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Tornare a casa
Glory e Jack, due degli otto figli del reverendo Boughton, sono di nuovo a casa, a Gilead. Sono gli unici figli che, in qualche modo, non si sono realizzati nella vita adulta, non hanno un lavoro stabile, una posizione sociale salda, una loro famiglia regolare.
Glory è la più piccola di casa Boughton, è sempre stata una ragazza intelligente e devota, troppo ingenua e sensibile però, così si è lasciata ingannare e illudere. La sua vita sembra essere pervasa dai rimpianti.
E Jack… Jack invece è la pecora nera, il figlio ribelle, scapestrato, colui che si è sempre comportato male e ha deliberatamente voltato le spalle alla sua famiglia.
Adesso sono tornati, in quella che un tempo è stata la loro casa, l’ambientazione della loro felicità infantile, ad occuparsi dell’anziano padre.
Un romanzo profondamente intimistico, intriso di malinconia e di riflessioni esistenziali e religiose. La scrittura di Robinson riesce ad accompagnarci lungo i sentieri di emozioni e sensazioni estremamente familiari ma alle quali è molto difficile dare voce.
Il senso di frustrazione di Glory, di calma tristezza per tutto quello che non c’è stato nella sua vita, un’esistenza fatta di promesse non mantenute.
Il senso di colpa di Jack, il suo sentirsi inadeguato, l’ombra rispetto alla luce della sua famiglia, il tormento continuo dato dall’essere consapevole di non stimarsi e di non riuscire a cambiare.
Queste, in sintesi, le coordinate che danno vita ad una narrazione estremamente lenta, tesa a scandagliare due anime inghiottite dalla loro solitudine.
Ho trovato questo romanzo meno riuscito rispetto a “Lila”, i personaggi mi sono sembrati eccessivamente statici e troppo ripiegati su loro stessi.
In ogni caso siamo di fronte ad una lettura densa di calma malinconia, che mette in luce ciò che si trova sotto la superficie di molte esistenze e che la penna di Marilynne Robinson riesce a descrivere benissimo.
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Il figliuol prodigo
La narrativa americana ha dei tratti comuni, che non sempre mi sono congeniali, la ruralità, la famiglia, i pastori di anime. Questo libro fa parte di una trilogia (che io sto leggendo per errore in senso inverso!!!) e l’ho molto apprezzato, anche se lo stile è estremamente lento, forse perché l’autrice vuole proprio farti entrare in questo mondo in punta di piedi, per rispetto della sofferenza. E’ un bel libro perché è carico di emotività, ti porta ad immedesimarti in più personaggi, a chiederti che cosa faresti tu al posto loro. Ti porta a capire la loro sconfitta, a leggere nelle loro anime i segni della vita, a sperare che si sciolgano i loro conflitti, anche quelli interiori. Un libro davvero di grande profondità.
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' Gilead dei girasoli '
Il vecchio padre : "La chiamano tutti casa, ma nessuno si ferma".
Siamo qui nella campagna americana, nella "rurale Gilead, Gilead dei girasoli".
Nella casa del vecchissimo pastore d'anime, dei tanti figli solo Lucy torna per accudire il padre : una donna di 38 anni provata dalla vita.
Ecco giungere anche uno dei fratelli, Jack, un quarantenne dalle molte sconfitte, un uomo che non può fidarsi di se stesso, che ha perduto persino la speranza ; "un uomo della sofferenza, intimo del dolore, e uno davanti al quale gli uomini distolgono il viso". Ed ora "eccolo qui (...), macilento e provvisorio, con ben poche tracce della sua giovinezza tranne quell'elusività, quella reticenza divertita".
Un libro meraviglioso, non riesco a trovare altro termine più appropriato.
L'autrice, Marilynne Robinson, è capace di una profondità che incanta, talvolta sconvolge, assuefatti come spesso siamo alla superficialità : in una mentalità come la nostra che pretende di dare una risposta a tutto, abituata a sociologizzare, storicizzare e quant'altro ancora, lei ci pone di fronte a un personaggio scomodissimo perché infrange la troppa fiducia riposta nella ragione.
Un grande romanzo d'amore e di conflitto, con una donna che "prendeva tutto a cuore" e che "aveva paura di arrabbiarsi, e questo la faceva arrabbiare" ; e Jack, gentile e controllato, ma dai dettagli imprevedibili , usa l'ironia e l'intelligenza forse per proteggersi, forse per fuggire da se stesso. Poi il vecchio padre, i cui silenzi "non erano mai solo silenzi".
