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Fisica della malinconia Fisica della malinconia

Fisica della malinconia

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Un ragazzo è affetto da una strana sindrome: soffre di empatia, è capace di immedesimarsi nelle storie degli altri. Inizia così un viaggio nel mondo del possibile, nel labirinto dei sentimenti mai provati, delle cose mai accadute eppure reali più del reale stesso. Questo "io" coraggioso e impertinente va e viene dal passato, fa incursione in un futuro di cui abbiamo già nostalgia, e ritorna con un inventario di storie sull'autunno del mondo, sui Minotauri rinchiusi in ognuno di noi, sulle particelle elementari del rimpianto, sul sublime che può essere ovunque.



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Fisica della malinconia 2023-08-06 05:21:50 siti
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siti Opinione inserita da siti    06 Agosto, 2023
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Il labirinto

Un libro magnifico, con il potere di incantare facendosi leggere facilmente.

Una voce narrante ondeggia sui flutti del tempo, vede e sente ciò che è stato già visto e già sentito dal proprio nonno. Il presente intreccia il futuro e una scrittura magistrale culla l'animo, lo incuriosisce episodicamente e poi lo innalza alla commozione. Poche parole capaci di intenerire l'animo, di farlo commuovere fino a renderlo partecipe degli eventi narrati, come se si fosse lì, protagonisti.

Una diagnosi: empatia patologica o sindrome ossessiva empatico-somatica, malattia rara e incurabile che ha i suoi picchi nell'infanzia, mi piace molto di più la prima definizione e a corredo una simil voce enciclopedica che tratta di neuroni specchio: interessante Gospodinov, sull'onda lunga delle rivelazioni ultime delle neuroscienze.

E poi un filo conduttore, il Minotauro, bambino, figlio, in una nuova veste rispetto alle fonti mitologiche: parlante, ma soprattutto umanizzato e allontanato dall' iconica mostruosità che fa di lui lo spettro di tutti i mali. Si sofferma Gospodinov sulla riproduzione del mito che vede il mostro rappresentato come lattante in braccio alla madre Pasifae, un mostro bambino, nascosto poi nel labirinto, quello nel quale si ferma la nostra immaginazione nutrita da secoli di famelico eccidio di giovani ateniesi sacrificati ai suoi appetiti. Pensatelo bambino, il Minotauro.

E ancora tornare al bambino voce narrante che entra letteralmente nel corpo del padre, nei suoi pensieri, nel suo essere stato anche lui bambino, ladro di uova o ragazzo innamorato o padre di quel te che sbircia la sua intimità. Geniale.

Si apre poi una più netta sezione affidata alla memoria dell'io parlante e si è stati bambini negli anni '70, anche se non nella Bulgaria socialista, ci si ritrova subito nel ricordo: a me sono bastati gli indiani, figure stilizzate in plastica che riportano a scontri epici, inutile dire che non ho mai mosso un soldato. Il pulviscolo del cinematografo, mosca cieca e poi aneddoti del tutto personali ma che, inutile tacerlo, hanno sempre una lontana e venuta assonanza con i miti di cui il narratore si è nutrito fin da piccolo.

Le sezioni successive si accompagnano, purtroppo, all'abbandono dell' infanzia e alla perdita degli effetti della sindrome empatica, a una prima fase di spiegazione dell'affievolirsi degli stessi, segue una carrellata di ricordi: anni '80, '90 e l'allerta pre apocalittica precedente il salto di millennio: qui le notazioni si fanno più evanescenti ma anche sottilmente ironiche, divertenti, nonostante sia analizzato il genere umano nella sua interezza come essere debordante delle più viscide manie e del tutto incapace di cogliere i segni naturali che anticipano la sua fine. In queste osservazioni ci siamo tutti noi, è una parte interessante, a me ha risvegliato echi sebaldiani sul trascorrere del tempo anche se l'intento qui mi sembra più quello di voler ridicolizzare la società super tecnologica, all'avanguardia, che però ci sta disumanizzando progressivamente e inesorabilmente.

