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È autunno, a New York. Il secondo senza le Torri. Liat ha appena conosciuto Hilmi e gli cammina accanto nel pomeriggio che imbrunisce, mentre pensa: Non hai già abbastanza guai? Fermati, finché puoi! Ma fermarsi non può, perché, nonostante le ferite, la magia della Grande Mela è ancora intatta, e Hilmi ha gli occhi dolci e grandi, color cannella, riccioli neri e un sorriso infantile che spezza il cuore. Lei è di Tel Aviv, fa la traduttrice e si trova negli USA grazie a una borsa di studio. Ha servito nell’esercito e ama la sua famiglia (Che cosa penserebbero, se lo sapessero?). Lui vive a Brooklyn e fa il pittore, e nei suoi quadri c’è sempre un bimbo che dorme e sogna il mare, quel mare di cui da ragazzo poteva cogliere appena un lembo, da lassù, al nono piano di un palazzo di Ramallah. Che questo amore sia un’isola nel tempo, si dice lei. Un amore a cronometro, un amore a scadenza, la stessa indicata sul visto, la stessa impressa sul biglietto del volo di ritorno per Israele, verso la vita reale. Finché, mentre oscillano tra l’ebbrezza della libertà e il senso di colpa, scoprendosi accomunati dalla nostalgia per quello stesso sole e quello stesso cielo, la vita reale non bussa davvero alla loro porta...



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Borderlife 2017-03-10 10:32:07 Mian88
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Mian88 Opinione inserita da Mian88    10 Marzo, 2017
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"Gader Haya"

New York, anni 2002-2003. La ventinovenne israeliana Liat Benyamini, traduttrice originaria di Tel Aviv, sa perfettamente che dall’incontro con Hilmi Nasser, pittore arabo di Ramallah, non potrà nascere che un legame duraturo, destinato a finire a causa delle circostanze ma non anche a svanire col tempo. Sin dal primo momento, infatti, tra loro si instaura un’alchimia senza eguali, un feeling di quelli che capitano una volta nella vita. Peccato solo per quel piccolissimo problema determinato dal fatto che lei è ebrea e lui arabo (seppur islamico non credente e non praticante), e che una loro unione è quanto di più impensabile ci sia visto lo status di guerra per quella striscia di terra, tanto desiderata quanto insanguinata, che lega i loro rispettivi popoli. Un problema religioso-politico che sin dal principio si dimostra essere irrisolvibile, che sin dal principio pone una scadenza al loro rapporto; il 20/05/2003 giorno in cui il visto della studentessa giungerà al termine, giorno in cui la medesima dovrà fare ritorno dalla sua famiglia. Che fare allora? Come eludere questo ostacolo quando entrambi sono perfettamente consapevoli della reciproca impossibilità di varcare quel confine fisico-territoriale-religioso-familiare?
Eppure non riescono a non vivere quel loro sentimento, è impensabile sottrarvisi. Passano i giorni, aumentano i segreti con i rispettivi genitori, ed al desiderio di viverlo, questo amore, subentra anche la paura delle conseguenze: cosa accadrebbe se i genitori di Liat scoprissero di questa relazione? Cosa ne penserebbe la gente? Non ha il coraggio, la giovane israeliana di fare quel passo, non può semplicemente compiere quel gesto. Incomprensioni. Frustrazioni. Il leggero ticchettio del tempo che inesorabilmente scorre, la separazione che incombe. Un dolore straziante, sordo. Lontani fisicamente, soltanto quelle chiamate notturne, bramate ed attese, possono continuare ad unirli..
Con una penna soffice che accarezza e che al tempo stesso nulla risparmia, Dorit Rabinyan offre al lettore un testo stratificato che attraverso il sentimento dell’amore ricostruisce una panoramica completa su una delle questioni più problematiche del nostro tempo; la il conflitto arabo-israeliano. E lo fa dall’interno, ovvero, analizzando proprio quel contesto sociale che più le appartiene, quella realtà ove la stessa è cresciuta, descrivendone pensieri, paure, concezioni, timori, riportando al lettore filastrocche, storie, miti e leggende che sin dalla tenera età vengono trasmessi ai bambini su quei nemici cattivi che sono gli islamici. E dal confronto proprio con Hilmi, portavoce a sua volta di questi ultimi, sono ricavabili quegli stessi pensieri, quelle stesse paure, quelle stesse filastrocche enunciate ai figli arabi su quei nemici cattivi che sono gli israeliani. Unica pecca, le eccessive descrizioni dei luoghi che, soprattutto nella parte centrale, rallentano lo scorrimento.
Quello dell’autrice è un romanzo che arriva a fasi, a più riprese e soprattutto a conclusione della lettura. A causa di contingenze a me non imputabili, non sono riuscita ad inserire la recensione di detta opera al momento esatto del suo termine, i giorni sono trascorsi implacabili eppure lei, era sempre li, pronta a far capolino. Ed ogni volta era un pensiero diverso, un’osservazione nuova, un cavillo che magari ad una prima riflessione era sfuggito ma che, di poi, è sopraggiunto con tutta la sua forza analitica. E da qui, il desiderio di andare oltre il volume stesso, di cercare altri libri sul tema, di approfondire una delle questioni che si, abbiamo studiato durante gli anni di formazione scolastica, ma che è ancora essenziale conoscere.

