Finché morte non sopraggiunga
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Recensione della Redazione QLibri
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Lo “spleen” in salsa yiddish
Shraga Unger è un vecchio conferenziere, anzi, come lui stesso tiene a precisare, è un vecchio conferenziere malato, ridicolo nonché del tutto superfluo e fastidioso. Si guadagna da vivere tenendo pubblici discorsi nei kibbutz sparsi sul territorio di Israele durante gli ultimi anni ’60. Si è fossilizzato su un unico argomento: l’ebraismo nell'URSS e, dopo aver sperimentato sulla sua pelle la durezza dell’antisemitismo sovietico, è giunto a tal punto di paranoia da incentrare i suoi monologhi solo sulla minaccia bolscevica che lui afferma essere perennemente incombente. Egli stesso teme che proditori attacchi ad Israele da parte dell’orso russo possano venir mossi nell'immediato futuro, come primo passo verso la conquista del Mondo. Si documenta, legge compulsivamente ogni notizia disponibile, accumula giornali e lettere da oltre cortina per comprovare i suoi timori. Per il resto, trascina la sua vita in un grigiore infinito, ripetendo ogni giorno, meccanicamente, gli stessi gesti, gli stessi rituali, senza alcun entusiasmo. L’unico barlume di affetto, per la cantante Ljuba che negli anni pregressi lo aveva accompagnato nei suoi giri di propaganda, è anch'esso ammuffito con lui. Alla fine pure l’ardore antibolscevico si affievolirà, travolto dalla marea montante della sua amarezza cosmica. Shraga, mestamente, accetterà il suo inevitabile accantonamento ai margini di una società che ormai non comprende più.
Anche il Conte Guillaume di Touron, signore di un piccolo feudo nei pressi di Avignone, è afflitto dal male dell’esistenza. Inoltre, giacché egli ha dilapidato tutte le sostanze di famiglia, è carico di debiti. I suoi vigneti sono afflitti da una malattia misteriosa, le bestie si ammalano e i contadini sono inquieti e ribelli. Vivendo a metà dell’undicesimo secolo l’unica soluzione che individua per tentare di risolvere le sue inquietudini interne ed esteriori è partire con tutto il suo seguito per unirsi alla Crociata cristiana in Terra Santa. Ma il viaggio, lungo e difficoltoso, non fa che acuire le sue ansie ed i suoi intimi turbamenti. Nonostante gli incoraggiamenti ed i “saggi” consigli del parente Claude “Spallastorta” (cronachista della vicenda), la depressione che lo affligge non fa che accrescersi. Addirittura pare estendere i suoi nefasti effetti a tutta la missione. Evidentemente un ebreo si è infiltrato nella corte e sta ammalorando i migliori intenti di buon cristiano del Conte. Ma, ahimè, non si riesce ad individuare il maligno infiltrato. Così, anche quando il gruppo di ardimentosi crociati entrerà nei territori in cui allignano fiorenti comunità ebraiche, la gioia di poter glorificare il Signore torturando e mettendo a morte gli assassini di Cristo, incendiandone le proprietà e confiscandone i beni, non recherà alcun giovamento all'impresa o al morale complessivo. Quando l’inverno comincerà ad imperversare sulla carovana ogni speranza di vedere l’agognata Gerusalemme svanirà nel dolore e nell'afflizione.
I due racconti di cui è composto il volumetto di Amos Oz sono assai distanti per contenuti, epoca di ambientazione e stile narrativo, ma sono improntati dal medesimo pessimismo cosmico e dagli stessi malesseri esistenziali; dalla stessa noia ed accidia. Li accomuna identico disagio, medesimo “spleen”. Per altro il concetto di spleen trova le sue radici proprio nella cultura ebraica e queste due storie lo sostanziano perfettamente.
L’immanente pessimismo di Shraga, che è costantemente costernato dalla minaccia bolscevica, non è per nulla dissimile dalla cupezza che ammanta il gruppo di improbabili crociati di Guillaume. Il primo scarica i suoi umori malsani nelle inutili (ed inascoltate) filippiche in sperduti kibbutz, i secondi, non riuscendo, per loro intrinseca inettitudine, a raggiungere la Terra Promessa di Gerusalemme si accaniscono sui poveri malcapitati che si trovano ad incrociare, non rendendosi conto che il vero nemico è nei loro cuori, nel loro animo preda di una depressione cupa, angosciosa, dalla quale non riusciranno a fuggire.
Alla fine della lettura ci resta addosso una sensazione malsana, un senso di depressione generalizzato, di insofferenza e repulsione anche nei confronti dei protagonisti e delle loro storie.
Prima di affrontare questi due racconti non conoscevo la prosa di Amos Oz e da essa sono restato per un verso sorpreso e, per l’altro, profondamente incupito, come se la depressione dei protagonisti fosse infettiva.
