Conversazione nella Catedral
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IN CHE MOMENTO SI ERA FOTTUTO IL PERU'?
“Non era forse un grande casino questo paese, signorino, non era un rompicapo madornale il Perù?”
“La città e i cani”, “La Casa Verde”, “Conversazione nella ‘Catedral’”: a soli trentatré anni, con i suoi primi tre formidabili romanzi, Mario Vargas Llosa è riuscito a rivoluzionare la storia della letteratura mondiale, innestando nella narrativa latino-americana una spregiudicatezza stilistica capace di andare al di là degli esperimenti avanguardistici della Lispector, di Lezama Lima e di Cortazar, e una consapevolezza formale memore del modernismo di Faulkner. Delle tre opere citate, “Conversazione nella ‘Catedral’” risulta, se non esteticamente la migliore, sicuramente quella più emblematica e significativa da un punto di vista esegetico, il romanzo in cui davvero forma e contenuto, stile e racconto diventano un unicum inseparabile e indistinguibile. E' forse per questo che “Conversazione nella ‘Catedral’” non soffre mai del cerebralismo tipico di altri lavori coevi, in quanto le tecniche utilizzate (ad esempio lo “stream of consciousness”) non prevaricano mai sulla trama, che rimane sempre densa di avvenimenti, di epifanie e di colpi di scena, e l’intellettualismo non arriva mai a soffocare le emozioni che la attraversano. Sarebbe scorretto far credere che “Conversazione nella ‘Catedral’” non sia un romanzo ostico: chi conosce un po’ Vargas Llosa (almeno non quello dei romanzi più facili, come “La zia Julia e lo scribacchino” e “Le avventure della ragazza cattiva”) sa che dietro al velo apparentemente prosaico e innocuo del presente si nasconde sempre, dissimulato e misterioso, un passato doloroso e inquietante. Questo passato non si concede facilmente al lettore, il quale se lo deve conquistare con fatica, pezzo dopo pezzo, facendosi largo tra dissimulazioni e occultamenti, e anche così facendo rimane sempre un piccolo iato, un non detto, un non spiegato. Proprio in questo scarto risiede però a mio avviso l’ipnotico e tenebroso fascino della prosa dello scrittore peruviano, perennemente in bilico tra limpidezza sintattica e ambiguità diegetica.
Il casuale e apparentemente insignificante incontro tra il protagonista Santiago Zavala e lo zambo Ambrosio fa scattare un elaborato meccanismo in grado di far riemergere “le immagini abiette della memoria”, un torbido passato che – si scoprirà – ha condizionato irrimediabilmente l’avvenire del primo così come, con una audace ma legittima operazione sineddotica, dell’intero Perù (nel folgorante incipit Santiago pensa: “Lui era come il Perù, a un certo punto si era fottuto… Il Perù fottuto, pensa, Carlitos fottuto, tutti fottuti”). Storie individuali e Storia collettiva, privato (o addirittura autobiografia, dal momento che il personaggio di Santiago è modellato sulle esperienze giovanili dello scrittore) e pubblico, passato e presente si intrecciano, si mescolano, si confondono, con un procedimento espressivo estremamente originale e innovativo. Le conversazioni (ebbene sì, a dispetto del titolo non c’è una sola conversazione) sono strutturate in un modo che un critico sudamericano ha brillantemente definito “dialoghi telescopici”: in pratica Vargas Llosa fa confluire in un unico, ininterrotto colloquio due o tre dialoghi, che avvengono tra persone diverse o in tempi differenti, in uno spericolato montaggio alternato simil-cinematografico che ingenera nel lettore un effetto di comprensione ritardata su come sono andate veramente le cose. Si prenda, per limitarsi a un solo esempio (forse neanche il più eclatante) estrapolato dai capitoli iniziali, alla scena in cui Santiago e Popeye organizzano uno scherzo ai danni della domestica di famiglia Amalia per farle bere la “iohimbina” a