Canto della pianura
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A voce sola
Questo è un romanzo corale, redatto però in uno stile particolare, un fluire ininterrotto del parlato, un periodare collettivo a voce sola, a firma di Kent Haruf, uno scrittore americano che è indicato da molti critici, a mio parere a ben ragione, al livello dei più grandi romanzieri statunitensi, da Ernest Hemingway a William Faulkner, da John Dos Passos a Francis Scott Fitzgerald, da J. D. Salinger a Jack Kerouac, passando per Philip Roth e Saul Bellow.
Come quelli, Kent Haruf descrive con incisività la realtà americana del suo tempo, ritrae a modo suo, con estrema concretezza, l’essenza della sua gente, nel bene e nel male.
Ci fa conoscere l’odierno homo sapiens d’oltreoceano, lo yankee visto nel suo habitat più naturale, quello delle grandi estensioni rurali tipiche della gran parte della provincia americana, come a dire l’americano più vicino allo stato brado, non ancora plasmato dall’opportunismo, dalla frettolosità, dall’individualismo necessari a sopravvivere nelle grandi metropoli statunitensi, dove invece l’uomo medio è costretto a mascherarsi, fingere di essere ciò che non si è, perché troppo spesso in America spostarsi, trapiantarsi dalla provincia alla città, per i motivi più vari, per studio, per frequentare i college, le università, e poi per lavoro, significa trasformarsi in tutt’altro, perdendo la propria impronta originaria, accentuando per difesa solo i lati caratteriali aspri e deleteri.
Allora Kent Haruf per contrappunto analizza la vita vera, in tutte le sue declinazioni, quella in versione ancora genuina, intatta nelle sue caratteristiche, qualunque queste siano, non necessariamente quindi solo quelle idilliache, tutt’altro.
Haruf non fa della morale, trae morale dell’esistenza di quanti ancora non “traviati” dall’esasperata civilizzazione, e perciò ancora americani puri e non spuri, quasi fossero, in un certo senso, diretti discendenti degli indigeni nativi americani, a suo tempo colonizzati.
Descrive allora lo scorrere dei giorni di Holt, emblematica contea, del tutto identica alle tantissime analoghe realtà a tenuta prettamente agricola che, come un immenso patchwork, costituiscono nell’insieme la coperta che si estende a coprire l’intero continente americano.
Coperta il cui tessuto è quindi costituito dai tanti piccoli e grandi paesi, cittadine più o meno vaste, villaggi di poche case, fattorie ed immense estensioni terriere, strade polverose, colline, lunghissimi nastri d’asfalto, motel, miriadi di campi coltivati, in sintesi la grande provincia rurale yankee, il cuore stesso dell’America.
Molti autori, nei loro libri e nei loro film, celebrano l’America on the road: Haruf ci parla di Holt, non si sofferma “on the road” ma sulla “little town” e sui suoi abitanti, così facendo esterna i luoghi e l’umanità dei suoi protagonisti in maniera molto più semplice e chiara, diretta e ruspante, genuina, forse finanche trasparente, certamente priva di fronzoli ed orpelli.
Holt è l’emblema dell’America provinciale, qui il termine “provincia” non ha alcuna valenza diminutiva, indica invece dove origina, forte ed impetuoso, il battito vitale della nazione, quello che ne fa il grande Paese che è, sotto tutti i punti di vista.
Gli abitanti di Holt sono perciò la proiezione di tutti gli americani, con le loro caratteristiche più marcate. Qui si parla allora di tutto, di solitudine e solidarietà, di unione e isolamento, di valori e di viltà, di rinuncia e tenacia, tutti insieme sussurrati in modo piano, anche quando i toni salgono.
Il valore aggiunto della prosa che Haruf, in questo ed in altri suoi libri, pure ambientati ad Holt, sta in questo giungere dal particolare al generale, descrive magistralmente, nei dettagli, il modo di essere tipico di questi luoghi, e di riflesso quello di tutto il resto del Paese.
Per Haruf la grande città altro non è che quanto di esagitato rimane dopo la trasposizione esasperata della provincia da cui deriva.
Perciò ne scrive l’origine, il divenire, il modo di porsi di fronte agli usuali accadimenti dell’esistenza, e lo fa così come va fatto, semplicemente esponendo i fatti crudi del trascorrere dei giorni, a scuola, al lavoro, nelle case, nei campi, nei luoghi di svago, esattamente come avvengono, sospendendo ogni giudizio, astenendosi da ogni considerazione etica di sorta.
