Divorzio a Buda
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Giovanile Marai
"Di vere sorprese, pensava, ce n'è solo una nella vita : è quando scopriamo di essere anche noi, proprio noi, mortali" .
Un giovane magistrato rimane particolarmente scosso da una causa di divorzio che sta esaminando, quando scopre che il marito in questione, un medico piuttosto noto, era stato suo compagno di scuola. Tanto più nel ricordare di aver conosciuto, quando ancora era ragazza, pure sua moglie.
Opera giovanile dello scrittore ungherese, diciamo pure abbastanza immatura, con una prosa spesso rallentata e ripetitiva, talvolta enfatica.
Ci sono indubbiamente pagine belle, ma intercalate da tante altre in cui si tende a dilazionare, con frasi atte a 'chiarire meglio' senza tuttavia aggiungere nulla di rilevante; oppure a spostare l'effetto-sorpresa con troppe parole che girano a vuoto, rendendo così prolisso il testo. Romanzo pertanto ancora assai distante dalla scrittura essenziale, quasi 'chirurgica' , che conosciamo nei libri migliori di Marai stesso.
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Bene ma non benissimo
Questo è il secondo libro di Marai che un po' mi delude, dopo "L'Eredità di Estzer" e fondamentalmente per gli stessi motivi: lo trovo ripetitivo sia negli argomenti che nello stile. Mi sembra di aver letto una forma embrionale di "La donna giusta" nella prima parte e di "Le braci" nella seconda. Anche ne "L'Eredità di Estzer" trovai molto di "Le braci", suo capolavoro e che ho amato dall'inizio alla fine. Ma se un lettore comincia a conoscere Marai da questa sua opera, probabilmente correrà il rischio di annoiarsi con alcune delle sue opere antecedenti, cosa che a me sta appunto succedendo.
Libro molto armonioso, "Divorzio a Buda", scritto con la caratteristica prosa limpida ed elegante, nulla da dire ma nel complesso non mi è piaciuto perché non mi ha detto nulla di nuovo. La prima parte parla della vita borghese viennese che è ormai in declino e si ricordano le fortunate generazioni passate - cosa ripresa e studiata minuziosamente in "La donna giusta", la seconda invece diventa un faccia a faccia tra due uomini legati dalla stessa donna (donna che anche qui Marai fa fuori), e quindi il triangolo amoroso di "Le braci" non tarda a far capolino nella memoria del lettore. Stesso mistero e stessa tensione che mano a mano aumenta durante questo dialogo che spesso è in realtà un monologo, una confessione da parte dell'uomo ferito cioè del marito ingannato, sempre con i modi pacati e intelligenti, da gran signori. Ovviamente anche l'inganno, il tradimento, è nobile, sottile, psicologico e non fisico, tutto è fatto con classe nelle storie di Marai, non si sporca mai le mani con bassezze e tutto ha una sua dignità. Ma alla fine mi ha stancato. Nemmeno il finale mi è piaciuto molto. Credo che va benissimo per chi si approccia all'autore per le prime volte e ancor meglio per osservare i progressi che lui fa nelle sue opere precedenti per arrivare a quella forma e a quel contenuto perfetto che "Le braci" rappresenta, oppure per chi semplicemente ama la scrittura di Marai.
"Il tessuto dell'anima è ormai carbonizzato, nessuno sarà mai in grado di porvi rimedio."
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La notte ha un solo giudice, la coscienza.
"La notte ha un solo giudice, la coscienza."
Quanto è vera questa affermazione: ciascuno di noi, immagino, avrà sperimentato il peso di quello sguardo inquisitorio nel buio della notte, uno sguardo che non è possibile evitare, inutile cercare vie di fuga da quegli occhi che già conoscono la verità, che hanno già emesso una sentenza.
Anche Kristof Komives è un giudice, ma un giudice di giorno, tra l'altro discendente di una famiglia che da tempo immemore conta tra i suoi membri i più illustri rappresentanti del mondo forense ungherese.
