Chiamo i miei fratelli
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Recensione della Redazione QLibri
Pregiudizi
Leggendo il nome dell’autore di questo racconto, Jonas Hassen Khemiri, non avrei mai detto che si trattasse di un autore svedese, sebbene i due nomi possano suggerirlo. Sebbene la mia sia stata un’associazione inconscia, il fatto che mi sia focalizzato sul cognome arabo rimanda al pregiudizio che l’autore stesso prova a denunciare in questa sua storia piuttosto particolare.
Come dicevo, l’autore di questo racconto è svedese, e costruisce questo racconto partendo dai pregiudizi razziali che sembrano dilagare nella nazione scandinava. Il protagonista è Amor, evidentemente di origine araba, che sperimenta una sorta di frammentazione dell’Io dovuta agli sguardi indagatori che lo circondano, resi ancor più attenti a causa dell’esplosione di un’autobomba. Amor è un individuo fragile, coi suoi problemi, e questa situazione di stress lo porta a un punto di rottura e a dubitare di sé stesso, delle sue azioni, della sua sanità mentale; tutte le sue certezze vacillano e quasi arriva a identificarsi coi suoi oppressori, a dubitare della sua innocenza, a giudicare se stesso.
Il racconto è strutturato in maniera particolare, con un mix tra dialoghi telefonici e narrazione in prima persona, creando una sorta di flusso di coscienza nel quale fanno capolino anche i pensieri delle persone con cui Amor sta dialogando. Il risultato è curioso, a volte piuttosto confusionario, ma originale: non direi che si tratta di un tipo di narrazione che incontra i miei gusti, ma certo non si può dire che sia insensata o non possa piacere a un altro tipo di lettore.
Quello che emerge, dunque, è la sensazione di continua oppressione e pregiudizio che (a quanto pare) dilaga nella nazione svedese nei confronti dei suoi abitanti di pelle scura, sempre guardati con sospetto e soggetti a pregiudizi che, a causa dell’accanimento delle forze dell’ordine, a un occhio superficiale potrebbero essere addirittura confermati: se infatti, in un auto della polizia, vediamo continuamente persone che corrispondono a certi connotati fisici, è umano sviluppare una certa idea; ma una persona riflessiva e assennata dovrebbe essere in grado di capire che, in un determinato contesto, quella tal persona può essere stata messa lì senza motivo e che dunque quel che vediamo non prova un bel niente, anzi prova soltanto la società malata che ci circonda. Questo aspetto emerge, più che dal racconto, dalla lettera che lo stesso Khemiri ha inviato al ministro della giustizia Beatrice Ask, inserita in quest’edizione Einaudi subito dopo il racconto e che, personalmente, ho trovato più interessante del racconto stesso e contribuisce a rafforzarne i contenuti.
In conclusione, si tratta di un racconto interessante che chiarisce dinamiche di una nazione che conoscevo poco e che, erroneamente, non credevo fosse scenario di tali discriminazioni. Com’è che si dice? Tutto il mondo è paese? Magari un pizzico di verità c’è, in questo luogo comune.