Cavalli selvaggi
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Crepuscolare
Cavalli Selvaggi fa parte della "Trilogia della Frontiera" insieme ad altri due libri.
La vicenda è ambientata al confine tra Stati Uniti e Messico, con libero uso della lingua spagnola, non tradotta per rendere più avvincente e aderente alla realtà il romanzo.
Per chi parla decentemente l'idioma iberico è anche piacevole imbattersi in questi termini stranieri, per chi non conosce tale lingua può risultare antipatico.
Mc Charty è un autore che adora narrare le vicende di reietti e dimenticati, che si aggirano in lande desolate o comunque in terre dure e spietate.
In questo romanzo, che a mio avviso è minore, rispetto ai suo capolavori come Non è un paese per vecchi, l'azione è incentrata su due ragazzi vagabondi, che cercano in ogni maniera di sopravvivere alla spietatezza della povertà e dell'animo umano.
Il crepuscolo è l'immagine ricorrente che avvolge l'azione avvolge il pensiero dei protagonisti, la loro azione il loro incedere tra lande desolate e paesaggi spettrali.
Nessuno vuole nessuno, ognuno e nemico del suo prossimo. La dove si erge uno spiraglio di salvezza nel impossibile amore fra due giovani, arriva subito la scure del dolore a separarli.
La vita non vale nulla, la si baratta per un cassa di birra, i cavalli sono piegati al volere dell'uomo sono sfiniti nel percorrere terre immense e senza confine.
L'autore conosce bene fino a che punto si annidi la tenebra nel cuore di chi sopravvive alla violenza e alla corruzione dei costumi.
E' un libro che per come si sviluppa sin dall'inizio fa intuire che il cammino dei protagonisti sarà segnato dalle privazioni, dal freddo, dalle albe implacabile, dalla natura insensibile alle disperazioni umane.
Un pellegrinaggio lungo un confine invisibile che segna il passaggio dalla spensieratezza giovanile al dramma dell'età adulta. Non adatto ai malinconici e ai sognatori.
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John Grady, la tua storia è diversa
Siamo nel sud del Texas, John Grady ha sedici anni ed è ad un bivio:
“Figliolo, non tutti sono convinti che vivere in un ranch del profondo Texas e allevare bestiame sia la cosa più sublime dopo il paradiso”.
Ma John Grady non la pensa così e insieme all'amico Rawlins lascia la casa di famiglia e in sella ai loro cavalli partono per il Messico.
Due ragazzi e un'avventura davanti, ma spesso il destino ci mette lo zampino:
“Per tutta la vita ho avuto la sensazione che i guai fossero proprio dietro la porta. Non che io stessi per finirci dentro”.
“Cavalli selvaggi” per me è stato il libro che non mi aspettavo, McCarthy mi ha incantato con i suoi paesaggi, i suoi protagonisti e ha reso così bene l'atmosfera da farmi sentire anche a me in Messico. Spesso dovevo ricordarmi che John Grady ha solo sedici anni, la sua maturità e le sue doti spesso me lo facevano dimenticare, ma la cosa di cui sono sempre rimasta certa è che anch'io, come Rawlins, avrei voluto un amico così.
Non conoscevo l'autore, durante la lettura ho trovato qualche difficoltà a seguire il messicano (nel testo non è tradotto), a volte ho usato l'intuizione, altre l'immaginazione; altra cosa non semplice sono i dialoghi, il discorso diretto non è segnalato (così nell'edizione “La biblioteca di Repubblica”) e spesso un pensiero in realtà è un dialogo. Tralasciando questi dettagli, il libro mi ha conquistato, situazioni e luoghi così diversi da me, mi sono arrivati ugualmente. Non sono un amante dei cavalli (anzi ne ho paura), ma ai miei occhi l'autore ha riabilitato questo stupendo animale e come Grady anch'io me lo immaginavo allo stato brado.
“Quella sera John Grady sdraiato nella branda udì una musica lontana provenire dalla casa, e scivolando nel sonno vide solo cavalli, aperta campagna e ancora cavalli. Cavalli bradi della mesa che non avevano mai visto un uomo a piedi, che non sapevano nulla di lui e della sua vita e che tuttavia l'avrebbero portato impresso per sempre nell'anima”.
Vi lascio con quest'ultima frase e posso dire che non è un libro adatto a tutti, ma per ci apprezzasse il genere direi imperdibile.
“Pensò che la bellezza del mondo nascondeva un segreto, che il cuore del mondo batteva a un prezzo terribile, che la sofferenza e la bellezza del mondo crescevano di pari passo, ma in direzioni opposte, e che forse quella forbice vertiginosa esigeva il sangue di molta gente per la grazia di un semplice fiore”.