Ci parla allora dell’allevamento del bestiame, del comportamento di vacche gravide o sterili, e poi di, vitelli, cavalli, cani, animali da cortile; delle pratiche di inseminazione di queste bestie, dei loro parti, delle loro malattie, finanche nei particolari delle autopsie veterinarie necessarie alla salvaguardia di infezioni. Ed ancora, si sofferma per esempio, cambiando di colpo prospettiva, ma senza scosse, sull’andamento della locale vita scolastica, scrive di aule, lezioni, incontri periodici con i genitori ed alunni, nonché sui dissidi eventuali tra professori e studenti; e continua, analizza il fallimento di unioni o la riuscita di matrimoni, l’instaurarsi felice o meno di legami ed amicizie, lo scaturire di incomprensioni e conseguenti litigi e dissapori.
Non si sottrae a mostrarci il bailamme della vita sociale locale, il tempo libero trascorso nei cinema, o nelle sale da ballo, segue i riti delle bevute nei bar del fine settimana, o i picnic nei parchi e le escursioni in città.
Senza commenti constata l’osservanza, più per abitudine che per fede, delle funzioni religiose, e però seguite in modo costante e assidua.
Ci presenta tipi tristi e pessimi soggetti, brave persone e rozzi campagnoli dal cuore d’oro, ci fa partecipare in prima persona alle sagre ed ai festeggiamenti delle feste comandate, offre alla nostra attenzione euforie e depressioni, gravidanze indesiderate ed insegnanti assai più caritatevoli di genitori chiusi nel loro menefreghismo ipocrita.
Segue i ragazzini nell’usuale pratica americana di addetti alla consegna in bicicletta dei giornali nelle ore antelucane, nonché nei loro giochi, pensieri, sentimenti, tribolazioni di ogni tipo, sempre in prima persona e senza mediazione degli adulti, questo è anche un romanzo di crescita, e non solo dei giovani.
Kent Haruf emoziona, ci fa commuovere, indignare, riflettere, arrabbiare, e lo fa senza sforzo.
Lo scrittore riporta i fatti, ma non interferisce con loro; è un cronista, dispensa il racconto, si presenta quasi come un cantastorie folk, ma non fa distinzione tra buoni e cattivi, fra cose giuste o infamità, tra egoismi e slanci di umanità ed empatia, lascia che le emozioni nascano, le sensazioni prendano, i fatti scorrano, accadano, ce li sussurra all’orecchio, e basta.
Le cose che riporta seguono una loro logica, anche abbastanza comune, usuale, prevedibile, e i tipi umani reagiscono ai fatti secondo la loro indole: proprio per questo, talora ci sorprendono, sono imprevedibili, esattamente come avviene nella realtà.
Haruf è un romanziere che riporta il vivere, il lascia vivere e vivi come ti senti di vivere, poi le conseguenze ne derivano da logica o da sentimento, democraticamente, a scelta.
Lascia al lettore la facoltà di scegliere quale personaggio adottare, per chi simpatizzare, da chi staccarsi, chi lo annoia o chi invece detesta, al netto di ogni altra considerazione che non sia quella personale di chi legge e segue le vicende narrate, esattamente come avviene nella vita reale.
Ambienta le sue storie nella più vera, e genuina, realtà americana, quella della provincia agricola, che tanta ricchezza fornisce al paese e tanti tipi umani esporta, ognuno in qualche modo, e ciascuno a suo modo, forgiati dai cicli della ruralità.
I suoi personaggi vivono motu proprio, si raccontano, questo non è un romanzo di dialoghi, è un dialogo continuo, ognuno che agisce parla, principalmente a sé stesso prima che con gli altri protagonisti, e così dicendo rivela, racconta, si espone, si mette a nudo e insieme si consiglia e si suggerisce sul meglio da fare per stare al suo meglio, proprio secondo la sua indole ed il proprio interesse. Interesse che può essere bieco e meschino, come quello di un genitore di rigorosi principi morali ma freddo, insensibile, arido, ed anaffettivo, o quello di uno studente adolescente, mal cresciuto, viziato, incapace e cattivo che vigliaccamente mostra la sua ignominia rifacendosi sui più deboli. Coinvolgimento che può essere invece anche solidale in maniera tanto burbera quanto commovente, come assicurarsi che una povera ragazza, ospite per bisogno e necessità, abbia coperte necessarie per ripararsi dal freddo notturno, fino a preoccuparsi di procurarle, a proprie spese, la migliore carrozzina per neonati reperibile ai grandi magazzini per l’imminente arrivo di un frutto di gravidanza indesiderata, e però coraggiosamente accettata: qui si vede, a gran luce, il gran cuore dell’America, la faccia bella del paese ospitale ed accogliente.