E i Komives, forti della loro rettitudine morale, esente da dubbi ed incertezze, mai vacillante perchè continuamente illuminata e guidata dalla rigida imparzialità della Giustizia, si sono mostrati sempre degni di quella reverenza mista a devozione riservata solo ai «grandi giudici»: "coloro che da un lato sono in grado di leggere in fondo al cuore degli uomini, e dall’altro sono l’incarnazione della Legge; tanto temibili quanto rassicuranti per la società assetata di giustizia".
Tale era la reputazione di Kristof Komives, del giudice Kristof Komives.
Ma tra il giudice e l'uomo si forma una crepa, minuscola, appena percettibile, se non fosse per alcune ripercussioni anche a livello fisico, episodi sempre più frequenti di debolezza e sensazione di svenimento.
S'insinua un dubbio che progressivamente lacera la coriacea corazza di Kristof fatta di certezze e princìpi irremovibili: è come se qualcuno gli avesse tolto il paraocchi e il suo sguardo, prima monodirezionale, si allargasse ora ad una nuova prospettiva determinando in lui uno stato di disorientamento e di turbamento.
E' come se qualcuno avesse sollevato un velo che copriva cose e persone mostrandole così per quello che erano veramente: persino la sua famiglia, quelle persone che conosceva da sempre, gli appaiono ora in una luce diversa.
Il padre, ad esempio, considerato da tutti uomo autorevole e di grande carisma: non era forse segno di debolezza più che di 'virilità' l'orgogliosa rassegnazione in cui soffocava silenziosamente il dolore e la rabbia per essere stato abbandonato dalla donna che amava, scappata via da lui in un modo contrario alla norma, 'rinnegando con la sua ribellione ogni costume, ogni legge, ogni decenza, tutto ciò su cui si basavano le convinzioni morali della famiglia K?mives.'
E la sorella, Emma, che aveva sempre sopportato con pacata sottomissione tutto ciò che il padre e la vita le avevano imposto, dall'adolescenza trascorsa nel cupo grigiore di una scuola religiosa sino al matrimonio con un uomo non desiderato, cosa nasconde realmente dietro la parvenza di moglie fedele e madre premurosa? Emma ha sempre dato 'a tutti quel che si aspettavano da lei, a Dio, alla famiglia, al padre, al marito, ai figli', non ha mai tradito le aspettative di nessuno se non quelle della sua anima, del suo corpo ed ora lei è come se fosse morta dentro, appare spenta agli occhi di Kristof, chiusa ed impenetrabile, tanto che vorrebbe scuoterla, destarla, 'gli piacerebbe sfiorare la mano o la spalla della sorella, avvertirla, incitarla: «Ti prego, parla, per una volta di’ qualcosa su di te, sulla tua vita...».'
E non solo le persone a lui più vicine ma l'intera società stava cambiando, e non certo in meglio; sacri ideali come la patria e la famiglia avevano perso il proprio valore, non animavano più lo spirito dei giovani ma rimanevano per lo più nostalgici ricordi in chi come Kristof su quegli ideali aveva eretto la sua vita.
"Erano tutti «nervosi» al giorno d’oggi: e K?mives disprezzava la nevrastenia, la riteneva quasi immorale... quella scusa, quella facile giustificazione grazie alla quale si eludeva ormai con sconsideratezza e superficialità ogni complessa e seria responsabilità."
Lo sfascio della patria si riverberava anche nelle sua fondamenta, nel nucleo di una nazione, ossia la famiglia: molte coppie si disgregavano con tale naturalezza e facilità come se la loro unione fosse solo una formalità, una convenzione e non un vincolo eterno peraltro suggellato dinanzi a Dio col sacramento del matrimonio.
Per questo motivo diventava sempre più pesante il fardello che incombeva sulla sua coscienza di giudice divorzista: chi era lui per dividere con una sua sentenza quello che solo Dio poteva unire e dividere, chi era lui per profanare la volontà divina?
"Per lui il matrimonio non era un’istituzione perfetta o imperfetta, il matrimonio era la convenzione morale che conferiva una cornice divina alla convivenza di due esseri di sesso diverso, alla famiglia."
Poteva realmente ritenersi degno di tale incarico? Le sue decisioni sarebbero state sempre imparziali ed obiettive?