Buona lettura!
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Romanzo avventuroso
Cormac McCarthy è uno scrittore che da tempo desideravo conoscere. E con la lettura di "Cavalli selvaggi" ho iniziato col piede sbagliato questa conoscenza. Dopo un incipit che mi ha subito conquistata e che reputo tra i più belli mai letti, è subentrata una continua mancanza di armonia che non di rado mi ha spinto ad andare in rete e cercare la trama per poter fare un po' di chiarezza perché molte cose passano tra le righe e altre ancora velocemente accennate e nemmeno con i dialoghi va meglio in quanto molto scarni e freddi e i personaggi risultano molto impenetrabili a mio avviso. Se per alcuni questo può essere simbolo di uno stile originale e ammirevole, personalmente mi ha rallentato la lettura e me l'ha resa monotona e noiosa perché vissuta quasi come un resoconto veloce dell'azione. Per contro, tale velocità è bilanciata ogni tanto da squarci descrittivi di considerevole bellezza e vivacità, come se fosse una fotografia ciò che si ha davanti e non la descrizione a parole di un paesaggio o situazione. Il libro dalle tinte western, parla di due ragazzi adolescenti che vanno via dalla loro terra e dalle loro case in cerca di fortuna, un romanzo di formazione in cui i protagonisti faranno fronte a varie sfide e la maggior parte di esse superano la loro età, sembrano quasi due Don Chisciotte di Cervantes, con la differenza però che l'autore sarà il loro angelo custode, anche perché ne avranno bisogno, poverini. Un'altra aspettativa delusa è quella relativa ai cavalli: mi aspettavo una descrizione più ampia dei cavalli e del rapporto che li lega ai loro cavalieri, aspettativa accentuata ancor di più dalla scena amletiana delle prime pagine, e invece no...qualche accenno qua e là ma non ciò che bramavo.
Riassumendo, riconosco in Cormac McCarthy una penna importante e sicuramente con uno stile proprio e originale, che però in questo libro a me non ha entusiasmato per le motivazioni sopra esposte. Lo vedo invece adatto per una lettura adolescenziale maschile. Tuttavia, le belle descrizioni ma anche alcuni passaggi profondi seppur descritti con semplicità, mi hanno convinto ad approfondire la sua opera e prossima volta mi butterò direttamente sul suo capolavoro "La strada".
Concludo con un meraviglioso estratto:
"Sulla superficie ricurva della terra buia e senza luce che sosteneva le sue figure e le innalzava contro il cielo stellato, i due giovani sembravano cavalcare non sotto ma in mezzo alle stelle, temerari e circospetti al contempo come ladri appena entrati in quel buio elettrico, come ladruncoli in un frutteto lucente, scarsamente protetti contro i freddo e i diecimila mondi da scegliere che avevano davanti a sé."
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L'incanto dell'amarezza
"Cavalli Selvaggi" entra di diritto tra i libri che mi sono rimasti nel cuore. Dopotutto, viene dalla penna del mio autore preferito. Eppure, questo non è stato sempre garanzia di apprezzamento, perché ci sono stati libri di Cormac McCarthy che non ho apprezzato moltissimo, come "Meridiano di Sangue". Ad essere sincero, ho temuto che "Cavalli Selvaggi" fosse spaventosamente simile all'opera sopracitata. Le prime pagine, infatti, contengono una serie di descrizioni del paesaggio che i cavalieri si trovano ad attraversare, così come in Blood Meridian. Anche se le descrizioni di Cormac McCarthy sono meravigliose, evocative e a volte quasi poetiche, all'inizio tutto sembra statico a parte i due protagonisti. Vi dirò, per più di un quarto del libro si è fatto spazio nella mia mente il pensiero che, forse, l'autore avesse toccato il suo apice con "Suttree" , "La strada" e "Il buio fuori"; che in quelle opere avesse messo tutto quanto di meglio aveva da dire. Mi sbagliavo clamorosamente. A un certo punto la storia prende il suo via, e non ci lascerà un attimo di tregua.