I buoni nel testo di Haruf non sono tali per definizione, spesso sono rudi e grossolani, insospettabili ed improvvisi, istintivi, ma la loro virtù sta nel rendersi accoglienti, disponibili ad ascoltare e a capire, a immedesimarsi, quindi crescono, migliorano, solo così si evolvono in americani buoni.
Kent Haruf, come i pionieri americani, percorre in lungo e in largo la pianura della provincia rurale nel cuore degli states per tracciare i propri, insoliti e mirabili, estremamente esplicativi, cerchi nel grano. I solchi più profondi non sono tracciati dagli alieni, ma dagli umani migliori, lasciano il segno.
Titoli come il “Canto della pianura” e poi altri a seguire, come “Crepuscolo” e “Benedizione” e altri ancora, più di un testo scritto sembrano uno spartito musicale.
Questo testo, che nella lingua originale suona come “Plainsong”, è un romanzo che canta, letteralmente, è una canzone dolcissima, una poesia in musica, riporta una melodia, quasi una lirica dal ritmo ipnotico, un pezzo lieve, sommesso, a fior di labbra e non a voce spiegata, provvisto di un originale ritmo sereno, tranquillo, discreto. E potente.
Mai pesante, noioso, monotono, tutt’altro, è un canto soft da cantautore alla Bob Dylan anziché uno stile graffiante alla Bruce Springsteen: giusto per intenderci, perché qui si parla di America, la storia si svolge ad Holt, una imprecisata e immaginaria cittadina rappresentativa al meglio di tante analoghe realtà urbane site nel cuore degli states più genuini, quelli a timbro rurale, i soli che più delle grandi città, della grande Mela e di tutte le note megalopoli costituiscono l’America, la sola, unica, essenziale vera America. Perciò serve un brano deciso, ma fluido, non una nenia, o un fracasso, ma una ballata.
“Canto della Pianura” è un canto sottile a voce sola, quasi senza musica, e però armonico, direi a cappella, segue un ordine preciso di note che in attimo prende il lettore e lo accompagna lieve quasi in un volo pindarico sulla pianura del consorzio umano, anzi più in alto, svetta sui monti.
Levita in alto, non permane a livello del suolo, questo è quanto sa fare una buona lettura, in questo eccelle un bravo romanziere come Kent Haruf, un autore che della vita americana ha saputo trarne, come pochi sanno fare, una canzone d’autore sommessa, da sussurrare, in tono lieve, senza accompagnamento, a voce sola. E che ti resta in testa anche dopo, a spartito chiuso.
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Holt
Storie di ordinaria umanità. Questo ci troviamo di fronte leggendo “Canto della pianura” di Kent Haruf.
Tom Guthrie è un professore di storia americana al liceo, ha due figli preadolescenti e una moglie infelice che non vuole più stare con lui.
Victoria Roubideaux è una diciassettenne incinta, abbandonata prima dal suo ragazzo, con cui ha avuto una relazione senza importanza, e dopo dalla sua stessa madre, che non vuole più tenerla in casa con sé.
I fratelli Mcpheron sono due anziani allevatori, scapoli, che vivono nel mezzo della campagna, diciassette miglia a sud di Holt. Malgrado il loro apparente isolamento sono due persone generose ed aperte verso la vita e verso i propri simili.
Ike e Bobby, i due figli di Guthrie, non più bambini, non ancora adolescenti, si affacciano alla vita attraverso esperienze di solitudine e sofferenza, ma il canto della pianura sembra voglia sussurrare che oltre a queste, sono possibili anche la solidarietà, la vicinanza, l’appartenenza.
Storie di ordinaria umanità ma, proprio per questo, di umanità straordinaria si susseguono nell’immaginaria cittadina di Holt, in Colorado.
Seguiamo i personaggi che danno vita a questo malinconico romanzo mentre trascorre lentamente il ventoso autunno e sopraggiunge il freddo inverno, mentre pian piano torna la primavera e la vita che nasce, rinasce e si trasforma intrecciando le diverse esistenze degli abitanti di Holt.