Snocciola ricordi la voce narrante e con essi sgrana il Tempo, suo e in qualche misura anche nostro, meno comunista, meno Europa dell'Est, ma anche nostro. È la malinconia del mondo, questa è la sua fisica, il codice per decifrarla sono il mito o l' esametro omerico o Esiodo, Plutarco o più semplicemente il ricordo.

Questa è la fisica della malinconia, un sentimento del tempo che può affidarsi alla fisica quantistica per disgregare l’essere e demolirne la centralità sorridendo della nostra finitezza e aprendo a una prospettiva panteistica molto affascinante. Rimane la malinconia come sentimento del mondo, il nostro, perso in una dimensione temporale fittizia, ma per noi così reale da schiacciarci, se solo ne fossimo pienamente consapevoli; altrimenti non resta che vagare dentro questo labirinto e perdersi senza il filo di una narrazione o al più tentare di costruirla.


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Fisica della malinconia 2021-04-23 07:18:41 kafka62
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kafka62 Opinione inserita da kafka62    23 Aprile, 2021
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LA SINDROME DEL MINOTAURO

“Papà, cos’è il Minotauro?, gli avevo chiesto. Papà fece finta di non avermi sentito. […] Il giorno dopo mi portò una vecchia edizione di tutti i miti della Grecia antica che aveva trovato da qualche parte. Non mi sono mai separato da quel libro. Sono penetrato allora dentro il Minotauro e non ricordo di esserne mai uscito. Lui era io. Un bambino che trascorreva lunghi giorni e lunghe notti nel pianterreno di un castello, mentre i suoi genitori lavoravano come re o andavano a letto con tori. Non importa se il libro dice che è un mostro. Sono stato in lui e conosco tutta la storia. C’è alla base un grande peccato e una calunnia, una straordinaria ingiustizia. Io sono il Minotauro e non sono assetato di sangue, non voglio divorare sette giovani e sette fanciulle ogni volta, non so perché sono rinchiuso, non ho alcuna colpa… E ho una paura bestiale del buio.”