Avendo perso ogni legame con la propria terra e quasi tutti quelli che lo legavano alla propria famiglia, John Grady Cole parte insieme al suo amico Rawlins, diretto oltre il confine che separa l'America dal Messico. Lungo la strada incontrano un ragazzetto, Blevins, armato e in sella a un bellissimo cavallo. Un gran bel tipo, quel Blevins, un mascalzone che li getterà nei guai, ma per il quale non si può che provare una fortissima tenerezza. Forse, insieme al protagonista, è il personaggio più riuscito. Il rapporto che si crea tra i tre cavalieri è anomalo, una sorta di amore-odio che li renderà un trio unico, mai visto prima. Il legame che si crea tra il lettore e i tre protagonisti è fortissimo, come quello che lega il protagonista ai cavalli; ci entreranno nella mente, nel cuore, e verremo travolti da ogni evento insieme a loro. Eventi che li cambieranno per sempre e di quali ci sentiremo quasi partecipi in prima persona, tanto sarà forte il legame che McCarthy è stato in grado di creare tra il lettore e i suoi personaggi.
Rideremo, piangeremo, staremo in ansia. In questo romanzo, merce rara per l'opera di McCarthy, farà la sua comparsa anche l'amore romantico. Ma non fatevi illusioni: Cormac non è un tipo da fiori d'arancio, nè tantomeno è un uomo che ha un buon rapporto col lieto fine. E' un realista ai limiti del pessimismo. Ed è un gran bastardo, ci aggiungerei, ma almeno io non posso fare a meno di amarlo. Come si può non rimanere affascinati dalla sua visione del mondo, delle cose, anche se in certi tratti non la si condivide appieno? La scrittura di McCarthy è amara, tanto, tanto amara, ma contiene sprazzi di verità che appartengono soltanto ai grandi pensatori, a uomini che con le proprie riflessioni e la propria profondità d'animo hanno avuto il coraggio di scavare negli angoli melmosi dell'anima umana. Questa storia mi ha sconvolto il cuore, mi ha suscitato un turbine di emozioni che soltanto i grandi libri riescono a scuotere.
Io non so come sia possibile che quest'uomo non abbia ancora vinto il Nobel. Non lo so davvero.
"[...] si sentì solo come non gli era più capitato da quando era bambino, totalmente estraneo al mondo che pure continuava ad amare. Pensò che la bellezza del mondo nascondeva un segreto, che il cuore del mondo batteva a un prezzo terribile, che la sofferenza e la bellezza del mondo crescevano di pari passo, ma in direzioni opposte, e che forse quella forbice vertiginosa esigeva il sangue di molta gente per la grazia di un semplice fiore."
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Anime selvagge
Texas, 1949. L’ultimo colloquio di un padre e di un figlio ha luogo all’interno di un bar. Il giovane John Grady Cole, sedici anni, resosi conto che ormai per la sua famiglia non vi sono alternative, che ormai il punto di non ritorno è stato raggiunto, decide di andarsene e, trascorse le sue ultime ventiquattro ore in quelle terre che lo hanno visto crescere, sella il proprio cavallo, allestisce il suo piccolo bagaglio e lentamente si avvia verso la frontiera del Messico. Al suo fianco, Lacey Rawlins, cugino diciassettenne, che ha a sua volta desiderio di lasciarsi il passato alle spalle. A completare il quadro l’ancora più giovane Blevins, tredicenne proprietario di uno splendido Baio e di una Colt che tiene stretta in grembo quasi ne andasse della sua vita. Tra mille peripezie e incontri, i due riescono a varcare il confine sino a trovare un’occasione di lavoro in una “hacienda” dove Cole potrà dimostrare e far valere tutte le sue competenze nell’addomesticare i cavalli selvatici.
Attraverso un linguaggio asciutto, diretto, conciso, caratterizzato da pochi ma essenziali dialoghi, McCarthy dà vita ad un romanzo forte nelle sue ambientazioni, forte nella sua dimensione emozionale. Lo stile narrativo adottato, infatti, ricalca perfettamente quelli che sono i luoghi descritti ma anche le vicende che si susseguono.
La storia è fatta di spazi, di intermezzi, ma anche di violenza. Una violenza che questa volta non è paranoica e glaciale come quella che è riscontrabile in altri personaggi e/o opere, bensì, fisica e aggressiva poiché radicata nelle viscere dell’uomo. Il tutto in un connubio di sangue, lotte, coltelli, amicizia e amore.
E cos’è, alla fine, “Cavalli selvaggi” se non un vero e proprio inno a domare prima di tutto i propri istinti? Non posso ritenerlo il miglior McCarthy, ma certamente è un’opera caratterizzata da tutti quelli che sono i tratti salienti dell’autore. Un romanzo rapido, nonostante i “silenzi”.
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Il codardo abbandona sempre sè stesso
John Grady Cole, il cugino Rawlins e per un po' il piccolo e disperato Blevins viaggiano dal Texas al Messico. Metà del secolo scorso.
A cavallo.
Da soli.
Hanno dai 13 ai 17 anni.
In compagnia dei cavalli, numi tutelari del libro e del non-focolare dei ragazzi.