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Freddo americano
Siamo a Holt, immaginaria cittadina del Colorado, nel cuore degli Stati Uniti. La campagna Americana è battuta dal rigido clima invernale che, oltre alle ossa, sembra gelare anche il cuore delle persone. La visione che Haruf dà della piccola comunità rurale scenario del libro, e con lei dell'intero paese, è infatti fredda, chiusa, ostile. Per strada, al lavoro, a scuola, anche nelle chiacchiere da bar o da barbiere, si percepiscono atmosfere ben lontane dal tanto sbandierato sogno americano. All'interno di un contesto in cui dominano la solitudine, il maschilismo, il bullismo, la provocazione, dove le questioni si risolvono a cazzotti e le minacce sono all'ordine del giorno, conosciamo una carrellata di personaggi che fa del suo meglio per cavarsela. Tom Guthrie, professore di storia nel liceo di Holt, alle prese con la depressione della moglie e con i problemi scolastici. Ike e Bobby, i suoi figli, bambini cresciuti troppo in fretta, che si dividono tra studio, lavoro, giochi e il confronto con un mondo adulto difficile da decifrare. Victoria Roubideaux, studentessa delle superiori che si ritrova incinta e abbandonata dalla famiglia e dal ragazzo ma decide di portare avanti la gravidanza nonostante tutto. I fratelli McPheron, contadini e allevatori, scapoloni incalliti che vivono e lavorano insieme da quando, adolescenti, persero i genitori e che accolgono Victoria in casa loro dove mai nessuna donna aveva messo piede. Maggie Jones, collega single di Guthrie, che vive con il padre malato ed è sempre pronta a dare una mano agli altri. Storie di vita ordinaria che la pacata penna di Haruf rende speciali, donne e uomini normali che, nel buio della società che li circonda, sembrano tenere viva una sottile fiammella di speranza. "Fra gli alberi iniziò a soffiare il vento, in alto le cime si muovevano. Comparvero le rondini e si misero a cacciare crisope e insetti-foglia nel crepuscolo. L’aria si faceva sempre più dolce. Il vecchio cane emerse dalla sua cuccia nel garage e si mise a gironzolare per il cortile recintato, annusando i pantaloni dei ragazzini, annusando la bambina e passandole la lingua rossa e calda sulla fronte, poi corse in veranda dalle donne e le osservò, si guardò attorno, si girò su se stesso e si sdraiò, dimenando nella polvere la coda arruffata. Le due donne lasciarono che la brezza soffiasse fresca sui loro volti e sbottonarono un po’ le camicette per sentirla sul petto e nelle ascelle. E presto, molto presto avrebbero chiamato gli altri per la cena. Ma non subito. Rimasero in veranda ancora un po’ nell’aria di quella sera di fine maggio, diciassette miglia a sud di Holt".
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'Uomini e no'
L'america profonda, rurale. L'America di cui quasi non si parla, che si pensa 'trumpiana' . Quell'America lontana perfino dalla nostra immaginazione.
Siamo a Holt, con "le casette arretrate rispetto alla strada, con il loro giardinetto striminzito e il prato antistante marrone per l'inverno". Intorno, la "campagna (...) piatta e sabbiosa, con i suoi boschetti di alberi rachitici". Vaste pianure che danno la sensazione di uno sfondo desolante.
I personaggi sono esponenti di questa comunità sfilacciata, senza tradizione, senza valori forti: ognuno nella propria solitudine a condurre una vita non colmata di senso.
Una madre che scaccia di casa la figlia diciassettenne incinta. Teppismo, violenze, bullismo e regolamenti di conti. L'idea di 'farsi giustizia da sé' . Lo Stato ben poco presente. Una scuola orrenda, in tutte le sue componenti. Poi un consumismo sessuale diffuso, licenziosità che ricade talvolta su ragazzine 'consenzienti' ridotte a consumo del dominio maschile.
Lo squallore ambientale ed estetico che fa da cornice a una deprivazione umano-esistenziale deprimente.
Quelle terre, un tempo percorse da dignitosi Indios, ora paiono calpestate da uomini e donne duramente assuefatti.
Ecco però accadere qualcosa di profondamente umano che apre il cuore : un nuovo e inaspettato nucleo familiare si sta formando. Sono i personaggi meno omologati dal nuovo conformismo della 'modernità', che dal loro isolamento tendono una mano, danno un volto alla speranza.
"Canto della pianura" non è un romanzo disperato. Haruf è scrittore che racconta pacatamente e sa cogliere le occasioni dove la scelta va verso la vita, dove c'è prospettiva, progetto, dove il dono si colma di senso.
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Ruralità
Secondo libro della “Trilogia della pianura”, dove si ritrovano sia i tratti tipici dello stile di Haruf, come ad esempio la lentezza oppure i dialoghi non differenziati dal testo descrittivo, ma si riscontrano anche notevoli differenze rispetto al primo libro. Qui lo stile è molto più articolato e commentato, meno secco rispetto allo stile adottato in “Benedizione”. Là il fulcro era la storia di un fine vita, qui il fulcro è la storia di una nascita. Anche in questo libro più storie di vita di paese sono intrecciate ed anche grazie a particolari momenti che hanno per protagonisti gli animali, emerge la ruralità americana, che è forse l’impronta maggiore che l’autore voleva lasciare. Fra i due spaccati io ho apprezzato molto di più quello di “Benedizione” forse perché di quella famiglia così unita nel dolore avevo amato proprio tutto, e nessuno dei personaggi di questo secondo capitolo è riuscito a darmi altrettante emozioni.