Il protagonista di “Fisica della malinconia”, che poi è lo stesso Georgi Gospodinov, racconta che durante la sua infanzia egli era in grado di entrare, a volte anche indipendentemente dalla propria volontà, nei ricordi degli altri, di penetrare attraverso quelle fessure e quei corridoi lasciati aperti dai loro dolori e dai loro rimpianti, di immedesimarsi totalmente in loro, fossero essi uomini, animali o perfino cose (“mi ricordo di esser nato come rovo di rosa canina, pernice, ginkgo biloba, lumaca, nuvola di giugno (il ricordo è assai breve), fiore autunnale turchino di croco intorno a Halensee, ciliegio precoce gelato da una tarda neve d’aprile, come neve che ha gelato l’ingannato albero di ciliegie”). Questa condizione, che un amico medico aveva definito, non si sa quanto scientificamente, come empatia patologica o sindrome ossessiva empatico-somatica, provocava una sorta di incontrollabile transfert che gli faceva “abitare” corpi, luoghi ed epoche a lui sconosciuti, permettendogli di vivere contemporaneamente in tempi diversi (essere suo nonno a tre anni abbandonato dalla madre presso uno sperduto mulino, o magari suo padre durante la Seconda Guerra Mondiale, mentre si innamora di una ragazza ungherese), oppure, vedendo un giorno il nonno ingoiare una lumaca viva per curare l’ulcera allo stomaco, di immaginare le sensazioni che l’animale prova mentre si addentra nelle oscure profondità dell’organismo che lo ha fagocitato, o ancora, dopo aver scoperto che fare un cerchio col dito intorno a una formica la confonde fino a farle perdere l’orientamento, di sognare che un dito gigantesco e puzzolente faccia lo stesso con lui, terrorizzandolo. Consequenzialmente al bizzarro stato clinico del protagonista, la narrazione fin dalle prime pagine si sfaccetta, si sdoppia, si frammenta, la prima persona si mescola alla terza (“Mi rendo conto di quell’incerta prima persona, che con facilità si ripara nella terza e poi di nuovo torna alla prima. Ma chi può dire con sicurezza che quel bambino di 40 anni fa ero io, e quel corpo è lo stesso che ho ora qui?”), i sintagmi si fanno sempre più contraddittori (“sono sempre stato nato”, “io siamo”, “lui era io”, “io sono libri”) e le storie si confondono e si contorcono come un labirinto (“Una storia con corridoi ciechi, fili che si spezzano, luoghi sordi e scuri e evidenti incongruenze. Quanto più sembra inverosimile, tanto più sei portato a crederci”). Durante uno di questi andirivieni temporali il narratore fa l’incontro con la figura più improbabile di tutte, il Minotauro, che egli crede di aver individuato in un bambino dalla testa taurina esibito in una fiera paesana, piena di maghi, giocolieri e imbonitori, che il nonno aveva visitato per la prima volta da bambino. Da quel momento questo personaggio ossessiona l’autore, che vi intravede il segno lampante di una giustizia ontologica, la quale trascorre attraverso i millenni e arriva fino ai giorni nostri, nei tanti labirinti della società moderna: le città (dove si può vagare per ore solitari “come una nuvola”), i manicomi, gli scantinati dove una moltitudine di bambini abbandonati a loro stessi vive la sua triste ed isolata fanciullezza. Consapevole che il Minotauro è sempre stato trattato dai testi classici (Ovidio, Seneca, Virgilio, lo stesso Dante) come un mostro, un aborto di natura, il frutto maledetto di un rapporto sessuale abominevole, Gospodinov (seguendo in ciò l’esempio di Jorge Luis Borges e di Friedrich Durrenmatt, che nei racconti “La casa di Asterione” e “Il Minotauro” lo avevano già trasformato in un simbolo della tragicità dell’esistenza) si impone di riscattarne l’umanità calpestata e vilipesa, immedesimandovisi a tal punto da immaginare come proprio il suo nostalgico desiderio di rivedere il volto della madre che lo ha abbandonato o il suo infantile terrore della notte senza fine a cui è stato condannato, con la morte come unica, malinconica aspirazione cui tendere per liberarsi dalla propria inguaribile sofferenza. Egli si identifica così intensamente con il Minotauro che, quando diventa per la prima volta padre, crede che la figlia appena nata, attaccata al filo d’Arianna del cordone ombelicale, sia il Teseo venuto edipicamente al mondo per ucciderlo.
Una volta divenuto adulto, l’autore ha perso, a suo dire, questa empatia (“Prima potevo abitare tutti i corpi del mondo, adesso sono contento se riesco a passare da una stanza all’altra nella casa del mio stesso corpo”) e, per compensare almeno in parte questa mancanza, è diventato un compulsivo collezionatore di storie. Nello scantinato, una volta adibito a rifugio antiaereo, dove trasloca per lavorare in completa solitudine e tranquillità, egli inizia a raccogliere oggetti, ritagli di giornale e ricordi di svariata natura, in grado di riportare in qualche modo alla luce il passato, e soprattutto quel paradiso perduto che è l’infanzia. “Fisica della malinconia” diventa così una sorta di “Ricerca del tempo perduto”, uno stravagante “amarcord” in