Succederanno loro molto cose che McCarthy descriverà con prova asciutta e pulita a tratti puntigliosa (unica sbavatura nel pre-finale la preparazione del viaggio con il capitano messicano, ma potrebbe essere colpa della traduzione).
Da buon western, pochi dialoghi, ma in assoluto fra le parti migliori, e grandi "vecchi" in particolare la Zia e il giudice finale. Non è facile descrivere la malia di questo libro, quindi lascerò la parola all'autore per qualche assaggio.
Il primo è una descrizione, si trova a pagina 82 (ed. ET Einaudi, 1996), asciutta e visiva come poche:
"Blevins, in mutande, sul grande baio e inseguito dappresso da una muta di cani ringhiosi, esplose in strada attraverso una pioggia di schegge sfondando un recinto di ocotillo."
Il secondo è un pezzo del monologo della Zia (pag 235), che ha il merito di dare la (mia) definizione esatta di coraggio:
"Molto prima dell'alba compresi che stavo cercando di mettere a fuoco una cosa che sapevo da sempre, ossia che il coraggio è una forma di costanza e che per prima cosa il codardo abbandona sempre sé stesso."
Il terzo è un frammento del passo d'addio di John Grady Cole e Rawlins (pag 297)
- Penso che me ne andrò via
- Questo è ancora un buon posto per viverci
- Sì, lo so. Ma non è il mio.
Epico.
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Un'iniziazione in piena prateria
L'epica del viaggio e della ricerca di sé.
Texas, 1949. L'interno di un bar. Dall'ultimo colloquio con il padre, il giovane John Grady Cole capisce che il livello di sfascio cui è giunta la sua famiglia è irrimediabile.
Non lascia passare un giorno: sella il proprio cavallo, prende quel che gli serve e si avvia lentamente verso la frontiera con il Messico. Lo accompagna Lacey Rawlins, suo cugino, che ha altrettanta voglia di lasciarsi tutto alle spalle, senza rimpianti.
Giorno dopo giorno, tirando dritto in direzione dell'orizzonte, i due varcano il confine e proseguono. Fino a trovare un'occasione di lavoro in una “hacienda”, dove John può far valere tutte la sua perizia nell'addomesticare cavalli selvatici.
Cormac McCarthy conosce bene i posti che racconta (vive a El Paso, dove si è messo volontariamente al riparo dagli “inconvenienti” del successo). Il suo stile asciutto si adatta a meraviglia al paesaggio ispirato e senza confini del libro. Dove campeggiano dialoghi scheletrici, dai quali però il lettore ricava tutto quel che serve, e persino qualche sorpresa.
Una storia fatta di spazi, di polvere alzata dal vento, di uomini che sanno qual è il proprio posto.
Tra essi procedono al passo due ragazzi, John di 16 anni e Lacey di 17, che invece il loro posto lo stanno cercando. E ben presto si unisce a loro Blevins, ancora più giovane, ma proprietario di uno splendido baio e di una Colt che, con orgoglio, tiene nel cinturone.
Tutto ciò prima del racconto della violenza, che in McCarthy è frequente perché appartiene all'uomo: stavolta non si tratta della violenza glaciale e paranoica di Anton Chigurh (l'antagonista di “Non è un paese per vecchi”, recente bestseller dello scrittore statunitense), ma di quella che scorre nelle vene dell'uomo e del west, nei paesini ventosi del Messico come nella fetida prigione di Saltillo.
Il sangue e i coltelli, ma anche l'amicizia e l'innamoramento. “Cavalli selvaggi” è un inno alla capacità di domare i cavalli, gli uomini e, alla fin fine, i propri istinti. Non sarà il miglior McCarthy ma di certo, in questo suo primo romanzo, ci sono già i temi ed i tratti che ne contraddistinguono la scrittura.
Solo una volta egli devia dalla predilezione per i sottintesi e le poche parole: nel colloquio di John con la zia di Alexandra, che presto diventa un monologo della vecchia signora. Dopo aver salvato il ragazzo da morte certa, ella gli spiega perché non potrà tornare alla “hacienda”: questo le costerà il dover raccontare la propria storia e fin dove saprebbe spingersi – a danno di John – per il bene della sua prediletta nipote. Probabilmente, il momento più significativo del libro.
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Il profumo delle radici
Grandissimo romanzo dell'altrettando grande Cormac McCarthy.