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Il senso della vita
Già dalla prima pagina mi è sembrato di ritornare a casa, perché Holt, questa cittadina immaginaria che tuttavia assomiglia a tante località americane a carattere prevalentemente rurale, per certi aspetti rispecchia il paese dove abito. Anche lì, come qui, si nasce, si cresce, si fa l’amore e si muore, ma gli abitanti non sono le anonime ombre che si agitano freneticamente in una metropoli, hanno un volto, un nome e anche un carattere. Non c’è nulla di eclatante nelle esistenze descritte da Haruf e proprio per questo, per quanto immaginate, sono palpabilmente vere, ma l’aspetto straordinario è che i semplici eventi che accadono appassionano, però non come in una telenovela, di cui si vuol sapere il seguito di ogni puntata già immaginandolo dapprima, no, tutt’altro. E’ il modo semplice, ma estremamente efficace con cui vengono descritti i personaggi, è la delicatezza con cui vengono mostrati i sentimenti, è quel senso di rispetto, ma anche di umana pietà, verso ciascuno dei protagonisti che fanno di questo romanzo un gioiello. Prendiamo i fratelli McPheron, rimasti orfani da giovani e che conducono un allevamento di bestiame in una vita che è solo lavoro, perché non hanno mai conosciuto la gioia dell’amore; sembrano quasi misogini, rinchiusi in un bozzolo auto-protettivo, eppure accettano di ospitare una ragazza incinta che la madre non vuol più vedere. All’inizio sono preoccupati, ma non tanto per l’impatto che la presenza di un ospite potrà avere nella loro casa, bensì per il timore di essere inadeguati, di non essere capaci di comunicare. Poco a poco i nodi si scioglieranno e la famiglia (sì, la famiglia, perché finiscono per andare oltre una normale convivenza, come quando, se pur impacciati, trepidano nell’attesa del parto) sarà la prova evidente che i legami vanno oltre quelli di sangue, ricomprendendo il reciproco rispetto e un po’ di umano affetto.
Haruf è un grande scrittore, perché il rischio di cadere in una telenovela c’era, ma lui abilmente si è tenuto alla larga, da buon burattinaio che non si vede, ma di cui si intuisce la presenza, ha manovrato i suoi personaggi, ci ha fornito spaccati di vita vera con una serie di piccole storie che finiscono con l’intrecciarsi, con protagonisti che si ritroveranno poi anche negli altri due romanzi della trilogia. La lettura non stanca mai e procede naturalmente secondo il ritmo per lo più blando che l’autore ha impresso alla sua opera.
Così si arriva alla fine senza accorgersi, indubbiamente soddisfatti, ma anche dispiaciuti di non poter andar oltre; non c’è da preoccuparsi, però, perché ci sono ancora Benedizione e Crepuscolo, entrambi egualmente belli, anche loro ambientati a Holt, un luogo che sembra quasi magico perché lì la vita segue il ritmo delle stagioni, perché lì in fondo si vive veramente, perché in ogni azione e in ogni sentimento c’è il senso profondo di sapere in che consiste l’esistenza, in quella strada lungo cui si cammina dall’alba al tramonto, un destino comune che dovrebbe invogliare a soccorrerci, a darci una mano, proprio come fanno tanti personaggi di questa grande trilogia.
E’ un capolavoro, non aggiungo altro.
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Quando più voci compongono una struggente melodia.
Una prosa …”attenta ed educata” racconta sottovoce storie solo di apparente banale quotidianità.
Momenti di vita narrati in modo dolce, accorto, semplice, è un romanzo che mi dà un messaggio preciso.
Le ambientazioni povere e così immediatamente familiari. Le sale da pranzo, le cucine, le stanze da letto, le aule dei professori, le stalle, il binario del treno…le immense pianure scosse dal vento e dalla pioggia e dalla polvere; basta così poco per descriverle. Essenzialità. Nessun aggettivo superfluo.. Eppure invece che freddezza, proseguo nella lettura e sento un legame fortissimo. Perché riesco perfettamente a vedere e a capire.
La solitudine dei luoghi descritti accompagna le vite complicate e tristi di pochi personaggi che conducono esistenze normali. Penso continuamente … ed ora che accadrà? E’ una condivisione più che una semplice lettura.
Racconto forte, fortissimo, che mi colpisce direttamente al cuore.
E’ difficile schierarsi. A tutti vorrei allungare la mano, vorrei dire aggrappati, ce la facciamo insieme. Sono uomini e donne coraggiosi che si rialzano da soli, ma non solo. Con la forza di volontà, con l’ostinazione. Con quella sconosciuta, immensa parola … solidarietà. Con la reciproca compagnia.