Un senso di inadeguatezza che si acuisce quando sulla sua scrivania compare la pratica di divorzio del dottor Imre Greiner e della signora Anna Fazekas, lui conosciuto ai tempi degli studi universitari e lei, per puro caso, mentre passeggiava sul molo con una sua amica.
E quando il dottor Greiner, inaspettamente, contro ogni buona norma di educazione e rispetto, la notte precedente al giorno fissato per la causa di divorzio, si recherà a casa del giudice per conferire urgentemente con lui, Kristof cederà alla sua insistenza e lo lascerà entrare nonostante fosse suo preciso dovere allontanarlo. Perchè cio?
C'è qualcosa nelle parole e nell'atteggiamento del dottore che insospettisce il giudice e quasi lo spaventa.
Quando i due si ritrovano uno dinanzi all'altro nello studio del giudice, in una cornice che sarà poi riproposta similmente ne Le braci, ha inizio la 'deposizione' del dottor Greiner.
Il racconto del dottore è quasi un monologo, il giudice ascolta praticamente in silenzio tranne rari interventi in cui rimarca l'illegittimità di quella conversazione a poche ore dalla causa in tribunale.
Ma quella causa in tribunale non potrà più esserci, se ci sarà una sentenza dovrà essere emessa lì, nel salone di quella casa.
E mentre la testimonianza del dottore ripercorre con dovizia di dettagli tutta la sua vita, sino agli ultimi anni di convivenza con la moglie, l'atteggiamento del giudice cambia: la sua postura non è più altèra, le sue parole non sono più rimproveri e condanne altisonanti, il suo scranno diventa traballante cosi come incerte e traballanti diventano le sue convinzioni.
Sembra quasi che i ruoli si invertano, diventa impossibile capire chi sia il giudice e chi l'imputato sin quando, sul far del giorno, anche Kristof non potrà più esimersi dalla sua confessione, non potrà evitare la risposta a quella domanda che rappresenterà per i due uomini, per le loro coscienze, l'assoluzione per uno e condanna per l'altro:
"Dimmi, Kristóf, negli ultimi otto anni tu non hai mai sognato Anna?".
Pochi scrittori, come l'autore di questo romanzo, riescono a scandagliare l'animo umano così profondamente, sin negli anfratti più reconditi, in quelle zone oscure volutamente occultate affinchè non vengano mai esplorate ed i segreti là custoditi rimangano tali in eterno, destinati a morire con chi li preserva.
Sandor Marai, invece, in questo romanzo così come nell'altro capolavoro 'Le Braci' che scriverà successivamente, crea una spaccatura, una frattura in quella barriera impenetrabile dell'animo umano, apparentemente inattaccabile perchè eretta su solide fondamenta, princìpi, regole e convenzioni di una società rigida e conservatrice come quella ungherese prima dell'avvento del regime comunista durante la seconda guerra mondiale.
L'immagine che ho percepito leggendo questo libro è proprio quella di una crepa che, pian piano, scorrendo le pagine, diventa sempre più fitta.. come quando durante un terremoto di forte intensità la terra si sgretola sino a creare enormi voragini. Voragini cosi profonde da far emergere ricordi, pensieri, sensazioni represse perchè sbagliate, sconvenienti e contrarie alla 'norma'.
E non c'è da meravigliarsi se, alla fine di tutto, nell'epicentro di questa catastrofe ci sia sempre una donna. E l'amore, quello che non può essere soffocato da nessuna regola, quello che continua a bruciare dentro pur sotto cumuli di bugie, di parole non dette, sorrisi forzati e desideri domati.
E poi basta poco per esplodere.. una piccola crepa che si trasforma in voragine.
"Non è possibile non udirlo, è un ordine più forte del fragore di un tuono, non si può essere tanto sordi da proseguire senza averne la minima percezione, restare indifferenti mentre tale comando ti rimbomba ancora nelle orecchie."