«E di nuovo mi colpì quell’eco di colpevolezza, oltre che l’ineludibile simbolismo: la perdita delle sue chiavi e il tintinnio delle mie, banale metafora dell’infelice situazione di Israele»

«Era la spilla. La spilla che quando ero bambina tenevo fra pollice e indice mentre correvo a scuola, la spilla che avrebbe dovuto proteggermi dai sequestratori arabi. Mi aveva detto che la tenevo ancora in mano, in mezzo a noi due. Aveva detto che ogni tanto ero così presa da me stessa e dalla mia vigliaccheria da non rendermi neanche conto che lui si pungeva, che continuava a pungersi. Di colpo quel discorso l’aveva sfinito, ammutolendolo »

«Come per dirmi: tu, da quando ti conosco, sei stata fedele ai tuoi genitori e alla tua famiglia, fedele alla tua tribù, allora, ecco, adesso io sono attorniato dai miei. Al momento della verità tornava alla sua vera identità primaria, mi abbandonava e si schierava al fianco di suo fratello. Al momento della verità era uno di loro. Se glielo avessi detto avrebbe negato, forse non ne era consapevole nemmeno lui, ma con il suo comportamento mi aveva mostrato me stessa. Il modo in cui gli avevo voltato le spalle»

« Quella sera mi ha parlato di Ramallah, mi ha raccontato di quanto era cambiata dal ’99 da quando lui era partito. Mi ha raccontato delle tracce dell’Intifada che si vedevano ovunque, della distruzione, degli uomini armati, dei poster dei “martiri”, dei volti velati che si erano moltiplicati, delle moschee gremite, delle disoccupazione, dei poveri e dei mendicanti, dell’atmosfera di disperazione,d ella stanchezza. “Forse è l’unica cosa che non è cambiata qui, l’unica cosa rimasta esattamente com’era»

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Borderlife 2017-02-11 12:48:38 lapis
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lapis Opinione inserita da lapis    11 Febbraio, 2017
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Liat e Hilmi

Liat e Hilmi. Israele e Palestina. Vivono a pochi chilometri l’uno dall’altra ma sono divisi da un abisso di pregiudizi e odio. Eppure nella multietnica New York, lontano dalla propria terra, possono essere solo due giovani ragazzi che si incontrano per caso un pomeriggio d’autunno e si innamorano all’improvviso.

Due giovani che, al di là delle paure e delle diversità, possono ridere insieme, cantare la stessa musica e sognare davanti agli stessi disegni blu. Possono stupirsi di avere nostalgia dello stesso sole, degli stessi fiori, dello stesso calore. E scoprire che, anche quando la rabbia e le ragioni del proprio popolo si infiltrano con violenza nei litigi, si può continuare a volersi bene e a prendersi cura l’uno dell’altro. Entrambi sanno perfettamente, però, che il loro è un amore proibito e provvisorio. Liat fa i conti con il senso di colpa verso la propria famiglia e le proprie tradizioni. Hilmi con la tristezza di essere un compagno da nascondere, di cui vergognarsi. La data del biglietto aereo del ritorno di Liat in Israele a segnare la scadenza in cui le loro vite si separeranno per sempre ed ognuno si costruirà un futuro diverso, da vivere alla luce del sole. Ma nei loro occhi c’è anche la stessa tristezza. La paura della fine, della lontananza, e quella non confessata di non avere il coraggio di crederci davvero.

E’ un romanzo molto descrittivo, dipinge scene di vita che si avvicendano lungo le stagioni e segnano le tappe di un tormentato amore. Sebbene a tratti la narrazione si perda tra mille dettagli, anche un po’ fini a se stessi, alcuni momenti riescono davvero a raggiungere picchi di profondo coinvolgimento, forse grazie all’esperienza autobiografica cui Dorit Rabynian ha saputo attingere per creare due protagonisti davvero vividi, di cui riusciamo a comprendere i sentimenti, le contraddizioni, l’angoscia. Un romanzo in cui però le emozioni si intrecciano sempre all’amarezza di una situazione socio-politica senza soluzione e alla tristezza di un destino già tracciato.

Molti lettori, come me, si sono avvicinati a questo testo a causa dello scalpore mediatico suscitato dalla decisione del Ministero dell’Educazione di Israele di proibirne la lettura nelle scuole, adducendo come motivazione il fatto che gli amori “misti” devono essere considerati una minaccia all’identità religiosa e culturale israeliana. Molti autori si sono mobilitati a favore dell’autrice. Tra tutte, le parole di Svetlana Aleksievic, riportate in copertina: “L’odio genera solo odio mentre l’amore ha la capacità di annullare i confini”, cui fa eco la domanda che Liat un giorno pone a Hilmi: “Dove si trova la linea di confine che separa Israele dalla Palestina?” Lui risponde: “Nella testa”.

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