Holt, non è solo una cittadina sperduta nelle grandi pianure del Colorado, è il canto a più voci di anime solo superficialmente sole e solitarie.
Di Tom Guthrie e dei suoi figli Ike e Bobby. I ragazzini consegnano il Denver News in tutta la cittadina con le loro biciclette prima di andare a scuola. Il papà insegna Storia americana al liceo.
“Figurati, Maggie, sei bella, disse Guthrie. Non lo sai? Mi togli il fiato.
Lo pensi davvero?
Dio mio, si. Non lo sai? Pensavo sapessi tutto.”
Di Victoria Roubideaux diciassette anni, incinta di quattro mesi. Una stupida puttanella per sua mamma.
“Io ero seduta accanto alla porta e lui è venuto a invitarmi. Quando mi si è avvicinato gli ho detto, non ti conosco nemmeno. Lui ha risposto, c’è bisogno di conoscersi? Bé, chi sei? gli ho chiesto. Che importa? Ha risposto lui. Fa lo stesso. Sono solo uno che ti sta invitando in pista a ballare.”
Di Maggie Jones così risoluta e protettiva.
Dei due vecchi fratelli McPheron, Harold e Raymond. Solitari, scapoli, decrepiti, scontrosi, ignoranti, prigionieri delle loro abitudini, in mezzo alla campagna a diciassette miglia a sud di Holt.
Raymond che decide subito di accoglierla e Harold che si arrabbia ma che accetta.
“Lei guardò prima lui, poi il fratello. Grazie, disse. Grazie di lasciarmi stare qui da voi. Bé, sei la benvenuta, disse Raymond. Davvero.”
“Due uomini anziani e una ragazza di diciassette anni seduti al tavolo sparecchiato di una sala da pranzo di campagna, dopo cena, mentre fuori, oltre le pareti di casa e le finestre senza tende, un gelido vento del nord scatenava l’ennesima tempeste invernale sugli altopiani.”
Haruf così bravo a descrivere paesaggi freddi e luminosi, neve scintillante come vetro sotto il sole, vento che soffia in raffiche improvvise e regolari che gettano i capelli sul viso e impedisce di vedersi davvero al primo sguardo.
Un gelo solo atmosferico.
Poi il buio della casa non più solo atmosferico dopo che lei è andata via.
“Salirono al piano di sopra. Si sdraiarono ciascuno in camera sua, senza riuscire ad addormentarsi, rimasero svegli al buio, separati dal corridoio, pensando a lei, e sentirono quanto la casa era cambiata, quanto all’ improvviso tutto sembrasse vuoto e triste.”
“Mia madre diceva sempre che c’è una lezione in ogni cosa che fai, basta avere gli occhi per vederla …”
Buone prossime letture a tutti.
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Tempi folli ad Holt
“Oh, so che sembra una pazzia, disse lei. Suppongo lo sia. Non so. E nemmeno mi importa. Ma quella ragazza ha bisogno di qualcuno e sono pronta a fare qualsiasi cosa. Ha bisogno di una casa per questi mesi. E anche voi – sorrise – dannati vecchi solitari, avete bisogno di qualcuno. Qualcuno o qualcosa di cui prendervi cura, per cui preoccuparvi, oltre a una vecchia vacca fulva. C'è troppa solitudine qui. Prima o poi morirete senza aver avuto neppure un problema in vita vostra. Non del tipo giusto, comunque. Questa è la vostra occasione”.
Dopo aver letto “Le nostre anime di notte”, Haruf mi riaccompagna nella “sua” Holt. “Canto della pianura” mi è sembrato più un urlo muto. La cittadina di Holt in superficie sembra quieta e calma, ma basta poco per rendersi conto che sotto nasconde un tumulto. I protagonisti sono molti e gli argomenti trattati sono forti e attuali ma affrontati con la delicatezza che ormai mi aspetto da questo autore. Quando parlo di delicatezza non intendo con omissioni per indorare la pillola, no, Haruf va fino in fondo ma sa farlo nel modo giusto.
Ogni personaggio ha le sue sfide da affrontare,ma i fratelli McPheron, Harold e Raymond, mi sono arrivati e rimasti nel cuore.
“Mi dici adesso che cavolo di storia era quella che le hai raccontato nel furgone?
Quale storia? chiese Raymond.
Quella della giovenca che aveva ingoiato il filo di ferro. Dove diavolo l'hai pescata? Io non me ne ricordo proprio.
Me la sono inventata.
Te la sei inventata, disse Harold. Fissò il fratello intento a osservare la stanza. Cos'altro ti inventerai?