Un fragore così intenso da sovrastare ogni tentativo di ravvedersi, di tornare sulla retta via; emblematica l'immagine finale del giudice a cui sembra di udire la voce del padre scomparso mentre ne contempla il ritratto:
«Svegliati, Kristóf K?mives! Svegliati, e resta forte! Tu devi occuparti del giorno. Resta umile e fermo! Mantieni viva la tua fede e sii severo! Il mondo è materia cedevole, sii tu a plasmarlo!».
Ma Kristof china la testa e nasconde il viso tra le mani.
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Se...
C’è tanta vita in questo romanzo, c’è tanta biografia fra queste righe, c’è infine tanto disincanto. Non solo quello dell’uomo, il giudice protagonista, che pragmaticamente consegna la sua esistenza al reale, al tangibile, trascurando il sogno, ma anche quello di un autore e di un grande artista che è riuscito a calare il suo dissidio interiore, strettamente correlato al suo essere ungherese ma prima ancora austroungarico per divenire poi un esule senza patria.
Quando nel ’35 scrive questo romanzo Marai , nato piccolo nobile per concessione feudale da parte di Leopoldo II, figlio di un notaio reale, maggiore di quattro figli, è già stato giornalista gravitando per studi e per affetti a Berlino e poi per lavoro a Parigi ma patendo disagi economici legati al primo dopoguerra. Tornato nella sua terra nel 1928, a ventotto anni non ha più la patria: si stabilisce a Budapest per essere paradossalmente esule in casa: la sua Košice, alta Ungheria , era al’interno di quei territori persi col Trattato di Versailles. Scrive tra il ’28 e il ’48 e si impone nella vita letteraria ungherese, vive grandi soddisfazioni fino a quando la Storia non lo schiaffeggia di nuovo e allora propende per un volontario esilio che risolve solo la caduta del muro di Berlino quando ormai lui si è già tolto la vita.
Kristof Komives, giovane giudice è alle prese con l’ennesima pratica di divorzio, il giorno dopo ancora una volta separerà il legame indissolubile sancito da Dio, tra mille dubbi stavolta amplificati dalla conoscenza dei due coniugi: lui un ex compagno di scuola, lei una fugace meteora nell’universo emotivo del giovane Kristof.
Komives rappresenta la vecchia nobiltà magiara e benché non abbia ancora quarant’anni è rinomato per la sua rettitudine, la sua moralità ma in generale per una serietà che non gli permette di cavalcare i nuovi tempi, una società nevrotica, immatura, incapace del sacrificio della vita vista come “un dovere che dobbiamo adempiere; certo un dovere gravoso e complesso , per il quale a volte è necessario sopportare sacrifici”. È la volontà che lo anima e che può aiutarlo a reggere l’insostenibile, ma la vita è davvero insostenibile o occorre solo una necessaria probità? Svolge il suo ruolo con chiaro intento pedagogico contro una civiltà motorizzata, gaudente, immorale quasi. Lui sa quale è stato il prezzo, non è forse morto suo padre che credeva alla Patria “espressione più alta del concetto di famiglia” , l’animo lacerato per la sua disgregazione e l’intermezzo comunista?
È sposato Kristof, una moglie , due figli, vive e lavora a Budapest e una notte dal passato ritorna il suo ex compagno di studi, il povero diventato medico, il giovane che ha sposato Anna e che ora da lei si sta separando. Viene durante una lunga notte a dire che domani l’udienza non avrà luogo … va via dopo un colloquio anticipatore di quel famoso rincontrarsi che sarà rappresentato in “Le braci”, vuole solo ottenere una risposta …
Bello questo romanzo che permette di avvicinare la biografia dell’autore - è necessario a questo punto leggere “Terra!...Terra!...Ricordi” - e che è permeato di storia e ancora che è capace di avvincere il lettore avviluppandolo in interrogativi le cui risposte potrebbero insinuare il dubbio, il sentimento del se e del ma, inutile e doloroso.
