Narrativa straniera Romanzi Fuga senza fine
 

Fuga senza fine Fuga senza fine

Fuga senza fine

Letteratura straniera

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Dalla steppa siberiana all'asfalto di Parigi e Berlino, fra amori facili e amori impossibili: il romanzo del disincanto e dello smarrimento nell'aria di Weimar.



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Fuga senza fine 2019-10-20 16:01:49 Cecilia Ciaschi
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Cecilia Ciaschi Opinione inserita da Cecilia Ciaschi    20 Ottobre, 2019
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Una evanescente fuga alla ricerca di se stesso....


L'ufficiale dell'esercito asburgico Franz Tunda, che poi altri non è che l'autore stesso,
in una fuga senza un chiaro perchè, dalla Siberia a Parigi.
Egli diventa un nomade,spogliato e privo di tutto: soldi, rango, titolo, professione;
spettatore della disgregazione di un mondo antico e l'ascesa di nuovi poteri che
daranno poi il via ai totalitarismi che porteranno alla catastrofe della Seconda
Guerra Mondiale.
La lettura ci è risultata pesante e "ferma", non c'è quel ritmo incalzante per cui
il lettore va avanti spedito fino alla fine per vedere il finale;
gli avvenimenti sono portati avanti in un incedere statico, per nulla coinvolgente;
il linguaggio e i termini adoperati (almeno nella traduzione) sono capibili, ma lo
stile e la costruzione delle frasi non sono del tutto comprensibili e risentono
parecchio di certe ampollosità ottocentesche, tanto è che ci siamo dovuti fermare
più volte....
non accade nulla di veramente sconvolgente, un episodio o più episodi per poter dare
un senso e una svolta decisiva al tutto: si rimane in un limbo, in perenne attesa di
qualcosa.
Appaiono come funghi variopinte figure femminili, che non si capisce bene ne' il ruolo
e ne' cosa possono rappresentare nel concreto per il protagonista...
Tuttavia una cosa che ci è piaciuta è la descrizione che fa in vari frangenti di certa
aristocrazia e di certi radical-chic viziati già esistenti (!!!)....elementi che possiamo
riscontrare nella realtà odierna in abbondanza.
"...gli uomini viziati, che stanno bene e sono così immuni dal contagio della povertà
che presso di loro fioriscono le virtù prodigiose: la comprensione per la povertà,
la misericordia, la bontà d'animo e persino la mancanza di pregiudizi" (Pag. 129).
E la descrizione della città di Berlino, attraverso la quale si capisce bene il futuro che
poi ha avuto questa città e di come sia andata di moda specialmente negli ultimi
anni:
"Questa città ha avuto il coraggio di essere costruita in uno stile orribile, e questo le
da il coraggio per altri orrori" ......(Pag. 108 e seguenti).

Il protagonista rimane “in fuga”, appunto….alla ricerca di un evanescente se stesso.

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Fuga senza fine 2017-06-06 14:21:40 siti
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siti Opinione inserita da siti    06 Giugno, 2017
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TUNDA, CARO TUNDA

Un fatalismo distruttivo anima le righe di questo romanzo, gli uomini visti intenti ad agitarsi, ad affannarsi, dimentichi dei passi del destino al di sopra di loro. Tutto stride agli occhi di Tunda , Franz Tunda, ex tenente dell’esercito austriaco, inghiottito dopo la fine delle ostilità dalla taiga siberiana, ufficialmente disperso, fantasma redivivo poi. Infatti torna Tunda, riemerge da un quadro della storia, spaventato dalla Rivoluzione Russa, reintegrato in vecchi legami sociali: trova pure una moglie ma è ufficialmente ancora fidanzato. Che fa Tunda? Chiude quella finestra temporale e riaggancia la sua, quella lasciata irrisolta dalla Grande Guerra. Va a riprendersi il proprio nome, la propria patria, la propria donna e finisce in fuga, purtroppo da se stesso, dai suoi legami famigliari, dalla sua patria. Non ritrova più niente: la società è incapace di reintegrare il reduce, la vita ha annullato vecchi legami amorosi, la città è contraffatta da altra cultura, è globalizzata, ha perso la sua identità. Gli scomparsi non possono tornare, disturbano il flusso della storia, ricordano le premesse dell’involuzione, annoiano pure…
Tunda, caro Tunda, sei tu un’anima ferita come altre di nostra memoria o la tua esistenza è solo la metafora dello smarrimento?
Lettura dall’impatto immediato meno efficace dei grandi scritti del nostro, vive però di un senso di delusione che gli è connaturato e lo caratterizza , perfettamente in linea con il messaggio veicolato. Se si supera l’atteggiamento da lettore egocentrico alla fine lo si apprezza proprio per la perfetta simbiosi tra stile e contenuto.