Qualunque cosa, se serve”.
Se da una parte l'assenza di punteggiatura che differenzia un discorso diretto da uno indiretto può disorientare il lettore, dall'altra mi sono resa conto che mi spinge ancora di più a prestare maggiore attenzione.
“Canto della pianura” è un libro che fa riflettere, indignare (non potrò mai dimenticare quello che fa Sharlene) e arrabbiare, ma anche sperare. Fatevi cullare dalle bellissime parole di questo autore, che con uno stile delicato e sincero, racconta quanto può essere dura la vita, ma che insieme alle persone giuste, quello che è una difficile montagna da scalare, può diventare una dolce collina su cui passeggiare.
Lo consiglio.
Buona lettura.
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La semplicità della grande letteratura americana
Che Kent Haruf abbia avuto a cuore di descrivere con semplicità la semplicità complessa, si perdoni l’ossimoro, della vita di una piccola comunità americana di una cittadina del Colorado, appare evidente sin dal titolo del romanzo “Plainsong”, che oltre al riferimento dotto di un canto piano diffuso nel medioevo, come precisa in una nota introduttiva il traduttore Fabio Cremonesi, significa “canto semplice e sobrio”.
Siamo infatti di fronte a una narrazione scorrevole e coinvolgente che introduce una serie di piccoli quadri di vita quotidiana in cui il vero protagonista è l’uomo-antieroe, lo stesso che abbiamo imparato ad apprezzare e ammirare nei quadri di Hopper. Alla descrizione della vita provinciale della piccola cittadina Holt, si alternano immagini di vita di campagna, ora serena e contemplativa, ora feroce e spietata. Tutto secondo la visione realistica del mondo di uno scrittore che rifugge da qualsiasi esagerazione romanzesca.
E’ in questa prospettiva che vanno considerati i personaggi, in ognuno dei quali il lettore può riconoscere parte di sé. Così Guthrie, insegnante e padre di due ragazzi, si trova solo a dover assolvere a una duplice complicata funzione di educatore, mentre Ella, sua moglie, in un perenne stato depressivo rinuncia al suo ruolo di moglie e di madre. Ike e Bobby poco più che bambini, imparano ad affrontare la vita con silenziosa sofferenza per l’abbandono della madre e ad avere come unico punto di riferimento la figura paterna.
Splendido è il personaggio di Victoria Roubidaux. Il senso di responsabilità di questa adolescente divenuta donna bruscamente fa da contraltare all’egoismo di sua madre che non esita a respingerla perché incinta, come stupendi sono i due fratelli McPheron rozzi allevatori dal cuore d’oro, che accolgono Victoria e la assistono. Né mancano personaggi negativi, quali Beckman e Dwayne, che rappresentano il lato ignobile dell’uomo.
Una contrapposizione di personaggi e di valori, dunque, che non può semplicisticamente ridursi a una rappresentazione del bene e del male. E’ un ritratto del mondo in cui viviamo con i suoi contrasti e le sue contraddizioni. E ciò che rende ancora più interessante la narrazione di Haruf è che lo scrittore non segue i personaggi nel loro iter psicologico, ma lascia al lettore la facoltà di interpretarne i pensieri e i sentimenti, conferendogli così un ruolo attivo nel romanzo. E’ la stessa tecnica già usata nella grande letteratura americana da Hemingway che sosteneva che nei suoi romanzi ciò che era immediatamente evidente altro non era che la punta di un iceberg. Al lettore interpretare tutto ciò che rimaneva sottinteso.
Un romanzo che ha come protagonista l’uomo che nella sua singolarità riesce tuttavia a rappresentare la collettività nella sua “normalità”, un’opera che rifugge dalle rappresentazioni romanzesche e si fa cronaca di vita vissuta.
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“Plainsong”
Holt, con le sue campagne piatte e sabbiose, Holt con i suoi boschetti e fattorie isolate su strade sterrate, Holt, luogo di tempo che scorre in un flusso inesorabile del susseguirsi di stagioni e relazioni, Holt e la sua malinconia.
Tom Guthrie, insegnante di storia americana, è solo a crescere Ike e Bobby, rispettivamente di nove e dieci anni. Ella, la moglie, affetta probabilmente da una forma aggressiva di depressione, si abbandona alla sua condizione trasferendosi a Denver dalla sorella. Come ogni mattina, i piccoli, si accingono a consegnare i giornali ai rispettivi destinatari, lavoro al termine del quale si recano a scuola dove le loro strade, temporaneamente si separano. Silenziose e preziose le visite alla signora Stearns.