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la vita non è un sogno
Talvolta vale davvero la pena di finire un libro anche quando, arrivati oltre la metà, ci stiamo ancora chiedendo dove l'autore voglia andare a parare. L'ultimo capitolo di questo romanzo è infatti una vera boccata di ossigeno, una finestra che si spalanca sul mondo alla luce del giorno e il finale riscatta pagine e pagine pervase da una sensazione di cupa claustrofobia. Per essere un'opera del 1935 (poi rivista dallo stesso autore nel 1939) "Divorzio a Buda" credo abbia ancora molto da dire al lettore contemporaneo: superato lo scoglio iniziale di numerose digressioni un po' prolisse, alcune riflessioni e molti interrogativi colpiscono ancora oggi per l'acume e la profondità. L'incomunicabilità nella coppia, la gelosia, la frustrazione della routine di ogni giorno, il senso di inadeguatezza (di ansia, anzi, di panico) che ci assale in certi periodi della vita, l'estraneità nei confronti di tutto ciò che ci circonda in una ricerca di senso in quello che stiamo facendo: queste, ma non solo, le principali tematiche trattate. Cosa conta davvero nel bilancio di un'esistenza? Un ipotetico giovanile colpo di fulmine o una concreta vita di coppia fatta, talvolta, di incomprensioni e silenzi, ma anche di figli che devono andare a scuola e di un cane che scodinzola per casa? La risposta che dà Marai con questo romanzo si incarna nelle vicende nei suoi due personaggi principali: il giudice Kristof e il medico Imre, coetanei ed amici ai tempi del liceo. Entrambi sposati ed affermati professionisti, ma anche uomini profondamente in crisi, giunti a quello stallo esistenziale in cui ci si sente soli ed incompresi e ci si interroga su cosa sia davvero importante, se esista una formula per vivere senza soffrire. Dopo una lunga notte di confronto tra i due (a chi ha letto "Le braci" non sfuggiranno molte analogie) l'autore sembra dirci che siamo noi a dover scegliere tra la luce del giorno, ovvero tenere salde le redini del nostro destino aggrappandoci ai nostri valori, alla famiglia, agli affetti più cari e al lavoro, oppure restare nel buio della notte fatta di interrogativi sterili, paralizzanti e distruttivi. La vita è fatta di concretezza, non di sogni, di ciò che abbiamo e non di ciò che avremmo potuto avere, di ciò che è, e non di ciò che avrebbe potuto essere e non è stato. Splendida l'immagine finale che ci apre alla vita e alla speranza: "Per strada si ode il fracasso del furgone del latte, poi gli uccelli attaccheranno con il loro cinguettio mattutino. Le case, nella luce piena del mattino, se ne stanno salde e imponenti al loro posto. La città, a quanto sembra, vivrà un'altra calda giornata d'autunno. La notte è finita; comincia il giorno." (p. 200)
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Sogno e/o realtà, quale destino?
Talvolta un sogno può confondersi con un' ossessione ( d' amore ) e colorarsi d' altro, acuire paura, ansia, gelosia, fino ad una sorta di delirio, rafforzando un' ipotesi e costruendo una trama che determina ed indirizza ( senza possibilità di ritorno ) la realtà circostante.
Kristof Komives è un giudice integerrimo, marito fedele, padre di famiglia, di estrazione alto-borghese, è cresciuto con la legge, crede nella volontà, nel peso delle parole e da sempre ha tenuto a freno i propri istinti.
Ormai quarantenne respira una quotidianità fossilizzata, ingrigita da una pigrizia ordinaria, un lavoro estenuante, assilli famigliari protratti e una precaria fisicità, seguendo la tradizione ed una certa autorevolezza e sobrietà.
Vive nella città vecchia di Buda, ancorata ai propri ricordi, tra castelli ed antichi palazzi, così lontana da Pest, città moderna, peccatrice, industriale, modaiola.
Un giorno, suo malgrado, sarà chiamato a deliberare in merito ad una causa di divorzio che coinvolge il medico Imre Greiner, amico di vecchia data, e la moglie Anna Fazekas, conosciuta e frequentata sporadicamente parecchi anni prima, quando era ancora in età da marito.
La sera che precede l' udienza, in una lunga ed interminabile notte, Imre irromperà nella sua abitazione riportando un passato rimosso, confessando un presente inquietante in attesa di un futuro quanto mai vago e nefasto.
