Figlio di Dio
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Anche lui è un figlio di Dio
E' un periodo che sto scoprendo la letteratura statunitense, in special modo, leggendo ed apprezzando due grandi autori come Steinback e Mc Charty, entrambi purtroppo deceduti.
Sono molti i punti in comune che legano questi due scrittori, soprattutto per quanto riguarda lo studio minuzioso delle realtà sociali più difficili, che si celano dietro i lustrini del grande sogno americano o quello che ormai ne rimane.
In questo romanzo l'autore mette come protagonista una figura quasi demoniaca che erra per le montagne in cerca di giovani donne da uccidere e poi violare. Un necrofilo, di cui non si sa nulla sul suo vissuto, sulla sua infanzia e su come sia finito a barboneggiare e poi uccidere come un barbaro di altri tempi.
Abbandonato a se stesso, con uno Stato sociale praticamente assente, che non da speranza a chi si ritrova senza più nulla, qui si torna proprio allo stato della Pietra, dell'uomo primitivo che sopravviveva nelle grotte e si nutriva di sterpaglie, radici, piccoli roditori.
La follia cieca che prende al protagonista avrà dure ripercussioni su una cittadina, fin quando l'altrettanto spietato sceriffo con i suoi assistenti decidono che è arrivato il momento di porre fine a tutta quella sofferenza, atrocità e violenza.
Le descrizioni di ciò che accade sono vive, crude, riempiono la mente. La natura è ostile all'uomo come sempre, soprattutto attraverso un freddo implacabile che l'autore ha il merito di trasmettere al lettore in tutta la sua potenza.
Per stomaci forti, per chi ha deciso di scavare sotto alla superficie e ha trovato un cimitero di ossa senza nomi.
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Male assoluto e metafora del quotidiano.
Lester Ballard è piccolo, sporco, ha la barba lunga, nelle sue vene scorre sangue di sassoni e celti, si muove nella natura selvaggia con impacciata ferocia, quasi fosse una fiera. Ma in realtà non è altro che un figlio di Dio come tutti noi, forse.
La sua è una progressiva discesa agli inferi, senza ritorno, abbandonando quel residuo di civiltà che gli era appartenuto, deluso e ghettizzato, in un isolamento progressivo e simbiosi con gli elementi naturali, dopo avere perso il poco che aveva. Si occultera' in una tetra caverna, costretto a cacciare per nutrirsi ed a vivere di espedienti.
Sarà l'inizio di una serie di inspiegabili e feroci delitti, mimetizzatosi nell' orrore da lui stesso creato, senza un briciolo di " umanità " ne' un significato se non quella ferocia e quel " male " che sgorga improvviso da dentro ma che è da sempre parte di se' e del mondo.
Ballard si farà predatore seriale, implacabile, mimetico, trasformista, necrofilo, calato dalla montagna come un lupo affamato, di rabbia, solitudine, vendetta, morte.
Il contorno, in quel sud rurale del Tennessee dove persino il paesaggio è feroce e la neve copiosa rivela progressivamente combattimenti e scene di morte, è una comunità che si nutre anch' essa di violenza e di eccessi, talmente " normali " da divenire quotidianità.
La linearità descrittiva si fa circolarita', concatenazione violenta, la nausea compagna di viaggio, l' assenza di compassione respiro profondo ed una fusione, di protagonisti, vicende, descrizioni, paesaggio, si trasforma in apocalisse.
Il male esiste, in noi e tra noi, l' autore si astiene da qualsiasi giudizio, costruisce una narrazione a più voci, piccoli pezzi di storia narrati dai singoli abitanti della comunità, un racconto asciutto, dettagliato, un puzzle infernale, e quella caverna che sa di indagine psicologica, rifugio, museo degli orrori, scatola della memoria.
La voce che parla a Ballard non è un demone, ma un vecchio io perduto che torna di tanto in tanto in nome della ragione mentre la sua ombra scivola scura e mutevole, pronta a colpire.
Non resta che l'azione, cruda, cruenta, inspiegabile ed il senso sta nel non chiedersi quale esso sia, a travolgere e racchiudere tutto, in primis noi lettori, scioccati da tanto furore ma ammagliati da cotanta forza espressiva, da un respiro trattenuto e sospeso, travolti da una discesa agli inferi in un precipizio psichico e fisico, risucchiati dall' io del protagonista, nelle viscere della terra, mentre le storie dell' inverno trascorso tornano alla luce come se il tempo riavvolgesse e restituisse un passato nefasto.
Questo romanzo non è considerato all' apice della produzione di McCarthy, tuttavia la sua forza espressiva e i tratti definenti sono indiscutibili, personalmente ho amato quella discesa agli inferi che mi ha ricordato il Kurtz Konradiano, in quella vita di orrore vestita, metaforicamente simbolo di un Male più grande e terribilmente vicino.