cui emergono dalla propria e altrui memoria teneri personaggi (come Giulietta la pazza, che tutti i giorni aspetta davanti al cinema che Alain Delon la venga a prendere per portarla con sé in Francia) o scene di grigia eppur vitalistica quotidianità negli anni più bui del comunismo (le ricette di un libro di cucina lette avidamente con la fidanzata come surrogato all’endemica mancanza di cibo, la predisposizione da parte dell’autore bambino, nell’eventualità di una imminente fine del mondo, di un kit di sopravvivenza contenente un foglio di istruzioni, una automobilina, una scatola di fiammiferi e qualche medicina). Novello Sherazade, Gospodinov inventaria storie e reperti con la meticolosità di un archeologo, allestendo una specie di Arca di Noè in grado di far sopravvivere (o addirittura di far rivivere) il passato, rendendolo reale come il presente, un testamento per i posteri fatto di tutti “i giorni passati che ci stanno davanti”, un campionario in cui ci sia di tutto, specialmente “quello che non sta in primo piano, non dura, scompare”, tutte quelle piccole storie trascurabili, innominate, effimere, insignificanti, “che vengono dal nulla e nel nulla tornano”, ma che sole forse meritano di essere tramandate.
Come conseguenza di questo approccio, “Fisica della malinconia” ha un andamento aneddotico, aforistico, con frequenti digressioni e cambi di prospettiva (“Non sono in grado di proporre un racconto lineare, perché nessun labirinto e nessuna storia è lineare”), che a me ha ricordato un’altra opera recente della letteratura est-europea, “I vagabondi” della polacca Olga Tokarczuk. Facendo riferimento addirittura alla fisica quantistica, Gospodinov immagina un libro che rifugga il più possibile dal racconto classico, perché il racconto classico, rigoroso, coerente e consequenziale, è un annullamento delle diverse, infinite possibilità che ogni storia, prima di essere narrata, possiede. Lo scrittore bulgaro privilegia al contrario l’indeterminatezza, la vaghezza, la molteplicità, proprio per lasciare aperti gli spiragli, i corridoi paralleli, le biforcazioni che altrimenti verrebbero inesorabilmente soppressi. “Fisica della malinconia” sarebbe sicuramente piaciuto a Borges (“Il giardino dei sentieri che si biforcano”, “Funes, o della memoria”), per il tentativo utopistico, e fatalmente condannato al fallimento, di far rientrare tutta una vita, o almeno un anno di essa, nei suoi più minimi dettagli e impalpabili sfumature, dentro un unico libro. Sarebbe, ugualmente, piaciuto a Italo Calvino per la sua leggerezza, la sua natura eterea e inafferrabile, e probabilmente anche a Fernando Pessoa, per la sua malinconia, il suo sottile struggimento per ciò che non è avvenuto, per ciò che non si è avverato. E’ un libro esile e delicato come una farfalla, pieno di “epifanie istantanee che si diradano un attimo dopo”: in esso Gospodinov sperimenta la sua personalissima poetica dell’effimero, raccontando “una Storia generale di ciò che non è accaduto”; non quindi i momenti eccezionali, indimenticabili e solenni, ma le cose secondarie, insignificanti e minute, dove si annida davvero la vita, quelle piccole rivelazioni del quotidiano capaci di stagliarsi implausibilmente nella memoria e che è così difficile descrivere (“Bisogna conservare solo ciò che è mortale, effimero, fragile, piagnucoloso e che accende fiammiferi nel buio”). “Fisica della malinconia” è in definitiva uno strano ircocervo letterario, un po’ romanzo, un po’ autobiografia, un po’ raccolta di racconti, un po’ saggio filosofico, un po’ trattato sociologico (“I generi puri non mi interessano – afferma Gospodinov - Il romanzo non è ariano”), un’opera spuria, intertestuale, che non disdegna di utilizzare fotografie, disegni, riproduzioni di articoli di giornale o di pitture dell’antichità (un po’ come avveniva in “Austerlitz” di Sebald). E’ un libro sicuramente frammentario e non perfettamente compiuto (anche se si chiude, con una perfetta circolarità, da dove era partito), ma, pur non essendo completamente nelle mie corde per la sua intenzionale, inevitabile discontinuità, confesso di essere rimasto affascinato da questo approccio coraggioso, radicale, anticonformistico e antiantropocentrico, che se non proprio negli esiti artistici (qui la perfezione, il memorabile, l’imperituro non sono, come già detto, di casa) è ampiamente condivisibile nel metodo e soprattutto nelle intenzioni di una poetica la quale, nel suo tentativo di ritrovare il passato, si commuove non con le “madeleine” proustiane, ma piuttosto con una semplice, ben più prosaica merda di bufalo incontrata lungo la strada, “ritta come una cattedrale in miniatura”, con le mosche che vi volteggiano intorno come angeli, a testimonianza che il sublime è ovunque lo si voglia vedere.

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"I vagabondi" di Olga Tokarczuk
"L'Aleph" di Jorge Luis Borges
"Il Minotauro" di Friedrich Durrenmatt
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