Lo stile letterario è ricercato e profondo e di questo si deve rendere merito anche all'ottima traduzione in italiano. Tuttavia il soliloquio del primo racconto alla fine risulta un poco pesante da seguire: instilla quello stesso fastidio che Shraga stesso ammette di ingenerare nel prossimo (e forse questo è un ulteriore punto a favore dell’A.).
Le considerazioni in esso svolte oggi ci appaiono datate. Il racconto, all'atto della stesura, aveva una ambientazione contemporanea, infatti “Amore tardivo” è del 1970, cioè della medesima epoca nella quale l’io narrante, Shraga, ci parla. Tuttavia i cambiamenti epocali che il Mondo nel frattempo ha subito ci fanno apparire i cupi rimescolii mentali del conferenziere ancora più muffiti ed incoerenti. Al contrario appare ancora più evidente il patologico scoramento nella personalità del protagonista.
Il secondo racconto, eponimo della raccolta, risulta più leggibile, forse anche grazie al crudele sarcasmo con cui ci viene mostrato il Medioevo cristiano, cinicamente descritto col freddo distacco di chi, pur discendendo dalla genealogia di vittime di quelle “Sante guerre”, lo esamina come un analista di laboratorio.
In complesso la breve antologia, pur non risultando affatto piacevole (ma non penso neppure che questo fosse l’obiettivo dell’A.) è, comunque, un’ottima lettura scritta in modo raffinato e interessante.
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La forza della memoria
Torna in libreria Amos Oz con “Finché morte non sopraggiunga” opera composta da due lunghi racconti, uno omonimo al titolo di cui alla stessa e l’altro, il primo, intitolato “Amore tardivo”. Di fatto, protagonista dello scritto non è altro che l’umanità con tutti i suoi pregi e difetti, giustizie e ingiustizie. Questa umanità trova la sua ragion d’essere nelle voci dei protagonisti di queste vicende.
Voce narrante di “Amore tardivo” è Shraga Unger, di sessantotto anni, vecchio conferenziere del Comitato esecutivo, trasandato e dedito ad una vita dissoluta. Consapevole della sua bizzosa pressione sanguigna, dell’esser reduce dalla rimozione di un piccolo tumore all’intestino, di esser in sovrappeso, di aver delle gengive e dei denti così marci da emanare un odore talmente acre da allontanare i rispettivi interlocutori, di fumare e mangiare senza riguardo, non ha la minima voglia di prendersi cura di se. Vive in uno spartano appartamento sito in una casa popolare di un quartiere popolare e composto da una stanza a cui si sommano i servizi, una piccola cucina, ingresso e balcone illuminati, luogo dove attende, con lucida consapevolezza, la sua sempre più prossima dipartita. La sua esistenza è cadenzata da una rigorosa routine a cui si attiene fedelmente, una routine e una esistenza che ruota attorno all’ebraismo russo. Non ha la minima intenzione di rinunciare al suo ruolo e di lasciar spazio ai più giovani che sicuramente non hanno la stessa passione, la stessa verve, lo stesso animo di lottare e difendere le proprie radici. Da qui, i Kibbutz, da qui lei: Ljuba Kaganovskaja, che con lui si esibiva nei lunghi peregrinaggi e che oggi maggiormente rappresenta “l’amore tardivo” assieme alla questione degli ebrei nella Russia sovietica, il complotto, cioè, bolscevico per sterminare i popolo ebraico e poi procedere con il resto del pianeta.
E la tematica ebraica, non manca nemmeno nella seconda parte della storia, porzione dell’opera dedicata a Gerusalemme e a questa banda di sgangherati crociati che provano in tutti i modi a raggiungere la Terra Santa senza riuscirvi.
Una trama solida, quella presentata, dove a fianco della tematica principale vengono trattate questioni quali l’amore, la guerra, le persecuzioni, la malinconia del vivere, la ricerca del proprio posto nel mondo come singoli e come collettività. Una trama, ancora, avvalorata da uno stile preciso, meticoloso, prezioso, erudito, talvolta prolisso. Elemento però quest’ultimo, che rende più veritiera la figura dell’anziano, che lo stratifica.
Mediante la penna di Amos Oz assaporiamo una Tel Aviv e un Israele che non esistono più e riassaporiamo, ancora, una Europa arcaica e crudele che ha segnato la nostra identità in quella costante insoddisfazione al vivere. Un malessere che si concretizza in odio, in morte, in rabbia. Perché tutti cerchiamo la nostra ragione d’essere e di esistere e le risposte ai nostri perché. Un piccolo gioiello. Impegnativo, affatto semplice da leggere nonostante la sua brevità, eppure indelebile.