Figure nel salotto
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La prigione dello sguardo
Tutto inizia con un fulmine in una notte di tempesta, un fulmine che fa “impazzire le ombre” e disvela nella finestra della casa di fronte tre figure, tre donne, immobili e rivolte alla strada, impassibili nei loro gesti sempre uguali, nelle loro vite scandite da rituali quasi irreali. Tre donne che diventeranno nel loro silenzio, nella loro metafisica immobilità, l’ossessione di una ragazza, la narratrice della storia, di cui non è dato sapere nulla se non che ha diciassette anni: le osserva dalle persiane, immagina, crea e disfa le loro vite mentre le spia dal davanzale. E poi nutre e coltiva quel desiderio, il desiderio di uccidere la maggiore di loro, lei che sembra tanto simile a lei, lei che sembra nascondere un segreto indicibile e costringere le altre sorelle al silenzio. Finché per caso alla posta la narratrice non riuscirà a intercettare una lettera indirizzata alle tre donne e il confine tra realtà e immaginazione comincerà a farsi voluttuosamente sottile.
Questo di Norah Lange è prima di tutto un romanzo sullo sguardo, capace di creare mondi, ma così fallibile nonostante la sua pretesa di verità: come nel celebre film di Hitchcock “La finestra sul cortile”, lo sguardo si addentra nella vita degli altri competendo con l’immaginazione, che spasmodica tenta di gonfiare bolle, riempire spazi oscuri; il gioco dello spettatore, che guarda senza essere visto, si fa ossessivo, vertiginoso, quasi erotico: è la stessa “Finestra dei Rouet” di Simenon, il palchetto del teatro, vita che si fa letteratura, letteratura che si fa dramma. E il lettore, in questa seducente seduta di voyeurismo, non può fare a meno di chiedersi se le tre donne davvero esistono o se forse, come in “Un giro di vite” di James, in fondo l’eccitazione febbrile di questa ragazza non abbia creato un mondo immaginario. Non sembra un caso che prima del famoso lampo, la protagonista scorga per strada un cavallo morto: quasi a dover metabolizzare il dramma della morte, le tre figure che appaiono sembrano riflettere l’ossessiva paura della fine, abbandonate come sono a una solitudine dolorosa, a un silenzio opprimente. Il tema della morte si insinua sottile in ogni lembo di conversazione, in ogni sguardo obliquo, come a voler dire che diventare adulte significa fare i conti con il senso della caducità. E in effetti si potrebbe tentare un’altra lettura, psicosociale, del romanzo: diventare adulti significa far morire parte di quello che è stato e forse essere condannate, se si è donne in un mondo tutto maschile, alla reclusione in un salotto, a essere le ombre di se stesse.
Norah Lange, amata da Borges e moglie del suo più caro rivale, si muove sinuosa in una scrittura avvolgente, complessa senza mai essere inestricabile, che dilata le frasi come cerchi concentrici via via più estesi, abolendo nessi logici e sintetizzando in un’unica immagine più elementi: uno stile “ultrasita” come è stato definito, tutto sinestesia e metafore, perennemente in bilico tra realtà e finzione. E forse proprio per questo si potrebbe azzardare una lettura metaletteraria del libro di Norah Lange: la ragazza di 17 anni che osserva le tre donne dalla finestra, che immagina le loro vite, le odia, le desidera, le vuole morte, è forse l’autore stesso che vede e plasma i suoi personaggi, che ne progetta vita e morte accorgendosi però che la loro esistenza letteraria è più forte della sua volontà. Trascinato e imprigionato in questa spirale polisemica, il lettore non può fare altro che attendere il bandolo della matassa, ma come Don Giovanni precipita quando termina la musica, così le tre donne svaniscono quando per la prima volta si distoglie lo sguardo, portando con loro il segreto di questo libro. Peccato solo per l’assenza quasi totale di trama, eventi e passaggi logici che rende ostica e accidentata la lettura, ma nulla che spaventi un lettore allenato.