanità migliori; e dalle parole di commiato di Tom Joad, seppur frammista a tanta amarezza, essa traspare tutta.