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La cripta dei Cappuccini
la marcia di Radetzky
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Fuga senza fine 2016-12-28 21:23:46 Mario Inisi
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Mario Inisi Opinione inserita da Mario Inisi    28 Dicembre, 2016
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Essere e quasi non essere

"A quell'ora il mio amico Franz Tunda, 32 anni, sano e vivace, un uomo giovane, forte, dai molti talenti era nella piazza davanti alla Medeleine, nel cuore della capitale del mondo e non sapeva cosa dovesse fare. Non aveva nessuna professione, nessun amore, nessun desiderio, nessuna speranza, nessuna ambizione e nemmeno egoismo. Superfluo come lui non c'era nessuno al mondo".
Franz Tunda, tenente dell'esercito austriaco per desiderio del padre, non fa nulla a modo suo nella vita. Deve rinunciare alla musica che ama, fare l'accademia militare dove riesce benissimo in ciò che non gli interessa e infine deve andare a combattere. Finito prigioniero dei russi riesce a scappare grazie a un polacco che lo ospita per anni per poi diventare per puro caso e senza convinzione alcuna rivoluzionario bolscevico. In genere sono le donne a tirarlo di qua e di là, dirottando la sua vita. Certo, a partire dalla rinuncia alla musica la sua vita si diluisce. Il rapporto con il fratello si perde nell'invidia (lui può studiare musica) . Una serie di circostanze indirizzano le sue scelte politiche, di donne, di luoghi in cui vivere. La fuga del titolo è quasi più una ricerca del primitivo Tunda che si è perso, senza peraltro trovarlo mai. E' un passare da un luogo a un altro da una donna all'altra apparentemente alla ricerca della fidanzata quasi fosse stato il lasciarla l'errore principale della sua vita. Tunda incontra donne che lo distolgono dal ritorno a Irene, la fidanzata, molto facilmente. Forse non sentendo se stesso teme di non essere amato da lei. Una donna tra le tante le assomiglia molto. Tutte hanno una certa leggerezza di costumi. Ma probabilmente Irene non è il vero problema di Tunda. E certo non è il solo. Anche l'idea di cercare Irene quando è ormai sposata è un tentativo falso di affrontare un problema. Avrebbe dovuto cercarla prima o almeno farsi riconoscere da lei e parlarle. Alla fine Tunda è così insicuro di se stesso che non tenta di avere un rapporto vero con nessuno: da Irene, al fratello, alle sue mogli e donne varie. La sua mancanza di prese di posizione, di scelte, di atti di volontà lo rendono invisibile come uomo alla sua stessa coscienza. E gli fanno temere di essere invisibile agli altri. Significativa la scena dell'incontro con Irene. In realtà è un uomo che ha una grande facilità di rapporti: dal polacco alle donne (tutte), chiunque si lega a lui. Non sono i rapporti con gli altri il vero problema ma quello con se stesso e dunque con la fidanzata come conseguenza. Lei lo conosce, lo ha conosciuto, teme le sue aspettative.

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Fuga senza fine 2015-02-23 21:59:57 bluenote76
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bluenote76 Opinione inserita da bluenote76    23 Febbraio, 2015
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Vita sregolata

“Nelle pagine seguenti racconterò la storia del mio amico, compagno d'armi e di idee, Franz Tunda”
così scrive nella premessa Joseph Roth.
In realtà questo stratagemma consente allo scrittore di distanziarsi dalla materia trattata, di dialogare con il suo personaggio e con la sua storia. Personaggio e storia che lo stesso Roth avrebbe riconosciuto riflettere “in gran parte” la sua stessa esistenza di nomade e l'implacabile destino del “disperso”, che sintetizza nel bellissimo titolo “Fuga senza fine”.

Franz Tunda, infatti, percorre la vita senza mai arrestarsi, in una fuga continua. Tenente dell'esercito austriaco nella grande guerra, fatto prigioniero dai russi nell'agosto del 1916, riesce a fuggire e si rifugia in un solitario, triste casolare in Siberia, ai margini di una foresta, fino al 1919. Quando scopre che la guerra è finita, parte, attraversa la Siberia, arriva in Ucraina, nei pressi di Kiev, viene preso dapprima come spia bolscevica, diventa poi rivoluzionario, crede di innamorarsi, finisce sul Mar Nero a Baku, fino a ritornare nell'impero che non c'è più, in una città sul Reno, poi a Berlino e infine a Parigi...

