Disturbo della quiete pubblica
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Io bevo, tu bevi, egli beve
La vita borghese gli garantisce un buon equilibrio economico, ma lontano dalla detonazione di un sogno nel cassetto.
La moglie devota e paziente gli assicura la quiete familiare, ma distante dal piroettare pelvico attorno a un’amante giovane, ricca e frizzante.
John Wilder, eccellente venditore di spazi pubblicitari, marito di una donna non troppo attraente, padre di un ragazzo introverso, figlio rancoroso di genitori la cui tenacia garantì il successo, bevitore incallito e traditore cronico gioca la sua carta. Lasciata famiglia e lavoro insegue la carriera cinematografica, sprofondando sempre di più in una voragine di pazzia, scosso barbaramente da una insana commistione di alcolici e psicofarmaci.
La malattia mentale si fa sempre più evidente, un filo in tensione che ci si aspetta vedere strappato ad ogni accenno di scossa, chi si può salvare si salvi, chi non vuole essere salvato che almeno non disturbi la quiete pubblica.
Se la scrittura di Yates si rivela ad ogni nuovo libro una vera e propria esperienza umana, complice la concretezza della sua penna -che assorbe il lettore dimentico di essere a tu per tu con un libro-, l’empatia può essere più o meno incisiva. Infatti, i personaggi che ruotano intorno al romanzo non sono stati a me molto affini e non mi hanno particolarmente emozionata, sebbene sia scivolato in maniera piacevole e veloce.
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COME IN UN QUADRO DI HOPPER
John Wilder, il protagonista de “Disturbo della quiete pubblica” di Richard Yates ( 1926-1992), uscito nel 1975, te lo immagini, come in un quadro di Edward Hopper ( 1882-1967), seduto al tavolino di un bar alla periferia di una metropoli americana, il bicchiere in mano, lo sguardo perso nel vuoto: forse pensa al passato, ai genitori milionari, alla sua giovane amante, alla moglie, al lavoro, ai suoi sogni di diventare produttore cinematografico, al troppo alcool, alla paura di tornare delirante nel reparto psichiatrico di un ospedale dove è già stato ricoverato e dove probabilmente finirà i suoi giorni. Egli si sente come uno dei tanti sconfitti che vede quando per tornare a casa percorre chilometri in metropolitana. John non ha bisogno di cercare un perché al proprio malessere: esattamente come nel quadro di Hopper la sua malattia è in ciò che vede attorno in un mondo desolato illuminato solo dalla luce artificiale. Ma riesce difficile leggendo il romanzo di Yates, già autore del più noto “Revolutionary Road” e annoverato fra i “padri del realismo sporco” comprendere se sia l’indole o il destino a fare precipitare John da un quieto benessere borghese nel precipizio dell’alcool e della follia. Sorte e personalità si intrecciano del resto in un’esistenza segnata da una fragilità interiore, incapace di trovare “«ordine nel caos»”: in realtà l’animo ferito consente a John di mettere a nudo il vuoto e la menzogna degli universi che attraversa, compresa la Los Angeles del cinema, e delle persone con cui stringe rapporti intimi come la ricca e capricciosa amante Pamela e i suoi amici intellettuali.. Significativa è la sua lettura tutta epidermica del mito kennediano: se Kennedy incarna il fascino e la bellezza dei vincenti, lui sta con il suo assassino e con le forse oscure che parlano attraverso di lui.
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La distruzione dell'uomo borghese
John, borghese di successo, fa un lavoro che non ama ma che gli garantisce ottimo stipendio e stima dei colleghi, ha una moglie bruttina con cui ha un rapporto abbastanza stabile e formale, un figlio, degli amici noiosi. Tutto sommato conduce una vita moderatamente insopportabile e di certo non all'altezza dei suoi sogni di gloria. Il suo desiderio è da sempre quello di sfondare come produttore nel mondo del cinema, essere alto e avere una ragazza stupenda. Come conseguenza delle sue nevrosi e frustrazioni ha un episodio psicotico da cui si riprende molto presto ma che gli causa un ricovero coatto in una clinica dove viene a contatto con il terribile mondo della malattia mentale. Da lì, l'idea di fare un film di questa sua esperienza grazie anche alla relazione che intreccia con una volubile e ricca ragazza che ha tutto quello che manca a sua moglie: spontaneità, bellezza, impulsività, senso artistico. In realtà il cocktail Pamela-cinema sarà troppo per lui, e l'arido, spietato cinismo del mondo cinematografico avrà la meglio sulla sua precaria salute mentale mandando in frantumi il suo fragile equilibrio, con un piano cinicamente premeditato e abilmente sceneggiato.
Tutto sommato John è molto solo, non incontra nessuno che gli piace veramente dal punto di vista umano. E forse il dramma della condizione di borghese è questa fragilità nei rapporti con le persone, tra formali e superficiali, tra ingessati e vuoti in cui una vera comunicazione è quasi sempre assente.
Il problema di John sarà quello di avvicinarsi troppo ai suoi sogni, così tanto da vedere che sognare non è lo stesso di arrivare. Il sogno realizzato ha tutte le imperfezioni e le crudezze della realtà.
Il libro è piacevolissimo, ha uno stile brillante, molto ironico e caustico ma un retrogusto amaro. Bellissimo!