sua insaputa e divertirsi alle sue spalle, mentre contemporaneamente (ma in realtà diverse settimane dopo) gli stessi personaggi si recano all’abitazione di Amalia, che nel frattempo è stata cacciata dal lavoro, per regalarle dei soldi, dal momento che Santiago si sente responsabile del suo licenziamento. I due dialoghi si alternano in continuazione, senza preavvisi di sorta, in una maniera che all’inizio spiazza e disorienta il lettore, ma alla fine, grazie all’effetto di comprensione posticipata che genera, riesce a rendere molto più avvincente e misteriosa la narrazione, che con una successione cronologica tradizionale perderebbe quasi tutto il suo pathos. La composizione procede pertanto con incessanti sfasamenti temporali e, per così dire, a cerchi concentrici: la conversazione del presente ingloba, senza soluzione di continuità, altre conversazioni avvenute nel passato, e se a ciò si aggiunge il fatto che il flusso di coscienza si intreccia, nella stessa frase, alla descrizione della realtà esterna (ad esempio, “Un torrente di camion, di autobus e di automobili attraversa il Puente del Ejército, che faccia avrebbe fatto se? nella nebbiolina l'ammasso terroso di casupole di Fray Martín de Porres, se la sarebbe data a gambe?, si intravede come in sogno”), oppure che, sempre nello stesso periodo, si passa repentinamente dalla prima alla terza persona (“Non poteva essere e fumavi, Zavalita, doveva trattarsi di una calunnia e bevevi un sorso e ti soffocavi, e gli mancava la voce e ripeteva sempre non poteva essere”), o ancora che gli interlocutori non vengono mai espressamente citati e ad essi si risale solamente grazie all’intuizione del lettore o al frequente intercalare di termini come “don” o “signorino”, si riesce a capire come “Conversazione nella ‘Catedral’” possa essere considerata un’opera audace e sfrenatamente originale, pur mantenendo una comprensibilità di fondo che non la trasforma mai in un’impresa riservata ai soli iniziati. Al contrario, Vargas Llosa costruisce personaggi potenti (su tutti, il viscido e amorale don Cayo, di cui si dice “il vizio è l’unica cosa che rispetti nelle persone”) ed episodi memorabili (l’assalto di un gruppo di scagnozzi del regime al teatro di Arequipa per mandare all’aria un comizio dell’opposizione), e inserisce addirittura una trama vagamente thriller, con tanto di omicidio violento il cui colpevole rimane impunito fino alla fine del libro; inoltre, grazie ad essa veniamo a familiarizzare con un pezzo di storia del Perù (la dittatura di Odria, uno dei tanti caudilli sudamericani, che ha governato il paese dal 1948 al 1956) che a noi europei è quasi del tutto sconosciuta. L’incontestabile riuscita del romanzo, uno dei capolavori della letteratura – non solo ispano-americana – del Novecento, che mi piace pensare (anche se è una mia personalissima opinione) possa avere influenzato persino alcuni esponenti del postmodernismo statunitense (il secondo capitolo della terza parte, fatto solo di dialoghi ininterrotti, legati insieme da una profusione di ellissi, mi ha ricordato moltissimo il Gaddis di “JR”), deve avere del resto colpito profondamente lo stesso scrittore di Arequipa, il quale da allora è tornato spesso (“La guerra della fine del mondo”, “La festa del caprone”, “Tempi duri”) a questa forma di romanzo storico sui generis, originale commistione di vicende individuali e storia collettiva, che nel corso degli anni ha saputo, meglio di qualsiasi analisi politica o sociologica, trasformarsi in un prezioso e insostituibile affresco del continente centro e sud-americano, atavicamente dominato da soprusi, corruzione, ruberie e violenza, e costretto per ciò stesso a una frustrante paralisi sociale e a un inarrestabile degrado morale.
Indicazioni utili
"Luce d'agosto" di William Faulkner