E' un romanzo veloce, che attraversa un'epoca turbinosa come un fulmine: dalla rivoluzione russa, vista con gli occhi della lontananza, alla crisi non solo dell'impero asburgico, ma dell'antica cultura europea. Nel dialogo con il fratello, direttore d'orchestra di successo, sacerdote dell'arte, come egli lo definisce, Tunda mostra i mille buchi che sostituiscono nella vita quotidiana una cultura borghese ammuffita: i Buddha, i cuscini, i larghi e profondi divani, i tappetti orientali, le danze negre...

Joseph Roth ha una scrittura sintetica e asciutta, riflessiva e, a volte, potentemente satirica. I personaggi preferisce generalmente descriverli, non farli nascere attraverso i fatti. Si veda il bellissimo ritratto fisico-psicologico della rivoluzionaria ucraina, Natasa. La descrizione dettagliata che Roth fa del volto della ragazza rivela pure l'ideologia, di cui è, incosapevolmente, imbevuta: ella nega, infatti, la sua bellezza, sfida i maschi con il suo coraggio, deride i valori borghesi, ma sceglie Tunda, perché borghese, senza accorgersi neppure dell'amore degli altri uomini che, invece, la venerano: marinai, operai, contadini senza istruzione e innocenti come animali.

E' un romanzo intenso. Un'intensità tenuta a distanza e quasi nascosta dal succedersi vorticoso dei fatti, che poi, delusione dopo delusione, si fa intima, disperata “in una storia”, come scrive Alfredo Giuliani, “di una progressiva spoliazione”. Franz Tunda vive, infatti, senza mai scegliere, lasciandosi trasportare dai fatti e dagli incontri: la fidanzata, la guerra, la fuga e la perdita di identità, la rivoluzione che diventa prassi burocratica, “disciplina senza sentimento”, le donne con le quali non scatta mai una scintilla vera e profonda, l'alta borghesia intellettuale e aristocratica reazionaria, senza sapere di esserlo, piena di pregiudizi e di certezze, che vive senza sapere di essere morta. “A volte apparivano a Tunda come dei vermi, il mondo era la loro bara, ma nella bara non c'era nessuno”.

E' qui, nel finale, che “Fuga senza fine” diventa affascinante, il fascino di una indifesa, dolente nudità. Franz Tunda, uomo libero e dalle esperienze estreme (le notti rosse, il bianco intenso infinito del ghiaccio siberiano, il silenzio minaccioso delle foreste, la fame lancinante) viene trovato da Joseph Roth “sano e vivace, un uomo giovane e forte, dai molti talenti, nella piazza davanti alla Madeleine, nel cuore della capitale del mondo, e non sapeva cosa dovesse fare. Non aveva nessuna professione, nessun amore, nessun desiderio, nessuna speranza, nessuna ambizione e nemmeno egoismo. Superfluo come lui non c'era nessuno al mondo”.
Non ci sono speranze, non c'è accettazione. Rimane solo la nudità dell'essere tuttavia libero, non gregario di qualcuno.



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Fuga senza fine 2011-06-18 20:27:53 Giovanni Baldaccini
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Giovanni Baldaccini Opinione inserita da Giovanni Baldaccini    18 Giugno, 2011
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Dispersi