Cavalli selvaggi non è solo una storia western, classico set di cowboy e ranch da mandare avanti; Cavalli selvaggi è anche e soprattutto la storia di un sedicenne che rifiuta il proggresso. Se per progresso si intendono la città, le macchine e il superamento della vita en plen air, be', John Grady Cole il progresso non lo vuole. La storia è ambientata nel Texas di metà Novecento, il cosiddetto secolo breve, dove però l'impennata tecnologica è stata senza eguali rispetto al passato. Eppure, nonostante siano da sempre i giovani i più inclini al progresso, il fantastico protagonista di questo libro la pensa diversamente. Questo ossimoro, che a tratti fa anche sorridere, porta John Grady a mollare tutto per andare in Messico a cavallo, alla ricerca di un lavoro in qualche ranch. Lui e il suo fidato amico di sempre si troveranno coinvolti in vicende più grandi di loro, ed è proprio grazie a queste dissavventure, a tratti drammatiche, che capiamo il valore dell'amicizia nata dalla semplicità.
A mio avviso, la cosa più sorprendente di tutto il libro è la costante sensazione di terra tra le mani e nei capelli che McCarthy riesce a comunicare. E' come se il lettore fosse lì con i personaggi, e talvolta gli discpiace anche non esserci per davvero.
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Western dolce-amaro
Il mito della frontiera americana, gli spazi sconfinati del Messico, la passione per la natura e per gli animali, il bisogno di cercare se stessi e di trovare un posto in cui vivere che si possa sentire come proprio. Tutto questo Cormac McCarthy ce lo racconta attraverso le vicende del sedicenne John Grady Cole che, fatta terra bruciata attorno a sé, parte a cavallo del suo Rebdo verso il Messico accompagnato dal cugino e fraterno amico Lacey Rawlins. Una sorta di anacronistico rifiuto nei confronti di un progresso che imperversa inesorabile negli Stati Uniti del dopoguerra, che porta i due ragazzi a sconfinare in una terra legata ancora alle vecchie tradizioni e a cercarsi un lavoro che li tenga a contatto con la natura e con il bestiame. Per loro comincia così una vita randagia fatta di cavalcate, cene attorno al fuoco, notti sotto le stelle, mandrie selvagge e ululati di coyotes. Giunti nello stato di Coahulia vengono assunti alla Purìsima, un ranch in cui oltre al lavoro troveranno la tranquillità, l’amicizia e perfino l’amore. Ma come spesso accade nella vita i bei momenti durano poco e le speranze e le illusioni si trovano a cozzare con la dura realtà di un mondo cattivo e cinico. Così per i nostri eroi i guai non tarderanno ad arrivare, costringendoli brutalmente a rivedere i progetti e tornare sui propri passi. Un western dai due volti quindi, dolce nella prima parte dove nascono, si alimentano e si concretizzano i sogni dei protagonisti, amaro nella seconda dove domina una concezione negativa della condizione umana legata all’impossibilità secondo McCarthy di combattere contro il proprio destino. Lo stile narrativo è semplice e asciutto e sale un po’ di livello durante le affascinanti descrizioni dei paesaggi e dei luoghi, mentre lascia un po’ a desiderare l’analisi introspettiva dei personaggi, affidata quasi esclusivamente a dialoghi frequenti ma molto scarni. Da rilevare in positivo la piccola parentesi dedicata al racconto dei giorni della rivoluzione messicana, mentre in negativo appare lampante l’esagerazione nell’attribuire al protagonista John Grady una serie infinita di doti morali positive, di qualità fuori dal comune e di capacità di cavarsela in situazioni disperate che sono davvero troppe per un ragazzino di sedici anni alla sua prima esperienza lontano da casa in mezzo a uomini crudeli e senza troppi scrupoli.
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un sogno
Adoro gli spazi aperti e la natura senza tante persone attorno. Sogno di possedere un cavallo, di cavalcarlo, di parlargli, di conoscerlo e farmi conoscere. Mi sono commosso quando John è andato a riprendere il suo Redbo che ha risposto alla voce del suo padrone " e subito gli strofinò il muso sul petto".
Mi sono sempre piaciute le ambientazioni western. Soprattutto ammiro ed invidio il coraggio dei due ragazzi che partono da casa per raggiungere un sogno di vita. Lasciano la terra natia, il Texas, per passare il confine e ritrovarsi in Messico dove ancora esistono grandi spazi verdi, numerose mandrie da accudire, cavalli allo stato brado da catturare e domare.
C'è anche una storia d'amore in questo viaggio. Tenera e amara. E tanta amicizia. Quella fra John e Rawlins. E quella che si crea con il giovane compagno di viaggio raccolto per strada. Avevo letto questo romanzo parecchi anni fa. L'ho ripreso in questi giorni e l'ho divorato. Lo consiglio vivamente.