Ma "che cosa significa tornare a casa?".
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Amare malgrado tutto
Siamo a Gilead, immaginaria cittadina dello Iowa, nella seconda metà degli anni ’50 in un'America attraversata dall'eco di forti tensioni razziali; Glory, 38 anni, la più giovane dei figli del pastore presbiteriano Robert Boughton, torna a casa con un bagaglio di fallimenti e delusioni per assistere l'anziano padre ormai vedovo e prossimo alla morte. Alla porta si presenta inaspettatamente anche Jack, uno degli otto fratelli Boughton, la pecora nera della famiglia, lo scapestrato, quello che fin da giovane combinava guai e faceva parlare tutta la cittadina, sparito da vent'anni senza lasciare traccia, assente perfino ai funerali della madre e ora misteriosamente ricomparso senza dare troppe spiegazioni. Glory, sensibile e premurosa, si prende cura sia del padre, ormai infermo, sia del fratello, provato nel fisico e tormentato nell'animo da una vita costellata di errori e sofferenze. La “casa” è il luogo fisico e simbolico attorno a cui ruota tutto il romanzo costituito da pochissime azioni, ripetitive, che si svolgono per lo più all'interno dell'abitazione: l'accudimento del padre, la preparazione dei pasti, la sistemazione del giardino e i tentativi di Jack di far ripartire il motore di una vecchia automobile ferma da anni nella stalla di casa. L'intreccio è costituito quasi esclusivamente dai dialoghi tra padre e figlio, tra l'anziano reverendo Boughton e l'amico congregazionalista Ames, ma soprattutto tra fratello e sorella. Jack e Glory si prendono cura l'uno dell'altra con premura e discrezione, aprono a poco a poco il loro cuore, si raccontano i rispettivi fallimenti, i dolori a lungo soffocati ed inespressi, l'incapacità di essere totalmente sinceri con il padre per paura di deluderne le aspettative, la difficoltà di sentire la “casa” come un rifugio in cui poter tornare, ma soprattutto un luogo in cui poter restare: “la chiamano casa, ma nessuno si ferma”. Una storia intima, una dolorosa confessione ma anche, o forse soprattutto, un romanzo che parla dei dubbi della fede, della possibilità del perdono, della speranza di salvezza. Può il figliol prodigo tornare sulla retta via? Come possiamo accogliere chi ci ha fatto soffrire? Le risposte che la Robinson ci dà sono sia quelle tratte dalla Bibbia e dalla sua fede calvinista (numerose le citazioni dalle Sacre Scritture), sia quelle che scaturiscono dal cuore dei suoi personaggi:
“Si deve perdonare per poter capire. Fino a quando non perdoni ti difendi dalla possibilità di capire” (p. 46) "Amarlo malgrado tutto era il triste privilegio dei legami di sangue" (p. 72)
“Una persona può cambiare. Tutto può cambiare” (p. 232)
"Era convinta di essersi salvata dalla vergogna e dal fallimento nudo e crudo grazie al bene che era in grado di fare al fratello" (p. 258)
Eppure in questa storia, come nella vita reale, non è tutto così semplice: Glory continua a vivere di ricordi e rimpianti, il vecchio padre non sembra essere in grado di perdonare il figlio fino in fondo e lo scapestrato Jack non dà l'impressione di essersi completamente redento. Tra un dialogo e l'altro, un tentativo di chiarimento e una parola di troppo che fa precipitare nelle reciproche incomprensioni, le domande del lettore restano in sospeso e mantengono viva la curiosità, creano una certa tensione: cosa nasconde Jack nel suo tormentato passato? Per quale motivo le lettere che ogni giorno da anni spedisce ad una donna tornano al mittente? Perché, conscio dell'imminente morte del padre, Jack decide di ripartire? L'ultima parte del romanzo spiega solo in parte i retroscena della vita misteriosa e dissoluta di Jack e il finale aperto lascia spazio alla debole speranza che qualcosa di buono sia stato seminato e che prima o poi, forse, se ne vedranno i frutti.