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Figli di Dio senza Dio
Credevo che dopo le mie prime avventure con i romanzi di Cormac McCarthy, difficilmente sarei rimasto stupito di fronte alla sua crudezza. Mi sbagliavo. Dei suoi romanzi che ho letto, probabilmente “Figlio di Dio” è il più crudo di tutti. Ma come a volte alcune persone ci piacciono per la loro schiettezza, così McCarthy mi piace per questa sua peculiarità: è vero, è reale, seppur deve sbatterti le cose in faccia senza mezzi termini. Ebbene, in questo romanzo avrete a che fare con un vero e proprio mostro, Lester Ballard. Egli è un figlio di Dio, come lo siamo tutti, ma che ha strappato il suo Creatore da dentro di sé, lasciandone nient’altro che minuscoli brandelli. Non conosce morale, non conosce decenza, è schiavo dei suoi istinti. E' un assassino, un vile che trascina sé stesso sempre più nell’oblio, sempre più giù, sempre più a fondo, e sembra quasi che un fondo non ci sia.
Ballard non ha vergogna di sé, egli è senza cognizione del “male”, perché ha estirpato il “bene” dalla sua anima e quindi un metro di paragone non c’è. La differenza per lui non esiste, perché non esistono minuendo e sottraendo. Non può pesare le sue azioni, non può dar loro un valore, non può ispezionare la purezza della sua anima.
Tra le pagine di questo libro lo osserviamo portare avanti la sua maledizione (perché di vita certo non si può parlare), ed è come guardare un animale in gabbia mentre stermina coloro con cui convive e, una volta finito, vederlo strappare a morsi le sue stesse membra. Staremmo fermi lì, a guardarlo, sapendo di non poterlo fermare.
Perchè in fondo siamo tutti figli di Dio, ma alcuni, a volte, nascono con dentro tutt’altro.
Questa è la crudezza di McCarthy e, sapete cosa? Mi piace. Diamine, se mi piace.
“Non sapeva nuotare, ma chi sarebbe riuscito mai ad annegarlo? Sembrava che la rabbia lo tenesse a galla. Come se l’ordine naturale delle cose venisse meno. Guardatelo. Indubbiamente sono altri uomini, uomini come voi, a sostenerlo. Ha popolato la sponda di uomini che lo chiamano. Una razza che alleva gli storpi e i folli, che vuole nella propria storia il sangue infetto di queste creature, e lo avrà. Ma quello che vogliono adesso è la vita di quest’uomo. Lui li ha sentiti cercarlo nella notte con lanterne e grida di esecrazione. Com’è possibile allora che resista? Perchè le acque del torrente non lo prendono?”
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Il collezionista di ossa.
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C'è violenza e violenza
Recensione a Cornac Mc Carthy
Figlio di Dio (1973), Torino, Einaudi 2000-2008.
di Alberto Ferrari
C’è un mondo dove gli uomini non riconoscono la legge perché vivono secondo regole primitive e hanno già un gran da fare a misurarsi con una natura ostile. Intendiamoci la legge c’è, ma è terribilmente insufficiente per quel mondo. Siamo nella contea di Sevier, Tennessee, allorché le gesta di Lester Ballard, un poveraccio che si trasforma in killer seriale, stanno passando di bocca in bocca, chiamate a raccolta dalla voce narrante di questo secco romanzo di Cormac Mc Carthy, dove, come al solito, la solitudine dell’uomo nei grandi spazi, la violenza inaudita dei rapporti umani ci vengono restituite con la solita precisione analitica, sulla quale noi lettori affascinati siamo costretti a riflettere.
Che cos’ha di diverso Lester Ballard da quei padri che abusano delle figlie, oppure da quegli altri gaglioffi che, dai tempi del Ku-klux-klan, agiscono in bande a danno di vittime facili, oppure fanno razzie di fucili sfruttando l’alluvione che colpirà la città di Sevierville? Proprio niente. Per assurdo, anche Lester è un figlio di Dio, come commenta una delle tante voci narranti. Senonché la solitudine tremenda in cui Lester anno dopo anno scivola fino alla pazzia ha qualcosa di grandioso. Il Narratore, tirando le fila dei racconti, scorge nella capacità di resistere alle avversità della natura di quest’uomo qualcosa di sublime che ha il sapore dello sberleffo verso gli Dei che tutto determinano. Attraversa un torrente impetuoso senza saper nuotare brandendo il fucile verso il cielo come un eroe da illustrazione, oppure curvo sotto il peso del materasso zuppo, ma riesce a mettersi in salvo. Trascorre un inverno in una caverna, costretto a strisciare nel fango per uscire ed entrare dalla strettoia dell’ingresso, bestemmiando Dio per il freddo e la fame, dopo che la baracca in cui viveva ha preso fuoco durante una tormenta di neve, ma riesce a sopravvivere. La sua consolazione sarà l’amore rubato ai cadaveri di donna che ha appena ammazzato. Alle orecchie di queste donne sussurra tutto quello che non è mai riuscito a dire a nessuna perché nessuna è mai andata con lui. E quando non riuscirà più a trascinare i cadaveri come faceva con il materasso e con gli enormi pupazzi di peluche, trofeo del tiro a segno, perché i tutori della legge lo stanno accerchiando, cercherà nella interiorizzazione simbolica la continuità della passione amorosa. Ballard si aggirerà per le montagne come un animale ferito, vestito degli sgargianti abiti femminili delle sue vittime. Nella disgustosa maschera di rossetto, cenere e fango della sua faccia folle si perpetua la bestemmia umana contro una divinità che, alla fine, sta a guardare, come noi lettori, con gli occhi rossi per lo stupore.