La narrazione resta sospesa in qualche oscuro luogo della memoria, in un' atmosfera divisa tra sonno e veglia, ragione e sentimento, attendendo una possibile sentenza.
La perfezione apparente di una vita costruita sull' ovvietà di certezze consolidate svanisce, sostituita da supposizioni, da uno strano senso di vergogna, dalla progressiva noncuranza verso volti famigliari irriconoscibili, dalla ripetitività di gesti consumati, abbandonandosi ad una realtà parallela, a rimpianti, a sensazioni forse vissute o solo immaginate.
Quel passato che pareva annullato, dimenticato, superato, riemerge vivido con il ricordo e le certezze di chi ci accusa di una colpa non commessa, se non in una pura dimensione onirica e di latenza.
Allora tutto potrebbe essere stato solo un sogno, o un desiderio rimosso, o una semplice speranza.
Ma i sogni sono sempre e comunque l' espressione di un desiderio ?
Ogni notte è popolata da incubi e, specchiandoci negli occhi altrui, possiamo leggervi verità sconcertanti. Forse la nostra sofferenza e lo sguardo affranto su una vita siffatta presagiva questo futuro nascondendo una possibile colpa.
Eppure continua ad esserci ed a prevalere quello che siamo, o che gli altri vedono in noi, un giudice imparziale, custode della legge e della ragione, mentre la realtà si presenta viva, cruda, asettica, inclemente.
Il momento si prolunga in un thriller, l' attesa diviene certezza, la confessione espiazione, di fatto solitudine protratta.
Alla fine, sottratta ad un soffio liberatorio, la coscienza di Kristof veleggia incupita da una mente malata, dubbiosa, ma la notte svanisce nell' alba, il sonno nella veglia e il sogno nella realtà di cui occuparsi.
Forse, in cuor suo, si fa strada l' idea di una qualche colpevolezza, in una realtà altrimenti scongiurata da regole ed equilibrio perché Imre Greiner ha evidenziato la semplice necessità di amare qualcuno negando la cosiddetta " isoritmia " coniugale ( propria ma anche di Kristof ).
La felicità e l' amore stanno nell' imperfezione di un gesto, talvolta è preferibile esprimere qualcosa senza una precisa intenzione, quasi per caso, distrattamente.
Marai ci consegna un piccolo gioiello, di introspezione, suspance, psicologia, confondendo tracce e memoria, affrescando la quotidianità di un uomo inseguito dal proprio destino, tormentato dalla voce della coscienza, da un quid che sfugge a lui stesso, prolungando l' attesa in un dialogo notturno che è confessione e ricerca, sovvertendo ruoli e personaggi, reale ed immaginario, colpevoli ed innocenti.
È una scrittura precisa, introspettiva, profonda, che dosa parole e significati, in una chiarezza e semplicità sconcertanti. La fine di questo iter mentis ci lascia sfiniti, dubbiosi su un viaggio in prevalenza ipnotico ma, per certi aspetti, tremendamente reale.
Nel frattempo una sola certezza, la notte è finita e comincia il giorno, un altro giorno.
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Sempre grande Marai
Il trentottenne magistrato Kristof Komives è chiamato ad esaminare la causa di divorzio fra il giovane medico Imre Greiner e Anna Fazekas.
Il giudice ricorda di aver conosciuto entrambi anni prima: il medico è un suo coetaneo e con Anna egli ha avuto un incontro terminato con l'impressione che la donna avesse qualcosa da dirgli. Poi il magistrato, fidanzatosi prima e sposatosi poi, aveva completamente dimenticato quel lontano episodio.
In realtà la causa di divorzio non avrà luogo.
Questo romanzo, è un'anticipazione del il successivo capolavoro "Le Braci". Mi è piaciuto molto e mi ha dato ulteriori elementi per apprezzare la forza evocativa dei due grandi romanzi già letti (Le braci e La donna giusta).
Kristof, il protagonista, riflette sui costumi del suo tempo, sui valori tramandati che lui stesso osserva scrupolosamente, con convinzione, come se la vita fosse una missione, un dovere da compiere, e naturalmente nel migliore dei modi.