Marilynne Robinson è nata nel 1943 nell’Idaho e vive da anni nello Iowa, dove insegna scrittura creativa. Ha vinto il Pulitzer nel 2005 grazie a Gilead, che insieme a Casa e Lila costituisce una trilogia. Ha ricevuto nel 2012 la “National Humanities Medal” attribuita direttamente dal Presidente degli Stati Uniti 'per la grazia e intelligenza della sua scrittura' e da Obama è stata intervistata nel settembre 2015 dopo che il Presidente aveva dichiarato di aver letto ed apprezzato Gilead. E' stata ospite in Italia nel 2016 per ricevere il Premio Mondello per il miglior autore straniero e in quell'occasione Michela Murgia ha spiegato il motivo per cui la Robinson merita la nostra attenzione: “Ho scelto Marilynne Robinson perché con i suoi libri – in particolare la trilogia composta da Gilead, Casa e Lila - in questi anni si è mostrata capace più di altri di rendere narrativamente il dono perduto dell'epica contemporanea. […] Sembra non esserci epica letteraria possibile in un tempo pensato come una sequenza di istanti contemporanei intercambiabili, eppure Robinson ne ha scritta una. […] Di quel filo non spezzato abbiamo un disperato bisogno”.
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Il figliol prodigo
Un libro profondo, religioso, pieno di delicatezza ma non ha il tocco magico degli altri romanzi della Robinson: Lila e Le cure domestiche. Avendo letto prima gli altri direi che mi è mancata la profonda empatia con i personaggi che in questo caso non è scattata. Jack si lamenta troppo, lo vedo troppo remissivo e Glory lo stesso. Non mi hanno catturato. Non hanno l'energia di Lila e nemmeno la malinconia, la inafferrabilità dei personaggi dei precedenti libri. E anche i due amici preti sono diventati vecchi. O forse dovrei rileggere il romanzo in un altro momento.
In ogni caso la lettura è rilassante, pervasa di religiosità, calma, del conforto della presenza amorevole di Dio in tutte le cose e situazioni. Il senso di colpa di Jack però mi pare eccessivamente sviluppato, nel senso che i personaggi piangono troppo e c'è questo clima passivo di pentimento e di sentirsi indegni che però non ha nessuna conseguenza propulsiva benefica. Le cose si muovono troppo lentamente sia sul piano della maturazione intellettuale e interiore che dei fatti in sè. Questa passività appesantisce il testo che ho trovato stagnante rispetto a Lila.
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IL PROFONDO CUORE DELL'AMERICA
Ognuno di noi nella propria vita di case ne ha molte, una sola o nessuna, a seconda di come esse o essa, se ci sono, ha messo radici inamovibili nel nostro modo di essere al mondo e di vedere la vita e coloro che ci circondano. E’ questa la tematica profonda del terzo romanzo della sessantottenne e poco prolifica Marilyn Robinson nata di un paesino dell’Idaho (Usa): la casa del reverendo Robert Baughton, ormai giunto alla fine della vita, accoglie due dei suoi otto figli, i più fragili, quando essi fuggono dal mondo che li ha in un modo o nell’altro traditi. Glory è stata ingannata da un uomo sposato, e Jack, dopo aver abbandonato un figlio, ha un’esistenza irrequieta, fatta di celle di prigione, accattonaggio e relazioni tormentate. L’immaginario villaggio dello Iowa, Gilead, è il luogo dove la dimora paterna con le sue leggi li attende, immobile nel tempo e nello spazio, le cui mura sono talmente solide da non lasciar filtrare quasi nulla dall’esterno: ed è precisamente l’impossibilità di conciliare la forza tirannica di quel dominio fatto più di silenzi e allusioni che di divieti, con l’esperienza adulta, a rendere irrealizzabili, monche, le vite dei due fratelli. “Casa” condivide con il predente romanzo dell'autrice, "Gilead" personaggi e luoghi, come se la Robinson, a disagio nell’America contemporanea, quella delle metropoli, delle serie tv e di Trump/Clinton, sentisse l’urgenza di trovarsi un angulus, appartato, lontano anche nel tempo, considerato che la storia è collocata negli anni 50’: un milieu rurale, ove la l'umanità si divide in chi consiera la Bibbia testo sacro e in chi vi si ribella, in chi perdona e in chi esilia, forse mai scomparso, insomma il cuore profondo dell’America, al centro di tutta una tradizione letteraria, cui forse dovremmo rassegnarsi a prestare attenzione per comprendere i destini del pianeta.