Parafrasando un famoso saggio di Claudio Magris, mi chiederò da “dove” Roth fosse “lontano” e verso quali lontananze lo conduceva la fuga senza fine che descrive in questo libro, forse il più autobiografico di tutta la sua produzione. Era lontano da quel residuato bellico rappresentato dal mondo dopo la Grande Guerra; dal poco che rimaneva dell’Europa; dalla sgretolata Casa Asburgica che gli era stata sottratta a forza; da tutti i segni di riconoscimento che gli avevano permesso di vivere e che non esistevano più? “Lontano da dove”, dove conduceva quella fuga senza fine che fu la sua vita e perché era cominciata? Il saggio critico di Magris merita di esser letto e non ripeterò le sue osservazioni. Proporrò le mie e proverò a rispondere a mio modo da “dove” quel “lontano” sia distante.
“Era il 27 agosto del 1926, alle quattro del pomerigigo, i negozi erano affollati, nei magazzini le donne facevano ressa, nelle case di moda le mannequins giravano su se stesse, nelle pasticcerie chiacchieravano gli sfaccendati, nelle fabbriche sibilavano gli ingranaggi, lungo le rive della Senna si spidocchiavano i mendicanti, nel Bois de Boulogne le coppie d’innamorati si baciavano, nei giardini i bambini andavano in giostra. A quell’ora il mio amico Franz Tunda, trentadue anni, sano e vivace, un uomo giovane, forte, dai molti talenti, era nella piazza davanti alla Madeleine, nel cuore della capitale del mondo e non sapeva cosa dovesse fare. Non aveva nessuna professione, nessun amore, nessun desiderio, nessuna speranza, nessuna ambizione e nemmeno egoismo. Superfluo come lui non c’era nessuno al mondo” (p. 152).
Questa la fine della fuga, ma come era cominciata? Saputo dal suo fraterno amico Baranowicz, dopo una lunga prigionia in Russia, che la guerra era finita, “Tunda voleva raggiungere l’Ucraina e da Zinerinka, dove era stato fatto prigioniero, la stazione austriaca di confine Podwoloczyska e poi Vienna” (p. 14). Non vi arrivò mai.
A Vienna Tunda non aveva più nessuno. Lo aspettava però, almeno così credeva, la bella fidanzata Irene, di cui Tunda portava cucita nella giubba un’immagine, l’unica che aveva di lei. Quell’immagine lo guidava; quell’immagine era la causa del suo smarrimento.
Nella sua fuga attraverso l’Europa sconvolta, tra la Rivoluzione Russa e Berlino, le prime avvisaglie del nazismo e la continua nostalgia in cui il protagonista si disperde, passando attraverso incontri con figure femminili che è impossibile dimenticare, Tunda giunge a Parigi, dove, per sopravvivere, anche tra i mendicanti occorre avere un protettore. Potrebbe tornare in Russia, dal suo amico “fratello” Baranowicz che gli scrive, avvertendolo che la donna che Tunda aveva durante una delle sue fughe si trovava presso di lui, “Ma non sentiva nostalgia della taiga. Qui, gli pareva, era il suo posto e la sua fine. Viveva dell’odore di marcio e si nutriva di muffa, respirava la polvere delle case cadenti e ascoltava rapito il canto dei tarli” (p 151).
Finché un giorno, in una strada elegante della capitale del mondo, Tunda scorse una donna che si avvicinava. “La donna si avvicinava sempre di più e benché dall’orlo del marciapiede alla soglia della casa dove egli si trovava non fossero rimasti neppure tre passi, gli parve che il suo cammino durasse un’eternità, come se lei venisse da lui, dritta da lui, non in quella casa, e come se lui stesse aspettando quella donna in quel posto da più anni.
Lei si avvicinò, lui guardò il suo caro, bel viso altero. Lo fissò, un po’ risentita un po’ lusingata, come le donne guardano, passando, lo specchio di un ristorante o di una scala, felici di verificare la loro bellezza e di disprezzare il poco valore del vetro. Irene guardò Tunda e non lo riconobbe. C’era una parete in fondo ai suoi occhi, una parete tra la retina e l’anima, una parete nei suoi grigi, freddi occhi risentiti” (pp.148-149).
Neppure Tunda riconobbe Irene, quella Irene che aveva inseguito per anni e che per anni aveva tenuta cucita nella tasca della giubba. Non la riconobbe perché non era quella la Irene che cercava. Il loro incontro si chiude nell’indifferenza e nel risentimento; e non poteva essere altrimenti.
Dunque, lontano da dove? La parete negli occhi risentiti di Irene risponde alla domanda. Lontano da sé. Lontano dall’anima che non riconosceva; da tutto ciò che di più autentico possedeva e lo costituiva, mentre si ostinava a rispecchiarsi in una specie di falsa identità collettiva, rappresentata da un Impero tramontato e disperso dal grande indifferente della storia. Roth era convinto d’esser morto, d’esser sepolto con il suo imperatore nella Cripta dei Cappuccini, mentre era il più vivo tra gli uomini. L’anima irriconosciuta, la sua identità più intima che lo seguiva senza posa nella sua inutile fuga da se stesso, continuava a manifestarsi senza essere riconosciuta. Gli parlava, la sua anima grande, ogni volta che scriveva una parola sulla carta, ma lui non la riconosceva. Come Tunda, l’aveva ridotta a un’immagine sbiadita, inerte, dimenticata, da tenere in una tasca sgualcita della giubba come una reliquia di qualcosa di neppure più pensabile. Come Tunda, il demone distruttivo e nichilista che aveva travolto la sua epoca e cui aveva personalmente ceduto, aveva privato la sua anima di senso; un senso che Roth erroneamente attribuiva a qualcosa che non gli apparteneva se non come austriaco e che ormai non esisteva più, mentre non dava credito all’immagine individuale di se stesso che continuava a manifestarsi attraverso la scrittura dal pozzo di trascuratezza in cui l’aveva relegata. Per questo gli occhi di Irene erano colmi di risentimento; per questo anche la sua anima si dissolse dietro un muro di silenzio sordo.
Roth morì alcolizzato in un ospedale per poveri di Parigi. Aveva preteso di fare della sua anima un mestiere. Questo li ha uccisi.

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