E', in realtà tormentato dai dubbi, e le nevrosi si somatizzano sotto forma di improvvise vertigini, che lo rendono fragile, di cui si vergogna come fosse un segno di debolezza. Kristof, nonostante tutto però non può che ammettere che la vita è più complessa e contraddittoria di quanto non la si possa incanalare nelle rassicuranti guide del diritto e del dovere.
E poi, ecco, l'irruzione nella sua vita di un ex compagno di studi, di un'amicizia più volte sul punto di nascere ma mai compiuta, e di una ragazza che una sera sembrava volesse dirgli qualcosa ma non la disse. Frammenti di vita che si cristalizzeranno, condizionando tutti loro in un triangolo amoroso dove la passione ricacciata, repressa, mai vissuta porterà ad un drammatico epilogo.
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Ragione e sentimento
Questi libro inizia con un racconto un po' meno avvincente dei soliti di Marai: la storia di un giudice, della sua vita, e del suo felice matrimonio. Sappiamo, da poche righe all'inizio della storia, che il giudice dovrà presiedere la causa di divorzio di un vecchio compagno di scuola e della moglie, Anna Fazekas, di cui sembra ricordarsi a malapena. La parte migliore della storia inizia da metà libro, da quando cioè il vecchio amico irrompe in casa del giudice,( contravvenendo già solo per questo alle normali regole), dichiarando di aver ucciso la moglie e di aver bisogno di un giudice imparziale. Da lì parte il racconto dell'uomo,uno dei soliti bellissimi e sorprendenti monologhi alla Marai, nel quale tutte le certezze del lettore e del giudice si ribaltano. Alla fine non si capirà più chi è la vittima, chi il colpevole e chi il giudice in un pirandelliano ribaltamento di prospettiva. L'inizio non è dei migliori ma la seconda parte vale tutto il libro. Davvero notevole. In un certo senso vengono riproposti alcuni, ma solo alcuni, dei temi delle braci, in particolare quello del tradimento e della ineffabilità dei sentimenti. Marai spinge il suo monologo alle soglie dell'indicibile sconcertando giudice e lettore, costringendoli a guardare alla propria vita in modo diverso. Di notte l'irrazionale potrebbe irrompere in qualunque momento e devastare quanto la ragione ha costruito con ordine alla luce del sole della fede e/o del buon senso.
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Razionalità vs. Passione
Marai scava nell'animo umano , negli interrogativi , nel conflitto interiore tra quanto ci si apetta dai personaggi e quello che è il loro desiderio , nelle questioni morali della società, con una attenzione ed una sensibilità davvero rare.
Come nel capolavoro "Le Braci" abbiamo un triangolo amoroso, in questo caso i protagonisti ne sono assolutamente inconsapevoli.
Per buona parte del romanzo Marai costruisce l'ideale della ragione, del rigore morale, delle rigide regole della vita borghese, nei panni del giudice Kristof Komives .
Ci racconta la sua scalata come fosse un'ascesa ad un trono di giudice ma anche di ultimo paladino di una certa moralità. Il giudice viene incaricato di sciogliere il vincolo matrimoniale di due persone che ha conosciuto anni prima : un vecchio compagno di studi (il dotor Greiner) ed una donna bellissima incontrata casualmente (Anna Fazekas).
Ma Kristof non dovrà mai emettere quella sentenza perchè una sera rientrando a casa trova ad attenderlo il dottor Greiner, il quale, durante un monologo serrato e travolgente gli farà una confessione sconvolgente e una domanda, la cui risposta costringerà il rigido giudice a guardare dentro di sè forse per la prima volta dopo molto tempo.
Se ne "Le Braci" i temi erano il tradimento e l'amicizia qui abbiamo la critica alla falsità della società borghese, la passione a confronto con la razionalità, i sentimenti nascosti perchè non consoni a quanto ci si aspetta da noi , la passione come un vento impetuoso che puoi ignorare per lungo tempo ma che alla fine esplode perchè non la puoi semplicemente chiudere a chiave. Meno "immediato" de "Le Braci" ma ugualmente bello.