Victoria Roubideaux, diciassette anni, incinta, cacciata dalla madre alla scoperta del futuro nascituro, trova appoggio prima da Maggie Jones, insegnante della scuola, di poi dai fratelli Mcpheron, Harold e Raymond. Questi ultimi, che hanno vissuto mezzo secolo, hanno perso in tenera età i genitori talché, lasciati gli studi, si sono mantenuti dedicandosi interamente agli animali e ai campi. Il bestiame è tutto ciò che conoscono. Tra i tre si instaurerà un rapporto profondo, di affetto, solidarietà e complementazione. Ciascuno, infatti, con la sua presenza, con i suoi silenzi di parole pensate ma non dette, con i suoi gesti goffi, aiuterà l’altro.
E dallo sviluppo di queste vicende, tra loro intrecciate indissolubilmente, prende vita “Canto della pianura”, capitolo della nota trilogia che semplicemente entra dentro il lettore, lo conquista. Chi già conosce la penna dell’americano, sa bene, come in ogni singolo volume pensato ed ideato dallo stesso, si possa riscontrare, seppur l’ambientazione sia la medesima, un’unicità senza eguali. Ecco perché taluno episodio necessita di essere interpretato e conosciuto singolarmente, individualmente. Non solo, ogni pagina è intrisa di una sua dimensione ove, a prescindere dallo scorrere dei minuti, le difficoltà delle relazioni umane sono le protagoniste indiscusse. Denominatore comune, la solitudine.
In “Plainsong”, titolo originale dell’opera (vi consiglio di leggere le note iniziali relative alla traduzione di questo che letteralmente significa “canto piano”), oltre a detto senso di malinconia e isolamento, che è proprio e riscontrabile anche in “Benedizione”, è presente un carattere ulteriore: l’altruismo, l’accudimento, la generosità, l’aiuto. Tali vite spezzate che sembrano non avere possibilità di rinascita, di riscatto, che cadono nei dolori e che da essi sono condizionate, trovano in piccole azioni, conforto.
Quello narrato è un coro di voci che si innalzano nel cielo descrivendo luoghi, oggetti, anime, vite, esistenze, difficoltà, gioie, lacrime, imprevisti, sorprese, ferite che hanno tempi di degenza lunghissimi, se non irreversibili. Ed è a fronte di tutto ciò che si contrappone questa volontà di darsi una mano, di prodigalità ed umanità gratuite, senza tornaconto. Elementi positivi, che si contrappongono naturalmente ad uno scenario cupo, decadente, nuvoloso.
Lo stile, inoltre adottato, si differenza e peculiarizza rispetto al precedente episodio della serie. Se infatti in “Benedizione” ci trovavamo di fronte ad un linguaggio austero, stringato, caratterizzato quasi nella totalità da dialoghi, in “Canto della pianura” Haruf si lascia andare ad un periodare ampio e articolato, a descrizioni e aggettivazioni quasi barocche. Non mancano i dialoghi, che spesso assumono la veste di monologhi duri e crudi, scanditi dall’assenza di fretta, da una lentezza priva di aspettative. Scelta questa che sicuramente è stata determinata dalla coerenza richiesta dai temi stessi trattati; lì la fine della vita, qui il suo inizio, il desiderio di speranza, di cambiamento. Perché l’uomo può sempre redimersi, imparare dai propri errori, rinascere.
Ed in questa ricerca di condivisione e sentimento, sono presenti anche gli animali. Tre sono i momenti che li vedono quali protagonisti – la cernita delle mucche “vuote”, il parto della giovenca, l’autopsia del cavallo – ; attimi narrati, nella loro violenza, con inquietante accuratezza.
Un testo semplicemente imperdibile, i cui personaggi diventano parte integrante di chi legge, un elaborato dove ognuno sentirà il vento frusciare nella campagne del Colorado.
«Non sarà come fare una scampagnata parrocchiale. No, non lo sarà, disse Raymond. Ma tu alle scampagnate parrocchiali non ci sei mai andato, se non sbaglio» p. 117
«Ma tu cosa vuoi? Replicò. Ormai era alterato anche lui. Non penso che tu lo sappia. Vorrei che lo sapessi, ma non credo sia così. E questo non è che un altro esempio.» p. 120
«Per il bambino. Non pensi che il bambino che stai aspettando un giorno vorrà posare la testa da qualche parte?
Si. Penso di si.
Allora sarà meglio procurargli qualcosa per farlo.
Lei lo guardo e sorrise. E se invece fosse una bambina?
Bé, suppongo che dovremo tenercela comunque. E far buon viso a cattiva sorte, disse Raymond. Fece una faccia esageratamente serie. Ma anche una bambina avrà bisogno di un lettino, no? Alle bambine non viene sonno?» p. 180